“Strada facendo”, racconterà Verdi, “mi sentivo indosso una specie di malessere indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfia il cuore. Rincasai e, con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto ; senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava innanzi a me, e mi si affaccia un verso :
Va, pensiero, sull’ali dorate.
Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre. Leggo un brano, ne leggo due : poi, fermo nel proposito di non scrivere, faccio forza a me stesso, chiudo il fascicolo e me ne vado a letto. […] Che fare ? […] un giorno un verso, un giorno l’altro, una nota alla volta, un’altra volta una frase, a poco a poco l’opera fu composta.” ((Giuseppe Verdi, F. Abbiati, Milano, 1959, vol.1, pag. 361 e sg.))
Entriamo in sala a sipario aperto e si avverte immediatamente la cifra dello spettacolo. Semplicità dell’elemento scenico : una pedana bianca lievemente inclinata, quinte laterali nere a formare un quadrato che chiude il fondo e cambierà colore durante l’opera, a sottolineare gli stati d’animo del momento. Bianco e freddo all’inizio, in sintonia con la sobria eleganza dei costumi del popolo ebraico. Poi via via rosso all’ingresso di Abigaille, verde per la sua grande scena e azzurro durante la preghiera di Zaccaria, grigio al concertato che chiude la seconda parte e alla ripresa della terza con il duetto tra Nabucco e Abigaille. Bello il contrasto tra l’idolo costituito dalle maschere babilonesi dorate (cadranno al suolo con la conversione di Nabucco) e il medesimo sfondo grigio per l’ultima parte dell’opera.
Pier Luigi Pizzi è un “grande vecchio” dell’opera italiana. Sia che si tratti di spettacoli sfarzosi sia che, come in questo caso, l’elemento scenico si riduca in tutto ad una Menorah e ad un trono regale, gestisce il movimento delle masse e dei solisti con maestria e finezza consumata. L’azione non è mai in contrasto con il testo e la recitazione dei singoli è classica ma non trascurata. Il mutare di costumi rende con finezza il percorso interiore di Abigaille, che diventa così l’unico personaggio degno di un vero scavo psicologico, efficace senza bisogno di gestualità eclatante.
In sintonia con l’impostazione registica è la direzione musicale di Gianna Fratta. Sin dalla sinfonia si coglie il buon lavoro fatto con l’orchestra, con gli interventi precisi degli ottoni e dei legni. Fratta rende con naturalezza i tanti cantabile e andante mosso dell’opera, staccati rapidamente sopra un tessuto orchestrale delicato come nel caso del “Va, pensiero” e della successiva profezia di Zaccaria.
La direzione è energica, talvolta più rapida dell’usato, ma mai bandistica, il rapporto con il palcoscenico curato in modo tale da non mettere in difficoltà i cantanti. Man mano che ci si addentra nell’opera, anzi, è netta la sensazione di un prezioso gioco di squadra tanta è l’omogeneità stilistica dell’insieme, la precisione nella resa delle parti vocali, e la perfetta dizione degli interpreti.
Primo solista in ordine di apparizione, il basso Marko Mimica impersona un raffinato Zaccaria, elegante anche nella gestualità. Suo punto di forza è la costante ricerca di sfumature e la morbida emissione, almeno sino agli estremi acuti ove talvolta la voce mostra appoggio meno sicuro che nei centri. Assai musicale, impone sin dalla cavatina una vocalità precisa e attenta ai segni d’espressione, dalla voce non imponente ma autorevole.
Alle prese con il personaggio di Abigaille, Rebeka Lokar conferma il buon esito della recente Turandot torinese. L’ingresso, con il recitativo che precede il terzettino, impone alla voce un saliscendi vocale non proprio agevole, che mette in luce l’assenza di peso nell’affondo dei gravi ma al tempo stesso la difficoltà nello sfogare la voce sui suoni più acuti, pur raggiunti senza fatica.
A poco a poco, però, esce l’interprete precisa, la potenzialità di un belcanto sostenuto da una vocalità magari più leggera di quella che si associa al ruolo ma ricco di colori, soprattutto attento alla mezza voce. Prende vita davanti a noi un personaggio dalle tante sfumature, conscio della trasformazione psicologica cui sta andando incontro, dalla furia iniziale sino al momento più emozionante della recita, il duetto con Nabucco della terza parte. Da risentire.
Già apprezzato nel recente Rigoletto al Carlo Felice di Genova, il giovane baritono mongolo Enkhbat Amartuvshin si conferma una delle giovani voci baritonali più interessanti di questi anni. Ha dalla sua un colore vocale omogeneo e pieno in tutta l’estensione, una voce sonora e di bel colore scuro, l’emissione tecnicamente sicura anche quando alleggerisce sugli estremi acuti. Buono il fraseggio se pur non troppo vario, supportato da un’ottima dizione, che nel corso dell’opera ha cercato di disegnare lo sviluppo psicologico del personaggio, dall’irruenza rancorosa dell’inizio, passando per l’affanno paterno per Fenena, sino alla conversione finale.
Alle prese con i ruoli minori, hanno ben figurato per voce e presenza scenica la Fenena di Sofia Janelidze e l’Anna di Madina Karbeli, corretti gli altri interpreti.
Di rilievo la prova dell’Orchestra del Teatro Coccia, validamente supportata da giovani del Conservatorio Cantelli, che ha seguito al meglio le intenzioni di Fratta con una sonorità pulita, compatta e sempre corretta in tutte le sezioni. Non altrettanto elevata, purtroppo, la qualità del Coro San Gregorio Magno, particolarmente a disagio per quanto riguarda la sezione maschile.
Al centro, Pier Luigi Pizzi e Gianna Fratta tra Abigaille (Rebeka Lokar) e Nabucco (Enkhbat Amartuvshin)
Al termine della seconda ed ultima rappresentazione del 25 febbraio calorosissimi applausi per tutti gli interpreti, ed in particolare modo per i tre protagonisti vocali, per il regista e per il direttore d’orchestra.