Vincenzo Bellini (1801–135)
Norma (1831)
Tragedia lirica in due atti
Libretto di Felice Romani , tratto dalla tragedia di Alexandre Soumet, Norma ou l'infanticide (1831)
Prima il 26 dicembre 1831 al Teatro alla Scala, Milano

Direttore : Michele Mariotti
Regia : Cyril Teste 
Scenografia : Valérie Grall
Costumi : Marie La Rocca
Video : Mehdi Toutain-Lopez, Nicolas Doremus
Coreografia : Magdalena Chowaniec
Luci : Julien Boizard
Assistente alla regia : Céline Gaudier
Drammaturgia : Sergio Morabito

Pollione : Dmytro Popov
Oroveso : Ildebrando D'Arcangelo
Norma : Federica Lombardi
Adalgisa : Vasilisa Berzhanskaya
Clotilde : Anna Bondarenko
Flavio : Hiroshi Amako
Cameraman : Benedikt Missmann

Coro della Wiener Staatsoper
Maestro del coro : Martin Schebesta
Bambini della Scuola dell'Opera di Vienna

Orchester der Wiener Staatsoper (Orchestra dell'Opera di Stato di Vienna)

Vienna, Staatsoper, Giovedì 6 marzo 2025, ore 19.

Ecco un'opera mitica e santificata dalla leggenda dorata di Maria Callas che ne fece un emblema, ma in cui si sono distinte anche Leyla Gencer (la mia Norma dell'isola deserta), Renata Scotto, Joan Sutherland, Beverly Sills, Montserrat Caballé, ma anche Mariella Devia, Edita Gruberova o, più recentemente, Sondra Radvanovsky e Cecilia Bartoli. La varietà di nomi e stili di canto la dice più lunga di tutti i discorsi sulla natura del ruolo e sulla complessità dell'opera che unisce la melodia eterea e sublime a un colore drammatico deciso e quasi verdiano. Si sentono pure voci celestiali ma anche bestie da palcoscenico. Riunire i due rimane un po' più raro.
E proprio il destino caotico di Norma negli ultimi cinquant'anni a Vienna è dovuto all'accoglienza contrastante di Montserrat Caballé (con Muti alla direzione d'orchestra) nel 1977, l'ultima produzione messa in scena. Il trauma fu tale che Edita Gruberova, dea tra le dee di questo luogo, tornò nel 2005 in una serie di rappresentazioni concertanti, che furono riprese nel 2007… come a sussurrare che
Norma non era tanto teatro quanto canto ?

Si apprezza quindi la decisione di proporre una nuova produzione, affidata al collettivo di Cyril Teste, che aveva avuto un certo successo su questo stesso palcoscenico con la sua visione di Salome e diretto da uno dei più importanti direttori d'orchestra di oggi in questo repertorio, Michele Mariotti, nonché un cast di alto livello in cui Juan Diego Florez osa Pollione (sostituito da Dmytro Popov la serata alla quale abbiamo assistito), Ildebrando D'Arcangelo è Oroveso e Vasilisa Berzhanskaya Adalgisa…
Ma non c'è Norma senza Norma. E a Vienna è Federica Lombardi ad interpretarla, con coraggio, serietà e consapevolezza, ma ci vuole di più per bruciare quel palcoscenico.

Una vista d'inseime

Contesti

Dalla fine degli anni '70 è calata una sorta di velo su “Norma” di Vincenzo Bellini, tanto questa opera, tra i grandi capolavori della letteratura lirica, e il ruolo che lo porta, la sacerdotessa gallica traditrice del suo popolo e dei suoi dei, ha segnato gli anni '50 e '60 a tal punto che ogni Norma successiva rischiava di essere accolta con forconi e roncole… nessuna Norma alla Scala dal 1977 (nuova produzione il prossimo giugno), a Firenze dal 1979 (una nuova produzione in questi giorni), a Vienna nessuna in forma scenica dal 1977. A Parigi, sorprendentemente, ci sono state più Norma che altrove, una produzione nel 1972 (Zeffirelli), un'altra nel 1988 (Pizzi), una terza (Yannis Kokkos) nel 1996 che è durata fino al 2000. Da allora, silenzio.
Non sto dicendo che Norma non sia stata ripresa o cantata qua e là, ma sto semplicemente dicendo che i grandi teatri simbolo di questo repertorio, e in particolare la Scala, non hanno più osato farlo. Per quanto riguarda le registrazioni, si torna sempre agli anni '50 o '60. Ci si chiede subito quale cantante recente avrebbe fatto vibrare Norma. Naturalmente abbiamo sentito Cecilia Bartoli a Salisburgo nel 2013, l'ultima delle grandi interpreti in una messa in scena di Moshe Leiser e Patrice Caurier che è stata un successo, trasponendo la storia nella resistenza francese all'occupante tedesco durante la seconda guerra mondiale. Al di fuori di Bartoli oggi si cercherebbe invano. Ovviamente alcuni hanno accusato la Bartoli di non essere una Norma… un'accusa tanto più facile da muovere in quanto se ne sentono poche in giro e che essere Norma oggi è solo un fantasma… La doppia questione di Norma è al tempo stesso banale e più urgente che per qualsiasi altro ruolo d'opera : è “canto o incarnazione?”. Ciò che ha reso mitiche Callas, ma anche Gencer, è che erano entrambe le cose. E che per un ruolo del genere non si può sfuggire alla questione dell’incarnazione. Possiamo canticchiare tutti gli incantesimi del bel canto e ipnotizzare con Casta Diva del settimo cielo, se non c'è la bestia che si risveglia alla fine del primo atto, la madre che si china sui suoi figli per ucciderli all'inizio del secondo e la furia che chiama alla guerra il suo popolo alla fine, non c'è Norma.
E tralascio i problemi di Adalgisa, che affronteremo più avanti.

Per quanto mi riguarda, ho visto in Norma Caballé a Orange nel 1974, mitica, Anderson a Ginevra nel 1999 soporifica, che non mi aveva nemmeno commosso per un istante, e Bartoli nel 2013 che è stata pazzesca. Ho sentito Devia, la regina dei cieli belcantisti, ma che per me è rimasta teatralmente al di sotto delle mie aspettative…
In effetti, e questo è anche il problema, più un'opera è rara sui palcoscenici, più le aspettative sono grandi e mitizzate, e meno le Norma proposte ci sembrano Norma. Tutto ciò rende la nostra attesa dell'opera piuttosto irregolare, in un universo lirico in cui la questione della messa in scena è sempre urticante e ferisce una parte del pubblico che pensa che disturbi l'orecchio… Il confronto tra i due spettacoli viennesi è emblematico in questo senso.
Non basta cantare meravigliosamente per essere Norma, non bastano grandi gesti da statua greca per creare un personaggio, non basta un velo per fare la sacerdotessa e non bastano alberi di cartapesta per fare la Gallia.
Sento molto forte il lettore infastidito… Allora, mettiamo Norma nelle fantasie liriche per isola deserta, e lasciamo i teatri senza.

Seconda difficoltà, Bellini..
Nato nel 1801 a Catania, morto nel 1835 a Puteaux… Tra le torri della « Défense », vicino a Parigi e il cemento del quartiere, c'è, eh sì, una rue Bellini a Puteaux… Nato in una città senza una grande tradizione musicale di spicco, ma in una famiglia di veri musicisti, che gli ha garantito una solida educazione musicale, poi valso un rapido trasferimento a Napoli, città della grande tradizione operistica (ma non solo) del suo tempo. Bellini si nutrirà quindi della tradizione napoletana, una delle capitali della musica europea dell'epoca.

La questione di Bellini è innanzitutto dove collocarlo nella grande tradizione dei compositori. In Italia all'inizio dell’Ottocento, ci sono (nelle grandi linee) Cherubini (a Parigi), Spontini (a Parigi e Berlino), Rossini (ovunque, e ovunque il re) e i suoi ammiratori e successori, Donizetti, Meyerbeer e ovviamente poi Verdi. È abbastanza facile collocarli in una linea immaginaria, e per gli ultimi (Donizetti e Meyerbeer) è nota la loro viscerale connessione con Rossini, e anche Verdi gioca nei suoi lavori giovanili l'influenza di Donizetti mista a Rossini…
Bellini è messo un po' a parte su questa linea (benché anche lui molto sostenuto da Rossini), morto troppo giovane per avere un posto fortemente iscritto. Viene classificato nel bel canto, con le sue melodie sublimi, le arie per soprano da far svenire, i personaggi delicati, e poiché vive a Parigi e anche Donizetti vivrà a Parigi, a volte li mettiamo nella stessa categoria, mentre uno (Donizetti) è prolifico e Bellini piuttosto riservato, che ha composto solo una decina di opere (Donizetti più di 70) essenzialmente fedele a Felice Romani come librettista di cui oggi si suona frequentemente I Puritani, il suo ultimo titolo, ma anche La Sonnambula, I Capuleti e i Montecchi, un po' meno Il Pirata, Beatrice di Tenda e quasi mai Zaira, Adelson e Salvini, e Bianca e Fernando. E Norma, il suo più grande successo europeo, fu ripresa molto presto a Vienna, Parigi e Londra, ma ne abbiamo paura.
Resta il fatto che la sua musica è specifica, che la si riduce a Casta diva, che fa sognare i cuori teneri, mentre ci si dimentica che ha scritto anche Suoni la tromba de I Puritani, che non ha nulla per far sognare sotto la luna…

Bellini a volte assomiglia un po' al “pre” Verdi, nel senso che sa “mettere in scena” il suono ; il suo modo di scrivere l'opera e di concepire la melodia “infinita” (Wagner lo amava molto) è abbastanza lontano da Donizetti, gli è stato anche rimproverato di rompere con la tradizione del concertato nel finale del primo atto (ad esempio in Norma…). Insomma, Bellini è magnifico, ma è complicato perché un po' particolare.

Infine, Norma pone problemi drammaturgici molto moderni, che non corrispondono in alcun modo all'immagine che normalmente ci si fa di quest’opera, soprattutto quando è ridotta a Casta Diva, che, come abbiamo sottolineato, è certamente un canto celeste, ma anche un vero canto di tradimento : si rivolge a una dea casta che Norma ha tradito in tutti i modi… corpo e anima… quando canta questo canto, è al limite della blasfemia.

È evidente che è difficile parlare di Bellini, definire anche uno stile belliniano, e la letteratura su Bellini rimane piuttosto scarsa, probabilmente anche a causa della sua breve vita – si sa solo che ha scritto otto sinfonie ? (prima dei suoi anni di gloria, è vero).

Infine, a causa della rarità del titolo sui grandi palcoscenici, e quindi della sua rarità mediatica, abbiamo perso un po' il contatto con Norma, e quindi, più di qualsiasi altra opera, è un campo fantasmatico singolare da parte dei melomani e in particolare di quelli che io chiamo i vociomani, quelli per i quali l'orizzonte operistico si ferma alla voce e per i quali, ovviamente, nessuno è più una Norma. Eppure Norma è quasi in se un universo.

Con Michele Mariotti, Juan Diego Florez, Ildebrando D'Arcangelo e Vasilisa Berzhanskaja, l'Opera di Vienna ha voluto mostrare nel cast e nella direzione un'indiscutibile impronta belcantista, con cantanti che hanno sempre avuto a cuore lo stile e mai il circo. L'obiettivo era quello di creare indiscutibilmente un grande momento musicale, di tornare alla stile di Norma.
Scegliendo Federica Lombardi per il ruolo di Norma, Vienna ha scelto una cantante amata in Austria, soprattutto per le sue interpretazioni mozartiane, dove è piuttosto una delle artiste di spicco oggi, e ha distribuito il ruolo a una cantante seria, attenta a fare bene il suo lavoro, ma con questa scelta forse si è sottovalutata la versatilità del ruolo, i suoi diversi stati d'animo e quindi la necessità di far disegnare il personaggio da un vero regista.

Con la sua drammaturgia fatta di scene epiche e intime, il suo personaggio principale dalle diverse e contraddittorie sfaccettature e una situazione politica (una popolazione oppressa dall'occupante) che determina un contesto che parla oggi come ieri, c'è materia per un regista un po' creativo. La tradizione teatrale è ancora piuttosto povera, come ci conferma il video (1974) di Pierre Jourdan, adattato, è vero, al luogo incredibile che è Orange e al rapporto che lo spettatore minuscolo intrattiene con questo spazio immenso, ma come si può vedere anche a Monaco di Baviera con una messa in scena di Jürgen Rose (2006) ed un dispositivo relativamente efficace, ma noioso e che non riesce a eguagliare il successo del suo Don Carlo su questa stessa scena (2000), ancora oggi impressionante.

Tra la Gallia, le sacerdotesse e i druidi, Norma potrebbe rischiare di cadere nel ridicolo, e solo nel 2013 a Salisburgo Patrice Caurier e Moshe Leiser (grazie anche alla disponibilità di Cecilia Bartoli) hanno impostato una drammaturgia dell'opera un po' ridimensionata, ricollocata nella Francia sotto l'occupazione tedesca, in un contesto molto più urgente e significativo di quello delle spade d'oro e del vischio. E il successo fu assoluto perché questa ricollocazione chiarì le relazioni tra i personaggi, le angosce di ciascuno, la pressione del contesto. Tutti coloro che hanno visto questo spettacolo se lo ricordano ancora e Cecilia Bartoli, da grande artista quale è, aveva entusiasmato il pubblico che aveva improvvisamente dimenticato casta diva e bel canto per capire che esiste un solo bel canto, quello che fa teatro.

Dmytro Popov (Pollione) Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa)

Infine, un'ultima osservazione : la creazione di Norma alla Scala di Milano nel dicembre 1831 nasconde ancora che l'origine è una tragedia francese molto recente, creata nell'aprile 1831 Norma ou l'infanticide, di Alexandre Soumet, una di quelle tragedie in cinque atti e in versi nella grande tradizione classica che Victor Hugo e la giovane generazione romantica derisero al momento di Hernani (1830), precedente di meno di un anno, perché il cuore della discussione estetica di allora non riguardava la tragedia classica di un Racine o di un Corneille, ma piuttosto le tragedie che riempivano le scene e fossilizzavano il teatro all'inizio dell’ottocento, di cui Alexandre Soumet (morto nel 1845) è un esempio, forse l'ultimo che ci è un po' noto.

Così, ancora una volta, l'opera aiuta una serie di pezzi teatrali più o meno minori a sopravvivere. L'ultimo dei grandi autori di tragedie in Francia è Voltaire, morto nel 1778, oggi poco letto per il suo teatro e la lirica ha attinto abbastanza ampiamente dalle sue opere. Inoltre, lo stesso Bellini per la sua Zaira ha utilizzato il testo della tragedia di Voltaire Zaïre (1732) …

Nella tragedia di Soumet, Norma, nuova Medea, e in preda alla follia, conduce i suoi figli Clodomir e Agénor alla morte nel quinto atto. Ma l'elenco dei personaggi ci insegna qualcosa di più sorprendente. Clotilde è chiamata “balia cristiana” … Quindi non siamo come si pensa spesso nella Gallia preromana, dove i Galli lottano per la loro indipendenza contro le armate di Giulio Cesare. Siamo in una Gallia romanizzata e imperiale, come indica l'allusione a Varo[1] nella scena II del primo atto della tragedia di Soumet (“Tocca alla Gallia trovare un Varo”) dove Norma e Orovèse rappresentano una sopravvivenza dei culti pagani di fronte ad una religione romana dominante ma anche di un cristianesimo che si sta affermando. La guerra è una guerra di religione.

Legandosi a Pollion (questo è il suo nome nella tragedia), Norma non tradisce il suo paese, ma la sua religione (certamente una sopravvivenza identitaria) perché anche se Pollion è ancora legato agli dei romani, è in rotta verso il cristianesimo come la Roma di allora.

Ciò detto, anche sotto questo aspetto, l'opera mantiene la sua attualità, viste le tensioni religiose di oggi… Ma è chiaro che Felice Romani ha cancellato questi punti storicamente inaspettati e un po' criptici per farne una “tragedia essenziale”, il cui successo innegabile è la prova che ci è riuscito.

 La produzione di Cyril Teste

Hiroshi Amako (Flavio), Vasilisa Berzhanskaya (Adagisa) Juan Diego Flórez (Pollione)

Cyril Teste è un regista molto apprezzato in Francia, con il suo collettivo MxM, molto interessato alle contaminazioni tra le arti, in particolare con l'uso del cinema e del video, il lavoro sulle performance cinematografiche e spettacoli che hanno lasciato il segno come Festen, a partire dal film di Thomas Vinterberg (1998), di cui ha realizzato un'impressionante versione teatrale nel 2017 che è stata a lungo in tournée. Cyril Teste ha reso popolare in Francia un modo di trattare il teatro che in Germania Frank Castorf (con l'uso multipolare del video) aveva inventato anni prima.

All'Opera, gli dobbiamo un Hamlet (di Thomas) molto riuscito all'Opéra-Comique, poi un Fidelio meno convincente (ma Fidelio è un'opera difficile anche per i più grandi), e infine Salome all'Opera di Vienna, in versione cena di gala-dramma familiare con ricordi soffocati non molto lontano da Festen, peraltro abbastanza ben accolto.

Con Norma invece le cose non hanno funzionato, ma proprio per niente.
Cyril Teste e i suoi colleghi (lo stesso team di Salome) creano un contesto, una scenografia monumentale, giocano con il video in diretta, con alcune immagini di natura boschiva (in alcune immagini si sente il riferimento a Andrei Roublev di Tarkovskij), con i riferimenti al mondo slavo con i foulard rosso vivo indossati dalle donne, ma la prima immagine è focalizzata sul volto dei bambini, che sarà come un leitmotiv dell'intera messa in scena, bambini peraltro così straordinariamente telegenici da colpirci più di ogni altra cosa. Cyril Teste voleva senza dubbio mostrarci questi bambini come una posta in gioco tra Norma e il mondo, tra Norma e Pollione, una sorta di centro di gravità della trama. In effetti, questo è anche ciò che avvicina Norma a Medea, uno dei riferimenti della tragedia greca e classica, ma anche dell'opera. La Medée di Cherubini trionfò a Parigi poco più di trent'anni prima ed è un tema ricorrente, quello della vendetta della maga, per ragioni simili. Inoltre, nel testo di Soumet, Norma allude chiaramente anche alle sue doti di maga (“Sì, ho preparato incantesimi per attirarlo nell'ombra”. (Atto V,4).

Ma, come abbiamo sottolineato, Romani snellisce la trama dei cinque atti chiacchieroni di Soumet per farne due particolarmente strutturati, schematizzando un po' l'opposizione Romani/Gallici per dare alla situazione una chiara valenza politica, religiosa e amorosa, quando nella tragedia originale i Galli sembrano risvegliarsi nell'ombra per scuotere un giogo romano già installato da tempo…

Federica Lombardi (Norma) e i suoi bambini

Quindi, un po' come Caurier e Leiser in passato, Cyril Teste semplifica il contesto che in realtà non è così chiaro, per farne la storia di un popolo oppresso e sottomesso, e Norma, che l'ha tradito, cerca con i suoi stratagemmi dilatori di mantenere una pace che la soddisfi pienamente e che plachi anche le sue angosce esistenziali. Cyril Teste sottolinea anche nella sua nota di intenti del programma di sala che “la dimensione del sacro e della spiritualità è centrale” e aggiunge “Il personaggio di Norma potrebbe darci un orientamento nella nostra ricerca della forma di spiritualità che ci si offre oggi”. Cosi sia…

Per fare ciò, invece del contesto della seconda guerra mondiale, Cyril Teste e il suo team “attualizzano” la situazione slavizzandola nettamente, attraverso un chiaro riferimento alla situazione ucraina. La sua scenografa Valérie Grall propone una struttura di un ampio capannone che è una struttura generale di rifugio, chiaramente riferita a quelle che sono state occupate dalla popolazione ucraina rifugiata, con alcune variazioni a seconda delle scene (navata di una chiesa in disuso, pareti alte per gli interni), nulla di astratto ma nulla di concreto neanche, con immagini proiettate di foreste quasi ossessive. Il bosco gallico che è l'orizzonte di allora e il bosco ucraino quello di oggi. Si tratta di mostrare la natura che conquista rapidamente gli spazi abbandonati (si pensa anche a Cernobyl).
L'idea espressa dalla scenografa di due religioni opposte, una religione della natura (i Galli) e una religione del costruito (Roma), mi sembra un po' azzardata. L'antico costruito è sempre una stilizzazione della natura (e Valérie Grall ricorda giustamente che la colonna viene dall'albero) e inoltre le prime colonne come i primi templi come spesso le prime chiese erano in legno (vedi le Stavkirken norvegesi). Sono due paganesimi che, come tutti i paganesimi, traggono origine dalla natura e da una natura che parla… i greci, ad esempio, erano molto sensibili al Thambos, al terrore sacro che emanava dalla natura e tuttavia anche loro costruivano templi monumentali. Mi sembra che si tratti più della religione del vincitore rispetto a quella del vinto, due versioni del paganesimo, e nella tragedia di Soumet la religione è chiaramente un pretesto per un risveglio identitario in una Gallia romanizzata. Ciò è tanto più evidente in quanto i due paganesimi devono confrontarsi con il nascente cristianesimo (ricordiamo Clotilde, nutrice cristiana nella tragedia di Soumet, e quindi più particolarmente in grado di persuadere i bambini… per costruire un'altra futura religione per loro…). Ci troviamo quindi in un periodo instabile, culturalmente e religiosamente, e sappiamo bene che in tutte le conquiste, anche dopo le “pacificazioni”, ci sono sopravvivenze, usanze, pratiche che sono altrettante affermazioni più o meno nette della propria identità. La Pax romana in Gallia, come altrove, si afferma attraverso l'architettura, le strade, più che attraverso la religione. Fin dagli inizi dell'Impero, la religione romana è stata molto accogliente nei confronti delle religioni provenienti da altri luoghi, ad esempio dal mondo mediterraneo o dall'Oriente. In realtà, i romani dell'Impero se ne fregano della religione, che è essenzialmente uno strumento politico ; tutta la posta in gioco di Norma è una posta in gioco politica che usa il religioso come maschera, come in tutte le guerre di religione, oseremmo dire.
A tutto ciò si aggiungono i costumi di Maria la Rocca, piuttosto colorati, novecenteschi, spesso a più strati e quindi con diversi segni, piuttosto vintage, piuttosto disordinati. Ogni personaggio sembra indossare più costumi abbinati, è evidente in Norma o Adalgisa, ma anche in Oreveso. I gallici sono un po' “carichi”, i romani hanno un aspetto più “pulito”, ordinato, poco militare, e più civile ma vagamente mafioso (Pollione con il suo impermeabile …).

Foulard… Ildebrando d'Arcangelo (Oroveso)

Il segno di riconoscimento gallico è il foulard, rosso, dall'aspetto setoso (ma si apprende che non è di seta nel programma di sala) che si identifica quasi subito come di tipo slavo, ancora una volta un'allusione all'Ucraina, anche se la creatrice dei costumi lo vede più come un segno di appartenenza o di unione che come un segno geografico o culturale. Che lo si voglia o no, visivamente c'è un forte legame tra i gallici di Norma e gli ucraini di oggi ; perché no, dopotutto.

Federica Lombardi (Norma) in video-live

A questo si aggiungono i video in diretta (cameraman Benedikt Wissmann), marchio di fabbrica di MxM, che si concentrano sul volto di Norma, immenso e sofferente, e su quello, affascinante, dei due bambini che attraversano quasi tutta l'opera. La scena del pasto offerto loro da Clotilde, con i giochi di sguardi furtivi, i movimenti lenti che seguono l'azione, i bocconi che vengono mangiati quasi senza appetito è sorprendente da parte loro. Sono magnetici.

Ma la nostra descrizione, aiutata dalla nota di intenti del programma di sala, non sarebbe completa senza le coreografie (Magdalena Chowaniec), totalmente inutili per i nostri gusti, superflue soprattutto quando non sono imposte dalla drammaturgia. Il rischio è quello di essere decorativi, come in tanti lavori dell'opera di ieri.
Non sarebbe completa neanche senza il profumo, già presente in scena in Salome, qui semplice testimonianza cartacea inserita nel programma, per profumare la nostra visione. Osiamo ricordare che anche Maurice Lehmann per Les Indes Galantes all'Opéra di Parigi negli anni '50 aveva usato profumi che si suppone fossero orientali e inebrianti… L'idea non è quindi così nuova e poteva essere compresa in un kolossal come Les Indes Galantes di Rameau, destinato a segnare il ritorno alla grande nel repertorio dell'Opéra di Parigi. Associare Norma a un profumo, ad opera del profumiero Francis Kurkdjian che collabora a numerose messe in scena della compagnia, è, secondo Cyril Teste, un'esperienza “sinestetica”. Lo cito ancora qui :

“L'uso dei profumi è di fondamentale importanza per i rituali spirituali e religiosi. Anche la dimensione della foresta è amplificata olfattivamente. In questo programma è inserita una mappa dei profumi, in modo che il profumo di Norma possa accompagnare gli spettatori anche dopo lo spettacolo. L'umidità gioca un ruolo importante nel profumo, i grandi boschi di conifere, una nota molto terrosa e fungina. Si pensa alla foresta vergine. È un approccio molto sinestetico, trasmesso da tutti i sensi. Per me è un'altra dimensione importante di un'esperienza teatrale. »

E cosi sia di nuovo, ma in questo caso, a Catania, città natale di Vincenzo Bellini e luogo in cui è stato inventato – e per una buona ragione – il nome Pasta alla Norma, una grande specialità siciliana di pasta con melanzane fritte, perché non distribuire agli spettatori del teatro locale una melanzana quando viene rappresentata Norma, in mancanza di un piatto di pasta…
Ho voluto rendere conto delle intenzioni dichiarate dal team di regia perché ho trovato un tale divario tra le intenzioni e la realizzazione che mi sarà perdonato il mio sarcasmo e anche il mio fastidio.

La messa in scena è essenzialmente presentazione dei contesti, con immagini, in particolare video (Mehdi Toutain-Lopez, Nicolas Doremus), le belle luci di Julien Boizard, un quadro generale curato, ma sul palco non succede assolutamente nulla. Una regia assente, gesti stereotipati che ognuno attinge dalla propria collezione personale di cantanti lirici (ogni spettatore li ha visti e rivisti…), solo un po' D'Arcangelo e un po' anche Berzhanskaya in Adalgisa se la cavano perché il loro (vero) stile crea anche il loro personaggio. Federica Lombardi non è diretta dal regista, la gestualità è rigida, si sente che è preoccupata prima di tutto di non inciampare nel canto e a disagio nel costume e negli atteggiamenti (tranne quando sono tradizionali – con i bambini per esempio), il culmine (o il fondo del baratro) è raggiunto nell'immagine finale in cui si versa un bidone di benzina sul corpo sullo sfondo di una colonna di fuoco…
Come viene resa scenicamente la “spiritualità” del personaggio e la dimensione del sacro così essenziale apparentemente… cerco e non riesco a leggere nulla nello spettacolo.

Federica Lombardi (Norma) Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa)

Non succede nulla neanche tra i personaggi, il che permette di concentrarsi sulla musica sublime, ma il teatro dovrebbe amplificarla, darle il suo carattere definitivo, sacrale appunto, ma lì, chiudendo gli occhi, sappiamo che ci godiamo la musica e che non ci perdiamo nulla visivamente o concettualmente, purtroppo.

L'assenza di nervo e movimento si legge anche nel modo in cui viene gestito il coro, in particolare Guerra, ben di fronte al direttore, con pose convenzionali che si potrebbero vedere mille volte in produzioni polverose. È già una sorta di polvere che invade l'insieme, la polvere (e siamo solo alla 3a. rappresentazione di una nuova produzione…) della rappresentazione di repertorio dove vedremo per vent'anni cantanti intercambiabili susseguirsi su uno sfondo di foresta con foulard ucraini che diventeranno poi un simbolo vintage.

Come hanno potuto così tante competenze (perché questa compagnia che ha spesso dato vita a grandi e bellissimi spettacoli merita il rispetto) lasciarsi intrappolare dalla routine operistica al punto da produrre uno spettacolo così insipido, così inesistente, nonostante le immagini, nonostante le (buone) intenzioni ? Questa è anche una delle insidie di Norma, ma ancor di più di una rappresentazione distillata dall'idea falsa che circola spesso sull'opera italiana che sarebbe routine, senza possibilità di scapparne mai, senza possibilità di “vera” regia.

E quando leggo anche il nome di Andrei Tarkovskij, in questo teatro dove Claudio Abbado riprese nel 1991 il suo Boris Godunov londinese (1983, dir. Abbado) postumo (Tarkovskij è morto nel 1986) , produzione rimasta in repertorio fino al 1994,  e che penso al progetto che Abbado dedicò nello stesso 1991 a Tarkovskij in un Festival che fu essenziale per Vienna, mi irrito e mi arrabbio. No, per favore, non associare quel nome a questo spettacolo diremmo “carino” da guardare, ma che non tiene conto della musica, del dramma, dei cantanti e del teatro.

Le voci

Ho parlato sopra di trappola, di una trappola tesa dal bel canto, che può essere paralizzante per un regista, perché bisogna riconoscere che le regie operistiche belcantistiche non brillano spesso per spirito… È davvero una delle difficoltà di questo repertorio, che soffre anche dell'idea che ci si fa di esso, dove l'impressione è sempre il necessario primato del canto sul resto. Ma non appena una regia aggiunge valore all'insieme, la serata diventa immediatamente appassionante. Lo dimostrano gli sforzi di un festival come quello dedicato a Donizetti a Bergamo, con produzioni varie, anche con risultati contrastanti, o il trionfo di una produzione come quella Ermione di Rossini a Pesaro la scorsa estate (2024), diretta anche da Michele Mariotti, che ha appena ricevuto il Premio Abbiati.

Il bel canto paralizza perché spesso circola l'idea che la messa in scena (necessariamente “moderna”) possa disturbare il godimento orgasmico del canto. Ma si dimentica che il bel canto non è mai il puro canto, una sorta di voce in sé. Il bel canto è innanzitutto un canto in situazione, in cui la vocalizzazione, la creazione di cadenze appropriate sono ovviamente legate alle capacità tecniche, ma anche e soprattutto all'adattamento a situazioni drammatiche che le giustificano e che quindi creano una situazione teatrale e psicologica. Ci sono cantanti con una voce splendida e una tecnica perfetta che non ci dicono nulla sul palco e il bel canto sarà quindi banale. I grandi interpreti del bel canto sono innanzitutto incarnazioni, personaggi che utilizzano i colori e le capacità tecniche della loro voce al servizio del significato, del dramma (ricordiamo Alfredo Kraus…): si capisce il testo, sempre detto con chiarezza, gli accenti sono giusti e le difficoltà tecniche sono negoziate come naturalmente legate a uno stato mentale, non si verificano mai gratuitamente. Il bel canto deve tradurre il testo, prima di esporlo. E come sempre, è la testa che governa, non il resto. Si pensa sempre che la voce sia sufficiente, ma la voce è lo strumento al servizio dell'intelligenza e del pensiero, come il pennello e i colori per il pittore. Per il belcanto come per il resto, l'arte è una questione di visione e non di tecnica.

La novità belliniana è meno una ricerca di pura pirotecnica vocale che una ricerca di giustificazione psicologica della pirotecnica dell'agilità o della cadenza. C'è meno acrobazia vocale in Bellini che in Rossini e Donizetti perché in Bellini l'acrobazia non è mai dimostrazione, ma conseguenza di una situazione. La grande difficoltà di Casta Diva è proprio la combinazione di un crescendo lirico e di un climax che deve tradurre sia l'intensità religiosa del momento (il coro interviene, il che è ancora una novità nel mezzo di un'aria), sia la situazione personale di Norma, affermazione e fragilità, malinconia interiore e affermazione esteriore, e quindi lavoro su una psicologia che un canto deve tradurre. Se in Casta diva non si avverte una meditazione, si è completamente fuori strada.

Stessa impressione di affermazione e fragilità nel duetto di Adalgisa e Norma Mira o Norma, dove Adalgisa attira lo sguardo di Norma sull'orlo dell'omicidio verso i suoi figli, la invita alla vita, la sua e quella dei bambini, e dimostra un'infinita nobiltà nel disastro sentimentale che sta vivendo. È il momento in cui Adalgisa da ragazza innamorata diventa in qualche modo una donna e questo momento di transizione deve essere reso dal canto : è il passaggio alla maturità attraverso la prova, il passaggio in cui l'anima trova la sua vera natura e il duetto con Norma diventa così la fusione di due donne che si ritrovano, e non più della donna offesa e della ragazza innamorata. C'è una forte valenza psicologica in cui la meraviglia melodica traduce un'evoluzione delle anime.

Pochi personaggi in Norma, come nelle grandi tragedie : sei in tutto, uno molto fugace, Flavio, compagno di Pollione, che appare all'inizio e poi scompare, Clotilde, la nutrice dei figli di Norma, confidente, osservatrice, un po' come la Neris di Medée di Cherubini, il cui canto deve essere più marcato di quello di Flavio. Flavio fa da controparte a Pollione e in qualche modo lo mette in risalto, qui è interpretato dal tenore giapponese Hiroshi Amako, membro della troupe e molto corretto.

Anna Bondarenko (Clotilde) e bambini

Clotilde, con la sua presenza costante nel cuore del dramma, lo osserva, lo commenta ed è già diverso. Inoltre, qua e là nelle registrazioni si notano i nomi di Elizabeth Bainbridge, Ann Murray, Diana Montague o Carmela Remigio che in gioventù hanno cantato Clotilde. Qui è la giovane ucraina Anna Bondarenko, formata a Odessa e membro fisso a Vienna, a interpretare Clotilde, con un bel timbro corposo e una presenza discreta e insistente.

Ildebrando D'Arcangelo (Oroveso)

Ma Norma è composta da quattro protagonisti, a cominciare dal basso Oroveso, affidato a Ildebrando D'Arcangelo, un habitué di Vienna e uno dei cantanti italiani di riferimento degli ultimi vent'anni. Il personaggio, visto dalla regia come il capo dei ribelli ? Rifugiati ? Resistenti ? Di un nemico sconosciuto che non si vede mai, o il padre di fronte alla figlia ? Tutto questo rimane abbastanza tradizionale, il personaggio non è davvero approfondito, mentre potrebbe esserlo di più (la scena finale che lo mette di fronte al problema dei due bambini è desolante per la sua banalità) e D'Arcangelo non ha alcun problema, anche se la voce ha perso un po' del suo splendore di un tempo, per affermarsi con un canto di grande chiarezza, e soprattutto uno stile musicale attento, molto rigoroso, con una voce molto espressiva e che mantiene una presenza molto particolare grazie a un timbro che rimane affascinante. È una sorta di nobile padre un po' fuori fase, lasciato a se stesso da una regia inesistente.

Un altro terreno incolto, frutto della situazione, quello di Pollione. Pollione è un personaggio poco interessante, con le sue tre scene, l'amore con Adalgisa, il confronto con Norma e Adalgisa alla fine del primo atto, e la scena finale in cui il personaggio si trasforma e si risveglia. Anche lui dovrebbe trasmettere un'evoluzione attraverso tutta l’opera. Vocalmente, la voce deve essere forte, decisa, quella di un Corelli, di un Domingo o di un Vickers, almeno se ci si riferisce a un grande passato.

Dmytro Popov (Pollione)

Pollione stasera non era Juan-Diego Flórez, colpito da una persistente tracheite, ma Dmytro Popov, attualmente in prova nella prossima Iolanta. Ha salvato lo spettacolo in un ruolo che ha debuttato per l'occasione a Vienna. Dmytro Popov è ben noto sui palcoscenici dove interpreta i grandi ruoli lirici del repertorio italiano (Rodolfo de La Bohème, ad esempio) ma anche spesso Don José di Carmen. Si è impegnato a cantare con una voce abbastanza potente, senza particolari problemi ma senza veri colori o espressività. Ha interpretato il ruolo di cui possiede il volume e gli acuti (è un ruolo di baritenore, solitamente affidato a un tenore forte, come abbiamo detto), senza mostrare una personalità particolare, né lasciare il segno in nessun momento. Infine, si è inserito senza problemi nella messa in scena che conserva del personaggio solo i suoi desideri erotici, senza andare molto oltre. Nel complesso un po' piatto, ma non possiamo che esprimergli la nostra gratitudine per aver permesso allo spettacolo di svolgersi e assicurare una performance senza intoppi e nel complesso abbastanza pulita.

Abbiamo chiesto al nostro collaboratore Antoine Lernez, presente alla rappresentazione del 9 marzo in cui ha cantato Flórez, di scriverci qualche parola, cosa che ha fatto con la sua consueta competenza e di cui lo ringraziamo (vedi sotto alla fine dell'articolo).

Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa)

Vasilisa Berzhaskaya ha interpretato il ruolo di Adalgisa con un impegno vocale eccezionale, facendo sentire un personaggio giovane, tenero, senza mai forzare il personaggio, ma disegnandolo con il semplice colore e la semplice potenza del suo canto. Sappiamo che Adalgisa è distribuita in modo molto diversificato a seconda delle produzioni. Al Theater an der Wien, come vedremo, è il potente mezzosoprano di AIgul Akhmetshina a interpretarla con una voce completamente diversa, persino opposta. Quella di Berzhanskaia è quella tipica del mezzo rossiniano “tra due acque”, con colori schiariti da soprano. Scommettiamo che potrebbe essere (potrà essere) una Norma. Di fronte a Lombardi, soprano dal colore un po' più scuro, diventava quella ragazza sconvolta di fronte alla donna già matura e i due timbri funzionavano molto bene insieme.

La performance vocale e stilistica è straordinariamente controllata, anche se anche in questo caso la messa in scena non aiuta particolarmente. E’ lei che mette in scena il suo canto, con accenti strazianti, cambi di colore e di tempo, respiri, momenti di espressività mai esagerati, ma solo guidati dal controllo vocale, dalla morbidezza, dalla dolcezza del timbro, altrove da diminuendi da sogno, ricordando sempre ciò che abbiamo detto sopra di un bel canto teatrale, cioè in situazione e non nella beata soddisfazione di un bel suono. Con la proiezione, con anche il modo di sposare le volute del suono orchestrale, di fare con esso un duetto sbalorditivo, avevamo lì l'essenza di ciò che deve essere una performance di bel canto. Da parte mia, non avevo mai sentito un'Adalgisa così commovente, che ha restituito al teatro la sua presenza solo con il suo canto sulla scena. Se solo la regia le avesse dato un'altra presenza sul palco.

Federica Lombardi (Norma)

Di fronte a lei, Federica Lombardi era Norma. La cantante, come abbiamo detto, è ben nota e apprezzata per le sue interpretazioni mozartiane ed è un'artista molto seria, molto applicata, anche molto sensibile, che apprezziamo.
Ma qui non è Norma.
Non è una questione di canto, canta e si applica per dare quel colore crepuscolare che può funzionare per questo personaggio, non è una questione di tecnica (anche se la voce a volte manca di flessibilità), ma è prima di tutto una questione di incarnazione. Il suo canto è corretto, ci sono bei momenti, espressivi, soprattutto nel primo atto, ma rimane un po' rigido, manca della duttilità necessaria all'espressione, e nel secondo atto le manca il carisma, l'aggressività, una certa “animalità”, ma soprattutto non suscita mai emozioni. La sua gestualità è goffa, si sente che non è a suo agio nel personaggio ed è così preoccupata per il canto che non smette di fissare il direttore. Il risultato è un profilo insipido, un personaggio che non esiste, il che per Norma è ovviamente problematico. L'intera scena finale è del tutto fuori luogo perché non trasmette nulla e la messa in scena la distrugge completamente. Secondo me, il ruolo non è adatto a lei, e nulla nel contesto della produzione era adatto alla sua personalità. È un peccato, ma forse ha anche sopravvalutato le sue possibilità.

Vista d'insieme – Coro

Il coro della Wiener Staatsoper preparato da Martin Schebesta è come al solito molto professionale, con un fraseggio impeccabile e una bella proiezione. La messa in scena gli facilita il compito, dato che non gli richiede grandi movimenti. A questo proposito, Guerra, interpretato con forza (con un'orchestra in buca fulminante), è una bella dimostrazione di ciò che non si deve fare : una fila di fronte al direttore, qualche fucile brandito e qualche gesto pseudo bellicoso e il gioco è fatto. Ridicolo.….

 

Michele Mariotti, maestrissimo

Concludiamo con il gioiello della serata, che ne è il riferimento assoluto e offre ai cantanti che sanno cosa significa stile l'opportunità di essere all'unisono con un approccio che lavora sui ritmi, le variazioni di tempo, i colori, ma anche sulla chiarezza, offrendo alla partitura un modo di respirare raramente sentito in buca a questo livello e con questa cura. È vero che ha a disposizione un'orchestra che sa essere eccezionale quando lo vuole, soprattutto se apprezza il direttore. È ovviamente il caso.

Ciò che si sente in sala in certi momenti è semplicemente sublime. Lavorare sullo stile significa saper suonare sia la melodia belliniana e i suoi incantesimi, sia i momenti più energici, più brutali, più corali, significa saper sostenere le voci lavorando sulla sottigliezza e soprattutto lasciando che la voce si sviluppi senza che l'orchestra la soffochi mai. Garantisce un “materasso sonoro” di un comfort inaudito, che avverte o addirittura previene le difficoltà, sostiene i momenti più pericolosi e lavora in coppia con il palcoscenico (quand’è possibile). Il nostro amico Antoine Lernez ci dice qui sotto quanto bene lavorassero insieme Flórez e Mariotti, il 9 marzo, e direi lo stesso di Berzhanskaia, la cui voce è sempre messa in risalto e accompagnata dall'orchestra.

Michele Mariotti ha lavorato con grande attenzione con l'orchestra su ogni angolo e ogni dettaglio della partitura, rivelando ovviamente particolari che non erano stati notati e una raffinatezza a tutti i livelli che va ben oltre ciò che si considera della musica di Bellini, di cui molti negano il talento di compositore basandosi sulla sua reputazione di melodista. Ma Mariotti riesce a mostrare il rigore della costruzione, le minuscole differenze tonali che creano un crescendo (in Casta Diva…) e la costante preoccupazione di aderire al testo e dare valore alla parola, che è forse il più grande contributo, la più grande novità di Bellini. Abbiamo sottolineato che è rimasto essenzialmente fedele a Felice Romani, con il quale la collaborazione era talvolta burrascosa, ma questa attenzione alla parola è meno marcata in Rossini, meno anche in Donizetti e la ritroveremo in Verdi, e naturalmente anche in Wagner. Non è un caso che Wagner ammirasse Bellini. Dalle lunghe melodie pazientemente organizzate e strutturate, Mariotti fa sentire la forte geometria interna, tanto è grande la chiarezza della resa e permette di sentire praticamente un “nota a nota”. E di fronte alle lunghe melodie, altri momenti più violenti, brutali come il coro Guerra con una dinamica incredibile, senza permettere al tempo di respirare e un ritmo incredibilmente serrato. Queste differenze tra alcuni momenti languidi e altri con uno slancio più marcato, la direzione di Mariotti con la sua varietà e la sua attenzione alla resa lo rende sensibile. Colpisce anche la ricerca di una certa concisione, anche nei momenti più lirici. Si tratta anche della forza drammatica, della potenza drammaturgica della parola e della frase, del modo in cui vengono creati gli arrangiamenti degli elementi tra di loro.

Non potendo trovare che il vuoto scenico sul palco, Mariotti costruisce la propria drammaturgia, con momenti che mi sono sembrati eccezionali, come il preludio al secondo atto, con quel gioco delle corde gravi, con gli echi dei legni, il tutto con un'orchestra che sembrava spesso più da camera che sinfonica, e l'intermezzo musicale tra la prima e la seconda scena del secondo atto : i due momenti sono riusciti a creare un'atmosfera, una tensione e allo stesso tempo una malinconia che diceva tutto dell'opera e con una sorprendente semplicità, senza mai alcuna esagerazione o insistenza, e senza alcun momento sottolineato in grassetto. Il risultato è un'esecuzione fluida e raffinata, con una linea tenuta fino alla fine, che mi ha fatto provare (ed è raro) palpitazioni di emozione in alcuni momenti, solo ascoltando il suono proveniente dalla buca. Miracolo di linea e dosaggio, miracolo di gioco sui colori, sul lirismo e la malinconia, in un flusso sorprendente di calore, ma anche di rigore e precisione. Un'interpretazione che non esito a definire miracolosa, ma un miracolo solitario, che non può contribuire da solo (anche con cast e coro) a mantenere viva la fiamma teatrale, senza Norma e senza regia.

Sì, « solitario » come si dice di un diamante, tale è  Michele Mariotti a capo di un'orchestra della Wiener Staatsoper semplicemente grandioso. E riscoprire il senso della musica di Bellini o addirittura scoprirla, ti dà un momento di felicità assolutamente unico.

 

Pollione (Juan-Diego Flórez) il 9 marzo, contributo di Antoine Lernez

Juan Diego Flórez (Pollione)

Juan Diego Flórez è tornato, durante la rappresentazione del 9 marzo, sul palco della Staatsoper di Vienna, dopo aver annullato la sua presenza alle due rappresentazioni precedenti a causa di una tracheite. Che sia perché soffre ancora delle conseguenze di questa malattia, o perché il ruolo di Pollione non è particolarmente adatto alle sue capacità vocali (creato da Domenico Donzelli, di cui Heinrich Panofka ha scritto che la sua voce era “di una rara forza, e si prestava, in particolare, agli accenti drammatici”, e che possedeva ” la vera estensione della voce del tenore di forza”, oggi Flórez non ha cantato con il comfort, l'esuberanza e la facilità dei suoi migliori giorni, denotando una certa tensione davvero insolita in lui quando affronta alcune note acute. Tuttavia, nel caso di Flórez, l'arte del canto vince i limiti imposti dalle caratteristiche dello strumento, così che l'ascoltatore non può che ammirare la suprema eleganza della frase, la stupefacente intelligenza musicale con cui affronta e risolve ogni frase, sempre in funzione dell'espressione, sempre attento al testo, in modo che non ci sia mai una dimostrazione gratuita, una gestualità per stupire la galleria, una ricerca di effetti, ma al contrario, tutto nella sua interpretazione è in funzione della situazione drammatica rappresentata e della musica. Di tutti i cantanti del cast, è senza dubbio Flórez che comunica più strettamente con la concezione della musica di Bellini che si sente nella buca con Mariotti. Con Berzhanskaya, è lui che, nel modo più luminoso, trasforma ogni sua frase in un esercizio di teatro musicale. E inoltre, abbandonato come i suoi colleghi da una messa in scena che priva il personaggio di Pollione di una personalità riconoscibile, di un profilo proprio (oltre a suggerire in modo inutilmente eccessivo la foga dei suoi impulsi erotici), Flórez riesce, attraverso il suo canto, a delineare la personalità di Pollione, a conferirgli, grazie alla nobiltà e alla misura del suo modo di scolpire le frasi, una dignità e una densità umana innegabili. Il Pollione di Flórez è la prova che un grande dell'opera rimane tale anche nelle circostanze meno favorevoli.

 

[1] Varo, generale romano sconfitto da Arminio a Teutoburgo (9 d.C.) che disperò Augusto (“Varus, ridammi le mie legioni!”), ponendo fine alle ambizioni romane di possedere tutta la Germania.

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