“Tentate ! Il sogetto è grande immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet che se Varese ((Felice Varesi (1813–1889) che fu baritono verdiano per eccellenza aveva creato in precedenza il ruolo di Macbeth. Dopo Rigoletto, interpretò per primo anche la figura di Giorgio Germont ne La Traviata)) è scritturato nulla di meglio per Lui e per noi”.((da una lettera di Verdi a Francesco Maria Piave, Busseto, 28 aprile 1850, Abbiati, Giuseppe Verdi, Milano 1959, volume secondo, pg. 60))
Se non per il nome, Verdi aveva come sempre le idee molto chiare sin dall’inizio. In breve Rigoletto, con la sua carica di umanità e con la mai sufficientemente lodata modernità di linguaggio musicale, si impose ed è a tutt’oggi annoverato come uno dei massimi capolavori del melodramma ottocentesco.
“Il Verdi ha scritto, dopo, altre opere altrettanto belle : ma secondo me non ne ha scritta nessuna che superi il Rigoletto, seppure la fortunata tra tutte non ha da esser l’Otello. Il genio suo può aver avuto, dopo, intuizioni più profonde e concezioni più vaste, ma non trovò ancora una più sublime efficacia drammatica, una più sapiente misura nel tenere a freno l’ardentissima fantasia, un più lucido ordine nella distribuzione musicale, e getti più fulgidi, e più splendenti onde di motivi che rimarranno incancellabili nella storia musicale del secolo, e una più gagliarda commozione che stringa in un solo e potentissimo affetto maestro, esecutori e pubblico”((Giuseppe Verdi di Eugenio Checchi, Firenze, 1887, pg. 80)).
È una coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo, la Shaanxi Opera House e l’Opéra Royal de Wallonie-Liège quella che riporta in scena a Torino il Rigoletto e che trova la sua ragion d’essere prima di tutto nel debutto nella regia d’opera di una (ennesima) star del cinema americano.
John Turturro ha in più occasioni dichiarato di amare la musica operistica italiana, Verdi e Puccini in particolare. Come da copione, ha aggiunto che questo suo incontro è importante per il suo percorso musicale attraverso l’Italia e che, non addetto ai “lavori”, si è avvicinato al mostro sacro in punta di piedi, studiando e cercando di renderne lo spirito senza stravolgere il senso e senza far danni alla musica…
Un po’ poco, francamente ! Posta in questi termini è una storia già sentita, un mettere le mani avanti che non giustifica lo spettacolo per il modesto esito artistico complessivamente raggiunto, su cui hanno pesato soprattutto regia e direzione musicale.
Il Rigoletto di Turturro non disturba, non scandalizza, è genericamente rispettoso delle didascalie e non stravolge la vicenda, andando tutt’al più ad aggiungere qua e là qualche dettaglio.
Al massimo, dunque, ci ritroveremo una gobba che Rigoletto mette a corte e toglie rientrando a casa, dopo il lavoro. Quanto più forte allora sarebbe stata l’immagine di un bel Rigoletto giovane quanto basta, e aitante, ma intimamente deforme ? In cui la moralità si trasforma e si corrompe al punto da tradire chi lo mantiene, meritando il castigo Divino, rassicurante al punto giusto per le corti regnanti, i cortigiani e, insomma, i padroni non solo della Mantova del XVI secolo ma anche quelli d’ogni tempo ?
Alla stessa maniera non sorprende un Duca che, appena entrato in casa di Rigoletto, ci prova subito anche con Giovanna e una Gilda che nel finale ritorna in scena…
Manca in tutto questo lo scavo sull’intimità dei personaggi, l’analisi dei rapporti familiari e della corte che Verdi tratta con spietata crudezza, a far da contrasto con la spudorata leggerezza del Duca.
Omaggiato Giulio Romano con immagini al preludio e mascheroni a decorare le architetture, le scenografie di Francesco Frigeri sono per lo più costituite da pochi elementi immersi in atmosfere grigiastre e indefinite, avvolte da nebbie illuminate con maestria da Alessandro Carletti. Un valido sostegno arriva dai bei costumi di Marco Piemontese, cui è affidato il compito di apportare sporadiche macchie di colore che spiccano in maniera efficace.
Non possiamo dire che a creare l’atmosfera sia venuta in soccorso la direzione d’orchestra di Renato Palumbo. Ed è un vero peccato perché il maestro Palumbo dimostra per tutta la serata una saldezza tecnica invidiabile, arrivando a far suonare l’Orchestra del Teatro Regio al meglio delle proprie possibilità, con sonorità precise, pulite, senza sbavature negli archi e nei legni. Le cose non quadrano, però, per l’incostanza della condotta musicale, costantemente in bilico tra sonorità allargate in maniera arbitraria ed esplosioni gratuite. Dopo una ballata del Duca priva di leggerezza, la maledizione di Monterone scorre via superficialmente, tutta tesa a cercare la sola quadratura ritmica.
E a fatica troviamo traccia delle indicazioni verdiane, dai fini risvolti psicologici, nel Caro nome e nella scena n.9 del secondo atto.
Così via, la sensazione di un’orchestra, più concertata che diretta, che viaggia senz’anima e per conto proprio serpeggia per tutta l’opera, con un susseguirsi di pagine dirette per lo più in maniera energica e spedita, salvo improvvisi rallentando e ricerca di particolari fini a sé stessi resi, per altro, ottimamente.
Complessivamente buone le prove dei giovani cantanti riuniti nel secondo cast per quattro recite, con il baritono Amartuvshin Enkhbat che nei panni del gobbo conferma le qualità messe in luce nelle recenti produzioni ascoltate a Genova((link https://wanderer.legalsphere.ch/it/2017/12/rigoletto-a-genova-passo-indietro-nella-tradizione/)) e Novara((link https://wanderer.legalsphere.ch/it/2018/03/nabucco-conquista-novara/)). Se il fraseggio resta corretto ma piuttosto generico, la voce dal bel colore scuro e ricco di armonici fluisce sicura e solida in tutta l’estensione, appena meno brillante nella proiezione dei suoni acuti.
Nei panni del Duca di Mantova il tenore peruviano Iván Ayón Rivas si disimpegna con correttezza e voce omogenea nei centri, pur precisa ma non squillante nel registro acuto, e Gilda Fiume in quelli dell’omonima figlia di Rigoletto compone un bel ritratto facendo leva soprattutto sulle qualità timbriche e l’espressione.
Ugualmente convincenti i ritratti di Sparafucile del basso Romano Dal Zovo, la Maddalena di Carmen Topciu e il Monterone di Alessio Verna, felicemente contornati da un ottimo gruppo di comprimari e dal coro diretto da Andrea Secchi.
Al termine dello spettacolo prolungati applausi per tutti gli interpreti, particolarmente intensi verso Amartuvshin Enkhbat, Gilda Fiume, Iván Ayón Rivas e il direttore Renato Palumbo.