Giuseppe Verdi (1813–1901)
Falstaff (1893)
Commedia lirica in tre atti
Libretto di Arrigo Boito da Le allegre comari di Windsor (The Merry Wives of Windsor) e Enrico IV(Henry IV) (parti I e II) di William Shakespeare
Prima rappresentazione il 9 febbraio 1893, Teatro alla Scala, Milano

Direttore Daniele Gatti

Regia Giorgio Strehler
ripresa da Marina Bianchi
Scene e costumi Ezio Frigerio
Scene riprese da Leila Fteita,
Supervisione dei costumi Franca Squarciapino
Luci Marco Filibeck
Coreografia Anna Maria Prina

Sir John Falstaff Ambrogio Maestri
Ford Luca Micheletti
Fenton Juan Francisco Gatell
Dott. Cajus Antonino Siragusa
Bardolfo Christian Collia
Pistola Marco Spotti
Mrs. Alice Ford Rosa Feola
Nannetta Rosalia Cid
Mrs. Quickly Marianna Pizzolato
Mrs. Meg Page Martina Belli
L’oste della Giarrettiera Mauro Barbiero
Robin, paggio di Falstaff Giovanni Tibaldi

Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Maestro del coro Alberto Malazzi

Produzione Teatro alla Scla (7 dic.1980)

Milano, Teatro alla Scala, sabato 18 gennaio 2025, ore 20

Ancora una volta la Scala torna a Falstaff. Dal 1980, questa è la quattordicesima ripresa dell'ultima opera di Verdi, otto volte con la regia di Giorgio Strehler, una volta con quella di Peter Stein venuta da Cardiff nel 1989, tre volte con la visione di Robert Carsen (dal 2013 al 2015) e una volta nella produzione di Damiano Michieletto (2017). L'ultima opera di Verdi, rappresentata per la prima volta nel 1893, è talmente importante per il Teatro alla Scala da essere associata al nome di Arturo Toscanini, che la diresse per nove repliche (fino al 1929), tra cui la prima ripresa, nel 1899, mentre Verdi era ancora in vita.
Eppure Falstaff non è la più popolare delle opere di Verdi e molti appassionati non si lasciano conquistare facilmente dalla musica. Ma è proprio l'interesse di un capolavoro che è di per sé un vero e proprio universo.
Ecco perché Falstaff è uno dei cavalli di battaglia di Daniele Gatti, che l'ha già diretto molte volte, tra cui la produzione di Carsen all'Opera di Amsterdam nel 2014 e alla Scala nel 2015 (i link sono agli articoli sul mio blog personale in francese con traduzione automatica). Ora torna alla Scala col titolo per la seconda volta, e nella storica produzione di Giorgio Strehler, risalente al 1980 e diretta successivamente da Lorin Maazel e Riccardo Muti.
Nonostante una ripresa che alcuni considerano museale, ci sorprende e ci stupisce ancora la qualità di questo allestimento, la sua immensa poesia, il suo colore vagamente malinconico e, soprattutto, il significato che Strehler ha voluto dargli, abbandonando Windsor per ambientare la vicenda nei paesaggi della pianura padana, nel cuore della campagna che Verdi conosceva bene e in cui aveva vissuto.
Non si tratta quindi di un viaggio nel passato, ma di un teatro ancora vivo e significativo, al quale siamo invitati.

 

Allegre comari (Primo atto)

Alcuni punti da rammentare

Anche se il nome di Verdi è per tutti legato alla Scala, egli vi creò solo sei opere, quattro durante gli « anni di galera » : Un giorno di regno (1840), Nabucco (1842), I Lombardi alla prima crociata (1843) e Giovanna d'Arco (1845). Solo 42 anni dopo ebbe luogo la prima di Otello (1887 ) poi di Falstaff (1893) uno di seguito all'altro. Questi quarantadue anni senza prime in loco dimostrano che il suo rapporto con il teatro milanese non fu un mare tranquillo, tutt'altro, visto che affidò la maggior parte delle sue produzioni ad altre istituzioni. Debutta alla Scala con un insuccesso (Un giorno di regno), seguito dal suo primo trionfo (Nabucco). I Lombardi fu un grande successo, Giovanna d'Arco meno. La Scala fu il teatro dei suoi inizi e della sua fine quando, all'età di 74 anni, divenne un mito vivente creando Otello, prima di chiudere la sua carriera operistica con Falstaff all'età di 80 anni.

Questi due ultimi trionfi li deve anche ad Arrigo Boito, poeta, drammaturgo e musicista di immensa cultura letteraria, che aveva tradotto Shakespeare e con il quale, su invito dell'editore Ricordi, collaborò per la prima volta alla revisione del Simon Boccanegra nel 1881. Come drammaturgo e compositore d'opera, Boito era profondamente convinto della centralità del testo nella composizione di un'opera e del valore dei libretti (tradusse anche i libretti di Wagner, tra cui Tristan und Isolde).
Conosciamo anche la cura maniacale di Verdi nel far sì che parole e musica lavorino insieme con una precisione da gioielliere, e i suoi rapporti talvolta burrascosi con alcuni librettisti.
Ma con Boito c'era un rapporto di fiducia e, soprattutto, di grande stima, e un autentico scambio alla pari sulla drammaturgia.

Dopo l'insuccesso di Un giorno di regno, non si può dire che Verdi si sia allontanato dalla commedia, perché, da un lato, alcune delle sue opere includono scene leggere o personaggi comici, come l'inizio di Rigoletto, o il personaggio di Fra Melitone ne La Forza del destino e, soprattutto, lui stesso aveva pensato fin dagli anni 1850 a un'opera-comique, un genere più leggero. Ma all'epoca della sua prima ricerca, Falstaff era in un certo senso “già preso” dal successo di Otto Nicolai Die lustigen Weiber von Windsor (1849).
Boito propose Falstaff a Verdi intorno al 1889, e Verdi colse al volo l'occasione : i due ebbero discussioni drammaturgiche dirette sulla costruzione del libretto, che portarono al capolavoro.
Quante volte bisogna ripetere che Falstaff non è un'opera buffa, contrariamente a quanto si legge qua e là. Nella nostra recensione della produzione salisburghese di Christoph Marthaler, così fraintesa pur ponendo direttamente il problema, abbiamo già sollevato la questione (si veda il link al nostro articolo qui sotto). Non ha i codici né lo stile dell'opera buffa e, se si è creata confusione, è spesso a causa di una distorsione dell'opera da parte di interpreti clowneschi o di una regia che non ne coglie il senso.
Il titolo è commedia lirica, cioè prima di tutto un genere – la commedia- che Verdi affrontava per la prima volta a pieno titolo. Un giorno di regno, l'altra opera sorridente, è infatti un melodramma giocoso.

Commedia significa uno stile particolare, soprattutto nella declamazione, nell'accompagnamento musicale e nel trattamento dei personaggi. Tutta la novità, come sappiamo, sta nel fatto che lo stile della commedia impone un diverso rapporto tra musica e testo, con un continuum e una fluidità che Wagner aveva già sperimentato in Die Meistersinger von Nürnberg (1868), presentato in Italia alla Scala all'apertura della stagione 1889–1890 (26 dicembre 1889) in traduzione italiana, e Julian Budden (il grande specialista verdiano) scrive che Verdi aveva senz'altro visto l'allestimento.
In effetti, c'è una sorta di legame tra i ritmi dell'una e dell'altra, ma anche nei due personaggi con la stessa vocalità (basso-baritono) che si raccontano la stessa storia, una storia di rinuncia… Tra Sachs, Falstaff, e poi come lo vedremo la Marescialla del Rosenkavalier, ci sono legami, echi, filiazioni. Per questo, anche se Verdi chiama familiarmente il suo eroe il pancione, non è un personaggio clownesco, con buffonate che fanno ridere i bambini ; è un personaggio più complesso, che sfrutta certamente la sua posizione di aristocratico a suo vantaggio, ma che in un certo senso sta sparando i suoi ultimi colpi, con un sorriso, ma un sorriso consapevole e senza troppe illusioni.
Per questo mi ha affascinato tanto il lavoro abissale e complesso di Marthaler a Salisburgo, perché coniuga l'idea di un Falstaff “a fine carriera”, facendo un parallelo con Orson Welles, ma anche con lo stesso Marthaler ultrasettantenne, e naturalmente con Verdi ottantenne, che era perfettamente consapevole che la fine poteva arrivare da un momento all'altro, Si scusò in anticipo con Boito per averlo fatto lavorare per niente, nel caso fosse arrivata la fine, e anche se era per civetteria, visto che all'epoca non aveva grossi problemi di salute, ma è ovvio che a 80 anni gli poteva succedere di tutto.
La visione un po' crepuscolare di Giorgio Strehler è quindi giustificata, così come il pregevolissimo lavoro sulla commedia, con evidenti richiami a volte alla commedia dell'arte, ma soprattutto a una sorta di universo mentale del Verdi compositore, nutrito dai paesaggi rurali della pianura padana. Strehler evoca un Falstaff diverso che non ha perso nulla della sua profondità e originalità.

 

Ripresa museale o museo vivente ?

Alcuni critici e spettatori “informati” hanno espresso rammarico per l’idea cosiddetta “museale” di riproporre l'allestimento di Strehler, che è stato regolarmente ripreso dal 1980 al 2004, mentre da allora i milanesi hanno potuto assistere al popolarissimo allestimento di Robert Carsen nel 2013 (che ha fatto il giro di molti teatri nel mondo, tra cui Londra, Toronto, il MET e Amsterdam) e a quello di Damiano Michieletto nel 2017, che sarà riproposto il prossimo marzo al Teatro Carlo Felice di Genova.
Di fronte alla scelta di una ripresa, Dominique Meyer ha optato per la produzione di Strehler e non è una cattiva idea.
In un teatro che ha tra i suoi fiori all’occhiello una Bohème di Zeffirelli del 1962 (produzione creata da Herbert von Karajan), riproporre una produzione del 1980 non sembra un crimine imperdonabile, tanto più che il teatro ha riproposto regolarmente Le Nozze di Figaro (1981) e Die Entführung aus dem Serail (1972), sempre di Strehler, per non parlare della leggendaria Cenerentola di Ponnelle, rappresentata alla Scala e a Monaco di Baviera dal 1973.
Se la Scala fosse un teatro aperto agli allestimenti contemporanei, con cose teatralmente importanti, potremmo tenere conto di queste osservazioni un po' “acerbe”, ma le stesse persone hanno applaudito il mediocre (e recente) allestimento di Leo Muscato de La forza del destino o altre assurdità di Davide Livermore (Macbeth, Tosca… ). A parte la parentesi Lissner, dagli anni 1990 la Scala ha conosciuto una grande povertà in termini di creazione teatrale e di impegno registico (con l'eccezione di qualche produzione ronconiana e della presenza ancora regolare di Giorgio Strehler in quegli anni), per cui rivisitare una delle opere emblematiche di uno dei due immensi registi italiani del Novecento non fa troppo male agli occhi. Anzi, può ricordare al pubblico milanese, ormai abituato alla mediocrità drammaturgica (e meno colto di una volta) cos’è una grande regia.

L'unico discorso ammissibile è quello più fondamentale della natura effimera dell'arte teatrale e dello spettacolo, della messa in scena come “opera d'arte” non perenne, strettamente dipendente dai contesti, dalla sociologia e dalla cultura del pubblico, ma anche dall'evoluzione delle tecniche. Non è detto che opere di registi mitici (Wieland Wagner o Luchino Visconti) incontrino oggi il favore del pubblico. Il teatro è anche un'arte del hic et nunc, e la magia del momento diventa rapidamente un ricordo mitizzato dalla memoria, cresciuto dal cuore e dalle emozioni provate in quel momento. Lo abbiamo visto quando, in occasopne del festival “Memoria” a Lione nel 2017 la mitica produzione di Tristan und Isolde di Heiner Müller (Bayreuth 1993) è stato riprodotta senza avere il fascino bayreuthiano, mentre contrariamente a questa relativa delusione, ha trionfato invece la ripresa dell'Elektra di Ruth Berghaus, durante lo stesso anno e presentata per la prima volta a Dresda all'inizio degli anni '80. Qualche anno prima (nel 2009, sempre a Lione) aveva anche trionfato La Traviata di Klaus Michael Grüber, che tanto scandalizzò il pubblico dello Châtelet di Parigi nel 1993. Questo significa semplicemente che ci sono spettacoli che resistono alla prova del tempo e mantengono il loro fascino. Non è una questione di qualità (sono tutti) grandi spettacoli ma una questione di incontro, di momento, di contesto, di sala, e questo è uno dei misteri dell'ermeneutica.
Inoltre, non è una cattiva idea per un teatro conservare qualche pezzo della sua storia produttiva, se non altro come “marchio”, segno di tradizione e di storia, ma anche per l'educazione del suo pubblico e della sua cultura, in un'epoca in cui si dà tanta importanza all'“intrattenimento” tipo “toccata e fuga” piuttosto che al contributo culturale. E purtroppo il pubblico scaligero di oggi è uno dei meno colti al mondo, più sensibile al selfie che alla musica a differenza di quello di qualche decennio fa, che era invece competente.
Quindi ben venga il Falstaff di Strehler alla Scala. 

Luci di una regia

La prima cosa che colpisce lo spettatore quando si alza il sipario è il rapporto inscindibile tra Strehler e il suo scenografo (o i suoi scenografi), in questo caso Ezio Frigerio, la monumentalità, il gioco tra riferimenti precisi ed evocazione, il gioco tra interno ed esterno, il modo in cui lo spazio struttura i movimenti e il legame con le luci.
Il primo atto si apre con i chiaroscuri di questa strana “sala del trono” dove Falstaff è insediato e troneggia davanti alle sue enormi botti, come il suo regno, che è anche un regno irrisorio, un po' messo da parte, isolato dal casolare, quasi nascosto, in un esilio che fa venire in mente il titolo del libro di Albert Camus “ LEsilio e il regno ”, in un luogo di relegazione dove gli altri sono sicuri che non farà troppi danni.

Questa idea è sostenuta dalle luci (splendidamente riprese da Marco Filibeck), con raggi di luce diagonali e con una luce naturale data dal cortile (lo spazio esterno da cui provengono tutti i personaggi), che non è una luce chiara ma indiretta.

Il “Re” Falstaff nel suo regno : Ambrogio Maestri (Falstaff), Christian Collia (Bardolfo), Marco Spotti (Pistola)

Non si può pensare a Strehler senza pensare a luci e ombre, a colori spesso crepuscolari o tenui e a quella luce che raggiunge Falstaff, a questo gioco di luci ad angolo basso di un tavolo che non appare mai veramente dritto, ma diagonalmente obliquo, e alla parete di mattoni traforati che fa pensare a un immenso moucharabieh, dietro il quale il re esiliato o relegato fa le sue ultime mosse. Tutto in questa immagine iniziale contribuisce all'idea di inutilità, di emarginazione, di derisione, con questo trono davanti alle botti che fa quasi di Falstaff un re alla Ionesco, il re che muore oppure che sta lentamente morendo. Ecco un dato permanente di qualsiasi lavoro di Strehler : il potere delle immagini che raccontano immediatamente una storia.

La seconda scena del primo atto viene invece tutta in contrasto.
Le immense scenografie richiedono brevi interruzioni tra una scena e l’altra, il che ovviamente impedisce la fluidità dell'azione, ma allo stesso tempo struttura il tutto in “quadri” che raccontano qualcosa della vita rurale e fanno andare avanti l’azione drammatica
Eravamo al coperto, relegati all'ombra di enormi botti gonfie di vino come la pancia di Falstaff (difficile non fare il collegamento), ed eccoci qui, proiettati all'esterno, contro gli edifici, non del tutto inzuppati di luce solare, un sole che brilla attraverso il gioco di luci e ombre e schiaccia solo l'orizzonte, ed è qui che si inserisce una delle idee chiave dello spettacolo, almeno nei primi due atti. La scena si svolge in un paesaggio rurale familiare al pubblico di Milano e del Nord Italia, ma anche a Verdi che compose il suo Falstaff a Sant'Agata, nella ruralità della pianura padana, con la sua caratteristica architettura in mattoni, i suoi lunghi edifici che si possono vedere ancora oggi lungo le autostrade Milano-Bologna o Torino-Piacenza-Brescia. Una realtà che indica le radici di questa musica.

Atto primo, secondo quadro ; Vita rurale nella pianura padana

Questi edifici agricoli, con un altro in lontananza, sono senza dubbio l'immagine più bella di tutto lo spettacolo, che riflette non solo uno stile e un luogo, ma anche un clima soleggiato e soprattutto sereno. Mentre il proscenio è in ombra, lo sfondo è inondato dalla luce del sole, un sole così forte da diffondere una leggera foschia di calore, con un carro di fieno sulla destra contro l'edificio, il fieno dorato, colore di questo sole che abbraccia le forme, e che diventerà il luogo della storia d'amore di Fenton e Nannetta. È proprio il carro di fieno, altra trovata geniale dello scenografo e di Strehler, a conferire all'immagine la sua unicità e bellezza, perché la sua stessa presenza evoca il lavoro dei campi, la fatica inerente, ma una ruralità felice.

In questo spazio unico, Strehler divide i due gruppi, gli uomini da una parte e le donne dall'altra, con un gioco di luci e ombre, con ognuno nel proprio angolo che trama all'insaputa dell'altro : quando uno è in luce (le donne per prime), gli uomini sono nascosti dall'ombra, e poi viceversa. Anche in questo caso, l'interazione tra le voci del sestetto, così essenziale per questa seconda scena, è accompagnata dagli effetti di luce che mascherano gli uni agli occhi degli altri e allo stesso tempo rivelano allo spettatore, attraverso la semplice visione, il funzionamento della musica e del palcoscenico, in una sorta di meccanismo di precisione di luci e movimenti che accompagna il meccanismo di precisione che deve essere il canto in questo momento… Strehler sapeva di musica…
Infine, i costumi (rivisti da Franca Squarciapino, la collaboratrice di sempre di Strehler et Frigerio) si fondono con i colori dell'insieme, con i loro riflessi pastello, come scene di vita quotidiana in miniatura, contribuendo all'armonia pittorica dell'insieme, creando momenti di incanto.
Ci viene in mente ciò che rende unica una regia Strehler, che lavora su tutta una serie di dettagli estetici : scenografie, luci, costumi, tutti segni evidenti, che da soli indicano un significato, prima ancora dei movimenti dei personaggi, mai eccessivi, mai caricaturali, sempre inquadrati in modo molto preciso : Strehler è sempre parsimonioso nei movimenti e lavora (come un orologiaio) solo sullo stretto necessario. È il caso dei movimenti di Falstaff nella prima scena, il modo in cui si siede e si alza per affermare se stesso (il monologo sull’onore) mentre gli altri personaggi appaiono più piccoli, più mobili, come animali domestici che circondano il padrone (o chi per lui), che in realtà ha un solo sottomesso, un paggio, un bambino che lo accompagna come un ultimo residuo di sovranità.

La stessa coreografia è utilizzata nella seconda scena, molto influenzata dal lavoro di Strehler sulla commedia dell'arte, dove i movimenti sono simmetrici, mai disordinati, e presto messi a punto con lo stesso ritmo da Fenton e Nannetta, che si ritrovano nel carro di fieno per parlare di cose dolci – “sdraiati nel fieno con il sole come testimone” (“couchés dans le foin avec le soleil pour témoin” dice una canzone francese, per l'esattezza) – con movimenti vivaci per entrare, baciarsi e uscire, sempre con un meccanismo di precisione che è allo stesso tempo fluido e sorridente.
Alla fine del primo atto tutto è pronto, l'azione di Falstaff e la risposta degli uomini, visto che Bardolfo e Pistola sono andati a denunciare il vecchio cavaliere a Ford, e delle donne, che hanno facilmente scoperto l'inganno.

La trappola scatta nel secondo atto.
La prima scena è l'incontro tra Falstaff e Ford (il Signor Fontana…), una vicenda complessivamente piuttosto contenuta, con un Falstaff a ruota libera che conosce i costumi della buona società e un Ford scolpito molto bene da Luca Micheletti, che predica il falso per conoscere il vero, e il panico (o la rabbia repressa) del marito ingannato. Ciò è in contrasto con alcuni Ford recenti, come Degout o Keenlyside, più inclini a ritrarre un personaggio più contenuto e ridicolo (Si ricorda di Degout ad Aix e Lione), e competere nel ridicolo con Falstaff : qui abbiamo una visione più tradizionale, ed è forse in questa scena che il lavoro di Strehler mostra maggiormente la sua età, ma sottolinea il lato un po' “bellimbusto” di Ford nel suo bel vestito cinquecentesco.

Atto secondo, secondo quadro

D'altra parte, la seconda scena, la famosa scena del cesto della biancheria che tutti aspettano perché è senza dubbio il culmine dell'opera, è uno dei grandi successi del teatro di Strehler. Innanzitutto, come la seconda scena del primo atto, è ambientata in uno spazio aperto, ma al confine tra interno ed esterno ; l'idea di spazio privato è data solo da un cancello, fuori dal quale si affollano i contadini con i loro attrezzi, forconi, falci e così via. Anche se la scena rimane sorridente, la loro apparizione richiama fugacemente alla mente Jacqueries, rivolte passate o future, un modo per ricordarci che il popolo è qui, un po' come nel terzo atto de Le Nozze dove tutti ballano e finiscono per lanciare fogli e spartiti come se annunciassero un futuro rivoluzionario. Qui è il vecchio cavaliere a essere ridicolizzato, e c'è qualcosa nell'arrivo dei contadini che ci ricorda che Falstaff è anche un'opera di classe : il cavaliere si prende la libertà di corteggiare le donne borghesi perché presume che saranno sedotte dal “cavaliere” (una versione comica di Zerlina/Don Giovanni). Tutti i livelli sono allestiti rispettando scrupolosamente il libretto e gli oggetti, dall'enorme cesto di vimini e la montagna di biancheria che si asciuga al sole d'Italia al paravento dietro cui si nascondono gli amanti Fenton e Nannetta, e i diversi livelli sono trattati con incredibile rigore.

Marianna Pizzolato (Quickly), Ambrogio Maestri (Falstaff) Rosa Feola (Alice)

Un solo esempio : il modo in cui le donne picchiano Falstaff, nascosto nella sua cesta, come se stessero scolando la biancheria che serve come una sorta di frusta, creando un movimento coreografico che segue la musica e allo stesso tempo preannuncia la “punizione” del vecchio. Possiamo anche vedere come il cesto viene portato e poi svuotato oltre il bordo di pietra, al di là del quale possiamo intuire che c'è l'acqua che tutti aspettano. La cesta viene svuotata, non gettata via, come se Falstaff fosse una sorta di prodotto di scarto. Tutto questo è una precisione ad orologeria, che distingue i diversi livelli, le diverse scene (tutto si riunisce in questa scena, Falstaff ingannato, la coppia Fenton-Nannetta scoperta, Ford ubriaco di rabbia e il balletto di tutti intorno a questi tre poli che sono la posta in gioco del terzo atto.

Atto secondo : immagine finale

Ricordiamo l'enorme baraonda di Marthaler a Salisburgo, altrettanto rigorosa e ingannevolmente illeggibile. Qui si tratta di una coreografia della follia che si costruisce gradualmente fino a culminare nello svuotamento nell'acqua, che emerge come un'immensa e quasi fugace proiezione proprio nell'ultima immagine. Una costruzione in crescendo che risponde alla musica sempre più esplosiva in un insieme incredibilmente elaborato. Evviva Strehler.

Come spesso accade con i terzi atti di Falstaff, questo è allo stesso tempo poetico e problematico. Che il terzo atto fosse più debole dal punto di vista drammaturgico è stato anche oggetto di discussione tra Verdi e Boito. Boito ne era perfettamente consapevole, spiegando che nella tragedia la tensione si costruisce fino all'ultima scena, che è il culmine, perché nelle azioni tragiche è spesso la seconda parte quella più tesa e musicalmente più ricca, con le arie più grandi.
Nella commedia, invece, tutto è distribuito in modo diverso e il climax raramente si verifica nell'ultima scena, e prende come esempio le opere giocose di Rossini, le cui ultime scene sono spesso scene più convenzionali di riappacificazione drammaturgica. In Falstaff, dopo il climax del finale del secondo atto, il terzo è più calmo, meno teso, anche se inizia con il monologo di Falstaff, che è un monologo da fine del mondo.

La prima scena del terzo atto presenta Falstaff nell'ambientazione del primo atto, ma a terra… non c'è più il trono, e Strehler mostra un'immagine di decadenza, che funziona con il monologo iniziale…

Mondo ladro, mondo rubaldo
Reo mondo…
Va', vecchio John, va', va' per la tua via ; cammina
finché tu muoia.

C'è amarezza in questo monologo mentre il personaggio osserva la situazione, messo in biancheria come un’oggetto e gettato nel Tamigi…
Ma dopo questo breve momento di sconforto, l'arrivo del vino lo riconcilia con la vita, il sole, il mondo… Falstaff non è un personaggio depresso ; al contrario, è costantemente preso dalla vita e dal mondo. Così, quando arriva Quickly, è di nuovo pronto a partire per nuove avventure, come si potrebbe dire.
Anche se all'inizio è diffidente perché lo stesso schema si ripete, si lascia convincere, non tanto per ingenuità quanto per voglia di vivere. È questo appetito irresistibile che guida l'idea che non ci sia più nulla da rischiare o da perdere.

L'intero atto è progettato per far credere al pubblico che ancora una volta Falstaff sarà l'oggetto della farsa. Poiché tutti gli altri guardano Quickly dall'esterno, sia Alice che Ford. Ma la storia di Falstaff potrebbe in realtà finire nel secondo atto, perché il caso è chiuso.

Nel terzo atto invece, e in particolare in tutta la seconda parte, la fantasmagoria è allestita da Alice per un unico scopo : far sposare Nannetta con Fenton e intrappolare così Ford… Qui Falstaff è strumentalizzato per uno scopo diverso da sé.
La trama non è così lineare come sembra. Fin dall'inizio, Falstaff stesso è oggetto di una farsa che mira anche a “punire” Ford per la sua gelosia e il suo autoritarismo di padre. Dal secondo atto in poi, i due oggetti, Ford e Falstaff, hanno “destini” paralleli, ciascuno dei quali viene punito a turno. Falstaff viene punito nel secondo atto, Ford nel terzo. Ancora una volta Marthaler aveva separato molto chiaramente i due oggetti, sottolineando nel terzo atto il ruolo di Alice, la regista dell'intera vicenda.

Atto terzo

Falstaff viene utilizzato per aggirare Ford, che invece crede (come il marito geloso e prepotente che è) che la punizione di Falstaff sarà prolungata… Ma in realtà, la fantasmagoria e le maschere hanno un solo scopo : mandare a monte il matrimonio Nannetta-Cajus e umiliare il marito. Un'altra partita di biliardo a più colpi.

Il fatto che il matrimonio Nannetta-Fenton sia oggetto di dibattito è enfatizzato dal libretto perché sono Fenton e Nannetta ad avere ciascuno le due “arie” della seconda parte. Fenton apre con Dal labbro il canto estasiato vola e Nannetta segue come regina delle fate con la sua aria, senza dubbio uno dei vertici lirici della partitura, sul fil d'un soffio etesio. In queste due arie la coppia è isolata, a ulteriore riprova dell'intreccio tra musica e dramma. Con ovvie conseguenze drammaturgiche : si tende a dimenticare che la fantasmagoria finale è uno spettacolo, una mascherata essenziale perché lo stratagemma possa irretire Ford, per cui il regista deve abbandonare la sua rappresentazione tradizionale (come fa Marthaler a Salisburgo) o fare in modo che la “messa in scena” dello spettacolo sia sufficientemente chiara perché le maschere cadano rapidamente. È quello che sceglie di fare Strehler, combinando la poesia della serata, i colori, i dettagli (le lanterne) e una serie di segni che riportano rapidamente Falstaff alla realtà. Falstaff infatti non è completamente codardo né ingenuo. Ha combattuto, ha un passato (forse un po' mitizzato), e poi il mondo ai tempi di Shakespeare non era razionale, l'irrazionale esisteva accanto al razionale, le forze della notte non erano considerate come favole, ed è comprensibile che inizialmente sia terrorizzato. Dall'antichità fino al XVIII secolo (o anche oltre, come ci insegna il Romanticismo) il confine tra il razionale e l'irrazionale è tenue.

Ambrogio Maestri (Falstaff)

La maggior parte dei terzi atti di Falstaff sono simili in molte produzioni e l'atto è estremamente difficile da mettere in scena. Per questo, al di là delle scelte radicali, le differenze si avvertono in modo più sottile, ed è su questa sottigliezza che Strehler gioca. Dopo aver evocato la pianura padana con vero realismo poetico, elimina tutto ciò che potrebbe richiamare questo realismo, giocando sulle luci, sui costumi, sulla luna troppo nuvolosa per essere sincera… Gioca sullo spettacolo fantasmagorico senza cercare di “spaventare”, cosa che alcuni cercano di fare in modo inutile e sbagliato.
Falstaff, inoltre, capisce subito (non è così stupido) che i demoni che lo tormentano sono troppo belli per essere veri, e riconosce subito Bardolfo. Tutti si smascherano rapidamente, tranne ovviamente gli sposi…
Inizia allora il momento (che ricorda il drammaturgo francese Marivaux) della verità e delle successive rivelazioni, in una sorta di clima generale di pacificazione, un momento delizioso delle commedie in cui tutti trovano finalmente la loro verità, la loro sincerità e il perdono è generale, di fronte alle maschere e alle finzioni che cadono, sull'esempio de Le Nozze di Figaro da cui il movimento del quarto atto non è così lontano, come rivela il parallelo registico di Strehler…

Tutti gabbati : Rosa Feola (Alice) Ambrogio Maestri (Falstaff) Luca Micheletti (Ford)

È proprio alla fine, infatti, che troviamo anche Strehler, nel finale in cui Falstaff, dicendo alla folla “Tutti gabbati”, si rivolge al palcoscenico e alla platea, che si illumina per le ultime battute, in un insieme che ricorda il suo finale nelle Nozze di Figaro, riecheggiando, naturalmente, Mozart dove Il conte, ma anche Figaro sono “gabbati” e il tutto perdonato nella celebrazione riconciliatoria. Dopo essere stata un'opera di finzione e sarcasmo in cui tutti si prendono in giro e si mascherano – Falstaff, Ford, le donne – e che giustamente finisce in maschera, Falstaff diventa l'opera della riconciliazione e del sorriso, un sorriso luminoso e collettivo illuminato in piena comunione da un'intera platea[1]

Una direzione musicale in sintonia con il palcoscenico

Falstaff è uno dei titoli prediletti di Daniele Gatti, che lo dirige per la seconda volta alla Scala, e che è un direttore d'orchestra che dirige un'opera in armonia con ciò che vede sul palcoscenico : Certo, non può dirigere l'abbagliante Falstaff di Carsen nel 2015 come il crepuscolare Falstaff di Strehler, che non raccontano la stessa storia, e del resto la visione di un direttore d'orchestra si evolve con il tempo, con la maturazione, e soprattutto con una riflessione sull'opera che rimane sempre viva per non cadere nella routine e nella polvere. È un enorme vantaggio che lo stesso direttore d'orchestra non dia mai la stessa interpretazione da una produzione all'altra, o addirittura da una serata all'altra.

D'altra parte, Falstaff è una delle opere più delicate di Verdi, che spesso risulta eccessiva, a volte grossolana, perfino roca, nella tradizione del buffo, pur essendo un'opera complessa, e che lo stesso personaggio centrale è piuttosto abissale, come ha mostrato chiaramente la produzione salisburghese di Marthaler (con riferimenti a Orson Welles, a Shakespeare e a se stesso) – torno a parlarne con tanto più piacere perché è stata condannata dalla maggior parte dei critici e degli spettatori, e perché ha posto l'unica domanda che nessuno vuole sentire, quella sulla fine.
Strehler pone la questione della fine anche attraverso il semplice gioco di luci, un sole che non splende mai, il gioco di luci e ombre, una raffinatezza di movimenti quasi unica, e aggiunge una caratteristica che non ci aspettavamo, l'italianità, le radici di un Verdi insediato nelle terre rurali della sua nascita laddove ci si aspetta Windsor.

Daniele Gatti segue quasi parola per parola questo piano, con una direzione fatta di luci e ombre, vivace quando serve, più crepuscolare quando la situazione e le immagini lo richiedono, con una preoccupazione costante, la vita, con i suoi alti e bassi : Falstaff è un'opera di vita, con le sue verità, le sue false pretese, le sue maschere e buffonate e la sua fine.
Per dirigere e concertare un'opera del genere è necessaria una conoscenza intima della partitura, fin nei minimi dettagli, ma anche una profonda conoscenza di Verdi e della sua scrittura, che è tutt'altro che rozza, tutt'altro che tzim bum bum, come si sente nelle esecuzioni di repertorio dove l'orchestra è solo un banale tappeto sonoro che prepara l'intervento del solista e della voce come se la voce fosse l’inizio e la fine di tutto.
Con Verdi, come con tutti i grandi compositori, l'orchestra è protagonista nella misura in cui controlla l'espressione vocale, i tempi, i ritmi e la respirazione. La scrittura raffinatissima di Verdi, le indicazioni agogiche e le indicazioni cromatiche sono precise, anche se la tradizione le ha dimenticate a favore di acuti non scritti o del tubare di soprani (anche di fama mondiale) incapaci di sapere cosa significhi cantare Verdi. Il problema è che non basta avere la voce per il ruolo, bisogna capire le parole, ogni parola, e anche ascoltare quello che arriva dalla buca.
E in Falstaff tutto viene dalla parola e dalla buca, in quanto il ritmo della commedia lirica è il ritmo fluido della conversazione, dove le parole sono colorate dagli strumenti dell'orchestra. Le arie non sono più arie, ma momenti senza recitativo, poiché tutto è quasi recitato, e questi momenti possono anche essere frustranti per alcuni spettatori. Abbiamo spiegato sopra perché le due 'arie' più tradizionali sono affidate a Fenton e Nannetta, i protagonisti del terzo atto, ma l'ultima parola spetta a Falstaff, che arriva dopo un fugato guidato dall'orchestra, con il ritmo e il colore dell'orchestra. Se non si percepisce questa profondità di scrittura, se si pensa che Verdi a 80 anni voglia ballare una samba-buffa, ci si sbaglia di grosso.
E Daniele Gatti afferma costantemente le raffinatezze e le profondità di questa scrittura, come abbiamo già visto in tutti suoi Verdi e in particolare nel suo Trovatore a Salisburgo nel 2014.
Approfondisce ogni dettaglio della partitura, non per un desiderio maniacale di riprodurne ogni angolo, ma per andare ogni volta alla ricerca di un senso, per farci ascoltare una musica diversa, nuova, sorprendente, anche delicata, che lavora insieme a ogni parola, dove ogni nota è un mattone nella costruzione dell'insieme, con un'orchestra scaligera totalmente dedicata, totalmente impegnata, nella folle accelerazione del finale del secondo atto, come nel malinconico chiaroscuro all'inizio del terzo, che Gatti fa suonare un po' opaco, per trasmettere il senso del discorso iniziale di Falstaff, o come le scene iniziali del primo atto di questo Falstaff, re in trono davanti a enormi botti che sono anche allusioni al pancione come lo chiamava Verdi. Se ho già descritto questo Falstaff sul suo trono come un re alla Ionesco (Le roi se meurt…), la direzione musicale deve far sentire questa musica, assurda e sgangherata, immagine dell'anima dell'eroe alla ricerca di un ultimo impulso vitale. E se Verdi fa della sua musica un'esplosione di suoni diversi, a volte al limite della tonalità, con momenti in cui ci sembra di trovare il “ Verdi di sempre ” brutalmente interrotto da frustranti pause, è per destabilizzare l'ascoltatore, per metterlo a disagio, per rompere l'abitudine, ancora e ancora quella meravigliosa frase del poeta Saint Joh Perse “Poète est celui-là qui rompt pour nous l’accoutumance” (“Il poeta è colui che rompe la nostra abitudine”): Perché se Verdi decide di scrivere un'opera a 80 anni, non è un'opera di consenso (e infatti abbiamo sottolineato l'esitazione del pubblico ad abbracciare questa nuova forma del nuovo Verdi), ma un'opera di libertà, di una sorta di libertà conquistata in un momento in cui il vecchio maestro non ha più nulla da dimostrare come riferimento della musica mondiale, è allora si dimostra poeta in assoluto. Quindi sì, può ancora sorprendere, spaventare e giocare con le nostre aspettative e abitudini.

Ed è esattamente quello che fa Gatti, pur rispettando scrupolosamente la partitura e ogni suo colore – la sua direzione è un lavoro di gioielleria, di cesello, un gioco sempre rinnovato di nuovi legami con le situazioni, le voci (e i colori vocali di ogni solista) accompagnate ad hoc, e persino coperte quando è l'orchestra a dover esplodere. Tutto è voluto, calcolato, basato su una precisa volontà di presentare al pubblico scaligero il suo Falstaff del momento, che ho trovato così intelligente, puntuale e soprattutto coerente, a dispetto dell'opinione ampiamente diffusa da uno o due imbecilli patentati che, per motivi non necessariamente musicali, trasaliscono e lamentano la mancanza di comicità, come se la comicità non fosse altro che grasse risate e ammiccamenti al pubblico. Al contrario, c'è qualcosa di delicato nella direzione musicale di Gatti che fa venire in mente un'altra Komödie für Musik, Der Rosenkavalier, una commedia che nessuno si sognerebbe di definire opera buffa, ma che pure racconta una storia di crepuscoli… e sappiamo anche quanto Gatti ami Strauss, che in Hofmannsthal aveva trovato il suo Boito.

Le voci

Per un'impresa musicale di questo tipo servono voci duttili, quasi nuove, che sappiano accogliere la vivacità dell'insieme, il suo respiro e la sua poesia. Con una sola grande eccezione, ci siamo.

Il coro diretto da Alberto Malazzi ha poco da fare in Falstaff, ma come sempre quando si tratta di Verdi, lo fa bene, con vera precisione e seguendo passo passo il ritmo imposto dalla bacchetta di Gatti.

La questione dei ruoli in Falstaff non è così semplice, perché se da un lato ci sono ruoli meno “importanti”, dall'altro non ci sono ruoli “piccoli”, e ognuno è un “personaggio” che deve essere sia caratterizzato che cantato. È il caso di Meg Page, spesso molto pallida, ma qui saldamente interpretata da Martina Belli, che dà vita al personaggio, senza dubbio per effetto di Strehler, ma anche per una gradita affermazione vocale.
Un altro profilo che deve lasciare il segno è quello della Mrs Quickly, che è stato affidato a immensi mezzosoprani, come Regina Resnik, Giulietta Simionato e Fedora Barbieri in passato, e più recentemente Elisabeth Kulman, Marie-Nicole Lemieux e Daniela Barcellona.
Marianna Pizzolato è un'ottima interprete di oratorio (Giovanna d'Arco o lo Stabat Mater di Rossini, per esempio) ed è una voce di carattere, che qui non esagera come altri, ma che segue esattamente la linea imposta dal direttore, in un personaggio ben definito, molto presente in scena con una voce non necessariamente potentissima, ma ben proiettata con un vero senso del colore e dell'espressione, e che ottiene un bel successo del tutto giustificato.
Rosalia Cid, in “troupe” nella Semperoper di Dresda, è Nannetta, a cui dà una vera presenza vocale, con una vera personalità, più decisa di alcune Nannette, e meno eterea. La sua voce è quella di una donna che in qualche modo sa cosa vuole. Personalmente, mi piacciono le Nannette più sognanti (Giulia Semenzato a Salisburgo…), ma l'interpretazione è notevole e il personaggio impeccabilmente ritratto, nella sua giovinezza e personalità.

Rosa Feola (Alice)

Rosa Feola era Nannetta e qui è Alice Ford… non si riesce a togliersi dalla testa che sia stata Nannetta e così appare nella mia mente come una Nannetta invecchiata, di cui ha le eminenti qualità di linea, controllo, proiezione, colore, con una voce che si è effettivamente ampliata ed è impeccabile, molto espressiva. Le manca, forse, un po' il carattere deciso del capo della banda delle donne, che forse è un po' tentatore, un po' volgare, da buona borghese realista. Da questo punto di vista, è forse un po' indietro come personalità. Per essere chiari, vedo in Rosalia Cid una futura Alice Ford, e in Rosa Feola una Nannetta del passato…

Visto che, alla maniera di Strehler, abbiamo messo in luce le donne, passiamo al gruppo degli uomini, che era rimasto in ombra.
L'accoppiata Bardolfo-Pistola funziona molto bene, con un ottimo Bardolfo, Christian Collia, dalla voce chiarissima, perfettamente proiettata e dal fraseggio impeccabile, e un altrettanto bravo Marco Spotti nel ruolo di Pistola, particolarmente espressivo, pieno di rilievo e molto a suo agio nel recitare.

Anche Juan Francisco Gatell nel ruolo di Fenton ha funzionato bene, anche se il volume ha faticato nella vasta sala del Piermarini (il suo Fenton ad Aix e a Lione era più giovanile e meglio definito). Oggi ci sono tenori molto bravi e forse più vicini all'età del ruolo, anche se la voce è ancora tecnicamente molto controllata (l'esperienza del Belcanto e dei ruoli mozartiani ovviamente aiuta), ben proiettata ma forse con meno espressività e poesia, ma l'esecuzione rimane nel complesso solida.
Nel ruolo di Cajus, Antonino Siragusa, specialista dei tenori acrobatici e stratosferici rossiniani, cambia repertorio e categoria per assumere ruoli di carattere, e il suo caratteristico timbro nasale (che può non piacere) qui funziona a meraviglia nel personaggio e gli conferisce una vera presenza. Un ottimo risultato.

Luca Micheletti (Ford)

Ford è Luca Micheletti, una figura particolare nel panorama operistico in quanto è anche attore e regista, ed è arrivato all'opera più tardi, ma ormai lo vediamo nella maggior parte dei grandi ruoli baritonali, da Mozart a Verdi e Puccini, senza dimenticare Bizet (Carmen), la sua presenza scenica, il personaggio che ritrae, un po' sbruffone, è ovviamente interessante e il calore del suo timbro, la proiezione vocale e l'espressione fanno il resto. È un Ford con molto rilievo nella voce e la sua presenza è innegabile, anche se oggi in allestimenti più recenti (Marthaler o Kosky) abbiamo sentito Ford disegnati in modo diverso (Keenlyside o Degout) che hanno aperto altre possibilità per il personaggio. Forse la messa in scena qui mostra la sua età come lo abbiamo già detto, ma Micheletti è perfettamente adatto al ruolo, e la sua scena con Falstaff garantisce alcuni bei momenti scenici e vocali.

Ambrogio Maestri (Falstaff)

Resta il Falstaff affidato ad Ambrogio Maestri, già Pancione nella primavera del 2001 sotto Riccardo Muti e in questo allestimento. Si tratta forse della volta di troppo. La voce mostra un evidente affaticamento negli acuti, e soprattutto quando canta in falsetto, diventa rauca, poco pulita, e mentre i grandi effetti e il volume rimangono impressionanti, la linea soffre e l'uomo che da 25 anni è l'indiscusso e indiscutibile Falstaff su tutti i palcoscenici del mondo non era al suo meglio.
Altri cantanti (Nicola Alaimo, Gerald Finley e persino Christopher Purves) mostrano un altro tipo di personaggio e un altro colore ; si può anche cercare di avvicinare Ford a Falstaff e certi cantanti che passano dall'uno all'altro danno a Falstaff altri profili. Maestri è ancora molto influenzato dallo stile interpretativo del “buffo”, nel quale eccelle, ma del quale può anche abusare. E mi chiedo se il lato crepuscolare di Strehler, segnato anche dalla direzione di Gatti, si adatti a questa interpretazione troppo cementata in uno stile. La voce ha mostrato debolezze, e per me anche lo stile mi è sembrato fuori sincrono, ed è un peccato, perché Maestri ha ancora dei bei momenti, soprattutto nel terzo atto.

"Tutti gabbati"

In conclusione, è stata una bella serata. Dal punto di vista musicale, mi ha confermato che il Verdi di Daniele Gatti rimane emozionante e sempre sorprendente : per me è l'unico direttore d'orchestra della sua generazione che sa davvero rendere Verdi in tutti i suoi colori e in tutti i suoi dettagli e che cerca costantemente di estrarne qualcosa di nuovo, approfondendo e tornando costantemente al mestiere, ed è stato ancora più forte ascoltare un Verdi del presente, nuovo e stimolante in una produzione resuscitata dal passato con cui tutto ha funzionato a meraviglia.

Sul palco, l'emozione di rivedere l'amato allestimento di Giorgio Strehler è stata davvero forte. Ha dimostrato, al di là delle polemiche giornalistiche (“produzione da museo”, spesso da parte di persone che di Strehler non hanno visto quasi nulla e la cui cultura scenica è superficiale) che uno spettacolo teatrale può sopravvivere al suo autore, che può conservare un potere di fascinazione e di evocazione. Certo, il teatro e la musica sono arti del momento, di quell'attimo fuggente in cui l'incanto immediato scompare subito per diventare memoria e ricordo, ma a volte è importante mostrare alle generazioni successive com'era il teatro venti, trenta o quarant'anni fa, il che significa anche cultura scenica, storia e memoria. Qualcosa che manca tanto. Sostenendo che il teatro è un'arte del momento, incoraggiamo la gente a essere farfalloni e neghiamo una vera cultura teatrale.
Per quanto mi riguarda, rivedere questo lavoro ha avuto l'effetto della “madeleine” di Proust, un tuffo nella mia storia, una sorta di incontro con me stesso, una ricerca di un tempo non del tutto perduto e costantemente riscoperto attraverso il teatro.

 

[1] Molti allestimenti di oggi hanno ripreso l’idea di illuminare la platea alla fine dell’opera. Ma diamo credito a ciò che è dovuto : è stato Strehler a inventare questa cosa, così semplice e così potente, con Le Nozze di Figaro nel 1973 all’Opera Royal di Versailles…

 

 

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