Il film di Chaplin è un assoluto capolavoro di divertimento e tenerezza, nel quale si narrano le vicende del vagabondo che, inconsapevolmente, si trova a essere la star comica di un circo che però alla fine abbandona, rinunciando all’amore che prova per la figliastra del proprietario nel momento in cui si accorge che lei evidentemente nutre un sentimento forte per il funambolo, giungendo addirittura ad adoperarsi per favorire la loro relazione.
Il direttore artistico Pinamonti ha voluto che come accompagnamento musicale alla proiezione del film muto fosse suonata, piuttosto che la partitura composta da Chaplin successivamente, quella originale del 1928, formata da un’antologia di cinquantuno pezzi scelti da Chaplin stesso, insieme all’allora direttore musicale del Chinese Theatre di Hollywood, Arthur Kay ; in essa si susseguono diversi tipi di musica, da Grieg a Wagner, da Gounod a Berlin fino allo stesso Leoncavallo dei Pagliacci. Va riconosciuto senza ombra di dubbio che i brani si accordano perfettamente alla sequenza delle immagini, aumentando il pathos del film e offrendo così una esecuzione/proiezione di enorme suggestione.
Per la messa in scena di Pagliacci Alessandro Talevi è partito dal precedente allestimento in Arena del 2015, adattandolo però al nuovo dittico (allora era insieme a Cavalleria rusticana) e ripensandolo quindi in modo radicale. Siamo alla fine degli anni Quaranta in un paese qualsiasi, le case e i luoghi pubblici come la chiesa sono identificati per i mobili e i perimetri disegnati per terra, ma appaiono privi di pareti, per cui ogni privata vicenda si svolge sotto gli occhi di tutti, così come realmente accade nei piccoli paesi di provincia. Quella di ambientazione è l’epoca in cui irrimediabilmente il cinema ha messo in crisi le arti teatrali, tanto che il Prologo non riesce a distogliere i presenti dall’attenzione verso il grande schermo. Persino l’arrivo del carro degli attori ambulanti non cattura l’interesse dei paesani, i quali, annoiati, addirittura se ne vanno durante la rappresentazione della commedia dell’arte, che appare datata e ormai superata, per poi tornare solo quando la tragedia reale arriva a superare quella narrata sul palcoscenico, come accade nel contemporaneo con la spettacolarizzazione della cronaca nera più truce (il regista chiude l’opera con una totale carneficina).
Talevi è bravo a muovere le masse e a impostare il gesto e l’espressione dei singoli, al punto che lo spettatore è catturato dalla narrazione stringente. La scenografia, come detto, è funzionale al racconto e si estende per tutta la lunghezza del palcoscenico ; i costumi favoriscono la datazione dell’ambientazione e la caratterizzazione dei personaggi, indugiando in modo efficace sulle ristrettezze economiche degli attori. Adeguate le luci, come anche i frammenti video durante l’opera, che legano ancor più The circus e Pagliacci tra loro.
Se l’operazione di recupero ed esecuzione della partitura da parte di Timothy Brock è perfetta, altrettanto non si può dire della conduzione dello spartito di Leoncavallo, riuscendo con difficoltà la direzione a raccordare palco e buca e a imprimere la giusta forza al suono, mancando anche di marcare, nel finale, il doppio registro tra commedia farsesca e tragedia, così da trasmettere allo spettatore un certo senso di straniamento ; alla vaghezza ritmica e all’imperfezione degli attacchi si accompagna infatti il poco carattere impresso ai diversi momenti della partitura, risultando in tal modo il tutto dal punto di vista musicale piuttosto uniforme e monotono.
Rebeka Lokar è Nedda, dimessa nell’abbigliamento e rassegnata nel contegno : l’amore per Silvio pare portare uno squarcio di sereno nel grigiore del suo quotidiano ma lei stessa, per prima, intuisce non trattarsi di un bel tempo duraturo, per cui la voce indugia su efficaci toni malinconici, pur seguendo fedelmente le note in partitura ; il soprano ha timbro forse non troppo suggestivo ma gli acuti sono squillanti e ben sorvegliati e le sfumature del ruolo (liriche, sentimentali, sognanti) sono belle e rese in modo incisivo.
Fabio Sartori è un Canio con voce solida e squillante, la cui incisiva espressività marca “Vesti la giubba”, a cui il pubblico tributa un trionfo. Fabiàn Veloz è Taddeo, attorialmente coinvolto dalla parte e musicalmente corretto, caratterizzato da una linea di canto scorrevole e morbida. Meno in evidenza il Peppe di David Astorga. Del corretto Silvio di Tommaso Barea si sono apprezzati il timbro e gli acuti incisivi,a marcare l’amore sincero del personaggio interpretato. A completare il cast i contadini Alessandro Pucci e Andrea Cutrini, il Coro lirico marchigiano ben preparato da Martino Faggiani e i Pueri Cantores Zamberletti preparati da Gianluca Paolucci.