Giuseppe Verdi (1813–1901)
Rigoletto (1851)
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave da Le Roi s'amuse di Victor Hugo
Prima assoluta Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851

Direttore d’orchestra      Michele Gamba
Regia                               Mario Martone
Scene                               Margherita Palli
Costumi                            Ursula Patzak
Luci                                  Pasquale Mari
Coreografia                       Daniela Schiavone
Maestro del coro                Alberto Malazzi

Il Duca di Mantova             Piero Pretti
Rigoletto                           Amartuvshin Enkhbat
Gilda                                Nadine Sierra
Sparafucile                        Gianluca Buratto
Maddalena                        Marina Viotti
Giovanna                          Anna Malavasi
Il Conte di Monterone        Fabrizio Beggi
Marullo                             Costantino Finucci
Matteo Borsa                     Francesco Pittari
Il Conte di Ceprano            Andrea Pellegrini
La Contessa di Ceprano      Rosalia Cid
Usciere di corte                 Corrado Cappitta
Paggio                              Mara Gaudenzi*

*Allieva dell’Accademia Teatro alla Scala

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala

 

Milano, Teatro alla Scala, lunedì 27 giugno 2022, Ore 20

Preceduta da grande attesa per la regia di Mario Martone, la nuova produzione di Rigoletto non convince completamente ma finisce per scrivere una pagina prestigiosa nella storia scaligera dell’opera per l’esito musicale.Sostenuti dalla direzione del giovane Michele Gamba, che rilegge la partitura nota per nota senza pregiudizi, solisti e complessi musicali di casa in stato di grazia si rendono protagonisti di una esecuzione palpitante accolta dall’entusiasmo del pubblico.

“Tentate ! Il sogetto è grande e immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet[…]”((lettera di Verdi a Francesco Maria Piave da Busseto del 28 aprile 1850 in Abbiati, Giuseppe Verdi, II pag. 59 e seg.))

“Osservo infine che si è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo!! Per qual motivo ? Un gobbo che canta dirà taluno ! E perché no ? … Farà effetto ? … non loso, ma se non lo so io, non lo sa, ripeto, neppure chi ha proposto questa modificazione. Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente defforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore. Scelsi appunto tale sogetto per tutte queste qualità e questi tratti originali, se si tolgono io non posso più farvi musica. Se mi si dirà che le note possono stare egualmente su questo dramma, io rispondo che non comprendo queste ragioni, e dico francamente che le mie note o belle o brutte che sieno non le scrivo a caso, e che procuro sempre di darle un carattere […]”((lettera di Verdi a Marzari da Busseto del 14 dicembre 1850 in Cesari-Luzio, I Copialettere di Giuseppe Verdi, pagg. 109 e segg.))

“La ra, la ra, la la, la ra, la ra, la ra, la ra…… Rigoletto entra in scena affettando indifferenza…”…a dire il vero quasi sempre purtroppo Rigoletto entra in scena con pesantezza e enfatizzando gesti e canto, goffamente, proprio l’opposto di quanto prescritto da Verdi.
Per un'edizione critica che meraviglia ascoltare, finalmente, una direzione critica, nel senso più completo del termine. Rigoletto torna in scena alla Scala con una nuova produzione che auspichiamo mandi in soffitta il (nato)vecchio allestimento Muti/Deflo del 1994((a sua volta, erano passati 23 anni dall’ultima ripresa della regia della Wallmann, presentata a partire dal 1965!)). Al limite dei trent’anni il Teatro osa una nuova produzione, come deve, importante e affida il titolo al regista Mario Martone, che sceglie di mettere in scena la vicenda aggiornandola ai tempi moderni, con il prevedibile ampio risvolto mediatico dei giorni pre e post prima rappresentazione e sottintesi richiami alla vita meneghina e al cinema recente((E’ stato fatto riferimento più volte al film Parasite, film del sudcoreano Bong Jooh-ho)).

La Sala magnifica nel palazzo ducale, primo atto.

Ma l’esito musicale dello spettacolo è tale che cominciamo necessariamente a raccontarne a partire dalla direzione di Michele Gamba, sin dalle prime battute padrone della serata. Lontano dal cercare il facile effetto, il direttore sceglie di rileggere analiticamente la partitura che scorre nota per nota con l’attenzione della prima volta, senza tenere troppo in conto tradizioni esecutive e nel rispetto del testo. L’orchestra, in una delle migliori prove degli ultimi anni, suona decisa e compatta, senza sbavature e gloriandosi di un suono legato che meravigliosamente si integra tutt’uno con il canto dei protagonisti, talora con brillantezza e riflessi argentini degli archi ma più spesso enfatizzando il profondo dolore o le acerbe passioni tramite il suono acido dei legni. Ideale complemento è il coro che, anch’esso in stato di grazia, nel corso della serata, oltre a recitare credibilmente, scrive un’ennesima prestigiosa pagina nel finale primo e in tutto il secondo atto.

Il preludio inizia in tono sommesso e doloroso, per sfogarsi senza enfasi stentorea nell’implacabile, lenta e inesorabile maledizione. E da quel momento, tutta l’introduzione del primo atto sino all’intervento di Monterone, è un capolavoro di tensione narrativa senza soluzione di continuità che toglie il respiro superando, e non era facile, le complicazioni acustiche dovute ad una scena non ideale, a maggior ragione in una sala non facile come quella della Scala.

Ogni suono strumentale, soprattutto quando sono i legni a interagire con i solisti, viene modellato per timbro e dinamica sino a diventare canto anch’esso, acquisendo pari dignità. Un’infinità di dettagli andrebbero ricordati e di tutti, almeno, nel terzo atto quei bagliori lampeggianti di flauti e ottavino così netti e asciutti profumare di Seconda Scuola di Vienna, altro che Mantova…

Questo tappeto sonoro sarebbe rimasto fine a sé stesso se non fosse stato messo al servizio di un vero gioco di squadra, con un gruppo di solisti reattivo alla minima sollecitazione del podio.

Duetto e Pari siamo sono per la prima volta un momento solo, espressioni di due stati d’animo del gobbo, di un codardo Rigoletto che fantastica prima sull’agire e poi nel soliloquio arriva ad assolvere la parte peggiore di sé stesso, assolvendosi tramite quegli stessi affetti familiari che ha appena deriso facendosi scudo del potente di turno. Parola per parola la drammaturgia verdiana ha la meglio sugli effetti, soppiantati da splendida dizione e soffocati nelle mezzevoci, e per una volta ascoltiamo e restiamo sgomenti all’anticipazione di quella ferocia che Sparafucile preannuncia per il terzo atto in casa sua.

Gilda che aspetta il suo principe azzurro non bamboleggia come quelle vittime predestinate modello figurine Liebig ma sì, finalmente, con Giovanna ci può anche scherzare sopra su quello studente che dichiaratamente preferirebbe povero ma…chissà, fosse un principe vero non guasterebbe mica !

Signor né principe io lo vorrei… (Nadine Sierra, Piero Pretti, Anna Malavasi).

E che meraviglia il duetto Sparafucile-Maddalena del terzo atto, in mezzo al temporale, comprensibile in ogni suono e ogni parola. Davvero sentiamo che Maddalena crede dall’inizio di poter salvare quel tipo per cui per la prima volta prova pietà, o qualcosa che vi somiglia.
In generale, un esito che non scontato per un gruppo di solisti sulla carta eterogeneo e che alla prova del palcoscenico si rivela pressoché ideale per questa lettura meditata e intensa pensata dal primo all’ultimo accordo.
Di fronte a tale splendore sonoro, si sarebbe tentati di non sprecare neppure una riga col noioso passaggio in rassegna degli acuti di tradizione, appiccicati quasi fossero figurine, che tanto si accanisce sul Rigoletto. Diremo solamente che in questa occasione acuti non scritti ve ne sono stati meno del solito, e pochi da meritarne la presenza. Tecnicamente spinti senza appoggio sul fiato, spesso ingolati quelli del soprano ; inutile, e per giunta drammaturgicamente nefasta la puntatura del tenore nella prima Donna è mobile. Che dire, l'unico che avrebbe avuto tutte le carte in regola per eseguirli è stato, alla fine, quello che meno ne ha abusato.

Del Rigoletto di Amartuvshin Enkhbat abbiamo già reso conto in più di una  occasione((cfr. Rigoletto a Genova e a Torino – ved Articoli sotto "per completare la lettura" )) e dei doni vocali che la natura ha assegnato a questo baritono non si sa se ricordare prima il timbro bronzeo e omogeneo, l’estensione, la potenza della voce. Questa volta il cantante va oltre, sostenuto da una direzione di questo genere fuga i dubbi in precedenza espressi su uno stile interpretativo piuttosto compassato e su cui lavorare, e compie il suo capolavoro d’artista((La mente pensa, a tratti, alle insuperabili registrazioni del 1917 che ci sono rimaste ad opera del baritono Giuseppe Danise)). Lo ascoltiamo vivere compiutamente il suo personaggio, giocare con i colori della voce, sfumare, accentare, padroneggiare la mezza voce e il falsetto (che cos’è quel fa’ ch’io rida, buffone… a cavallo dei due!), duettare sensibilmente con Sparafucile e Gilda, scagliare acuti quando serve, finalmente.

Rigoletto e Sparafucile nel primo atto (Amartuvshin Enkhbat, Gianluca Buratto).

Il canto del Duca di Piero Pretti si conferma schietto e tenorile, supportato da eccellente dizione. Lo squillo talora laborioso non vanta la sfrontatezza argentina di altri celebri interpreti ma in questo quadro è veramente poca cosa, soprattutto perché  la sensibilità dell’interpretazione e la ricercatezza, senza esagerazioni, dell’accento dilineano una prova maiuscola.

Il Duca nella festa del primo atto (Piero Pretti).

Casualità o scelta, una vocalità molto più adatta all’impostazione registica di Martone, dove la figura degradata e ammorbata del Duca nulla conserva della sfrontatezza libertina in fin dei conti assolutoria di un simpatico impenitente ((Monterone, (fermandosi verso il ritratto del Duca):
Poiché fosti invano da me maledetto,
né un fulmine o un ferro colpiva il tuo petto,
felice pur anco, o Duca, vivrai!…)).
Ritorna alla Scala la Gilda di Nadine Sierra, già protagonista nella ripresa del Rigolettone del 2016, e coglie un meritato successo personale in virtù di un’eccellente condotta scenica e una discreta riuscita musicale. In ogni gesto è una giovane spigliata, non una disadattata predestinata, una Gilda disinibita dei nostri giorni, bella e solare, persino nel secondo atto, più Miami Beach che dramma intimo.
Vocalmente, timbro piuttosto aspro e acuti spinti vengono compensati da un bel registro centrale su cui appoggia l’eccellente fraseggio, cui solo avrebbe giovato qualche sospiro in meno.

Gilda e Rigoletto rimasti solo nel secondo atto (Nadine Sierra, Amartuvshin Enkhbat).

Coppia da antologia quella formata da Gianluca Buratto e Marina Viotti come Sparafucile e sua sorella Maddalena : per entrambi bella voce, dizione perfetta e musicalità a prova di bomba. Lui sfoggia timbro e traboccante umanità nel duetto del primo atto, lei un vero e proprio pilastro di quartetto e duetto del terzo. Ottimi gli altri, sopra tutti il Monterone di Fabrizio Beggi.
Cosa resta ? Nelle premesse c’era molta attesa per la regia di Mario Martone, che come abbiamo detto partiva col merito di mandare in pensione il suddetto Rigolettone di Deflo, tutto sipari, ori e oleografia. Che tale spettacolo sia rimasto in teatro per 28 anni, questo è il vero caso singolare, quando si consideri che persino la Traviata della Cavani è già stata seguita da quella bella e coraggiosa di Tcherniakov.

Dunque ? Ambientazione moderna su palcoscenico girevole, la bella corte immaginata da Margherita Palli diventa un contemporaneo e lussuoso attico su due piani in cui si muovono con precisione i personaggi, e vediamo tanti siparietti ben governati ma poco emozionanti. Una scena piuttosto arretrata rispetto all’orchestra, con protagonisti che vanno e vengono in continuazione da un livello all’altro e così l’orecchio finisce per impiegare diversi minuti ad abituarcisi.

Sul retro, con accesso diretto, lo squallido rifugio per prostitute e relitti umani che si spostano da un ambiente all’altro per far parte della stessa "corte". Rigoletto e il Duca, soli, passano da un ambiente all'altro con naturalezza. Per tutti gli altri, ricchi o poveri, oltre l’apparenza la distanza sociale è incolmabile.

Il mondo dei perdenti (Amartuvshin Enkhbat, Nadine Sierra, Anna Malavasi

Tutto viaggia sui binari del prevedibile, la sorpresa vera c’è e arriva negli attimi finali : il mondo va al contrario, i balordi si ribellano e freneticamente uccidono i potenti a colpi di pugnale. Sangue ovunque.
Che dire di questo finale che si è guadagnato i fischi di una parte del pubblico alla prima ? Che tradisce l’intenzione verdiana, tanto chiara nel voler rendere comunque simpatica e vincente quella canaglia del Duca per contrasto a Rigoletto che facendosi forte dello scudo dell’amore paterno è persino più meschino del suo giovin signore ?
Che il precipizio finale ci distoglie dal trionfo della Maledizione ?

In fin dei conti, a questo finale un merito lo potremmo anche riconoscere : con questa cinematografica conclusione il tanto deprecato perché precipitoso finale dei Vespri Siciliani trova finalmente una bella compagnia. Dunque ? Tanto rumore per nulla.

Applausi finali
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Paolo Malaspina
Paolo Malaspina, nato ad Asti nel 1974, inizia a frequentare il mondo dell’opera nel 1989. Studia privatamente canto lirico e storia della musica parallelamente agli studi in ingegneria chimica, materia nella quale si laurea a pieni voti nel 1999 presso il Politecnico di Torino con una tesi realizzata in collaborazione con Ecole Nationale Supérieure de Chimie de Toulouse. Ambito di interesse musicale : musica lirica e sinfonica dell’ottocento e novecento, con particolare attenzione alla storia della tecnica vocale e dell'interpretazione dell'opera lirica italiana e tedesca dell'800.

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