Medea
“Dei tuoi figli la madre
tu vedi vinta e afflitta,
fatta trista per te,
e pur da te proscritta !
Tu lo sai quanto un giorno t’amò,
crudel ! A te fu cara un dì !
Sola qui, senza amor,
scacciata, dolorosa,
se mai mi fossi apparso,
io sarei buona ancora,
sarei pietosa !
Il cor non sapea
le orrende passioni ;
scorrea la notte in sogni buoni,
splendeva a me sereno il dì.
Ero felice allor :
avevo un padre, un nido,
ho dato tutto a te !
Torna sposo per me !
Crudel ! Crudel !
Io non voglio che te,
non voglio che te solo.
Medea t’implora qui :
ai piedi tuoi starà !
Pietà ! Per tanto amor che volli a te,
pietà ! Torna a me !
Torna sposo per me!” [1]
10, 12, 29 dicembre1953, 2, 6 gennaio1954
Medea Maria Meneghini Callas
Regia Margherita Wallmann
Direttore d’orchestra Leonard Bernstein
11, 14, 20 dicembre 1961, 29 maggio, 3 giugno 1962
Medea Maria Callas
Regia Aléxis Minotís
Direttore d’orchestra Thomas Schippers
Per parlare di Medea in riferimento al Teatro alla Scala, questa volta per l’esattezza si tratta dell’originale francese Médée, non si può che prendere le mosse dalle ore 21 precise di giovedì 10 dicembre 1953.
La stagione del Piermarini, instaurata da poco la tradizione di rendere omaggio al santo patrono meneghino per festeggiarne l’apertura, aveva preso le mosse pochi giorni prima con La Wally di Catalani, sul podio il promettente Carlo Maria Giulini, in locandina Tebaldi, Del Monaco, Guelfi. La gloria del canto italico più impavido e stentoreo, più che espressione soprattutto voce voce voce. La quiete prima della tempesta…
Lunedì 7 la scelta era caduta sulla tranquillità un po’ snob e vagamente riparatoria nei confronti di uno sfortunato Catalani, il giovedì successivo una scarica di alta tensione scosse il teatro, che scriveva una pagina di gloria nella sua storia. Il pubblico, sul punto di decidere da che parte stare, incoronò regina la sua Medea.
Non era la prima volta che la greca Maria Callas, coniugata Meneghini, affrontava una serata così importante a Milano. Ne I Vespri Siciliani e in Macbeth, protagonista di due inaugurazioni di stagione, aveva meritato un trionfo personale ma di natura in sostanza strettamente vocale. Ma questa volta, sostenuta dalla direzione incandescente di un giovane e rampante Leonard Bernstein e nel contesto delle meravigliose scene ideate dal pittore Salvatore Fiume, divenne iconica e il trionfo fu totale.
Da quel momento il mondo dell’opera lirica, pronto a lasciarsi alle spalle la generazione dei cantanti che avevano regnato tra le due guerre, ritrovò la rivalità tra prime donne e le prime pagine dei rotocalchi. Messi da parte i clamori mondani, la parabola artistica di Maria Callas, nel ridar voce e vita ad alcuni grandi ruoli del, ci lasciò in eredità una strada tracciata per la successiva generazione di cantanti, che con riacquisiti stile e tecnica vocale furono determinanti per le diverse Renaissance che hanno riportato in repertorio capolavori di cui si erano perse le tracce.
Gioco della sorte, con un altro geniale americano sul podio la recita di Medea di domenica 3 giugno 1962 concluse la carriera di Maria Callas, non più Meneghini, nella casa del Piermarini.
Tutt’altra cosa…parlare di Médée in scena al Teatro alla Scala nel 2024 significa raccontare un’altra storia. Significa, per chi la riporta sul palco, (dover) andare alla ricerca della forma originale dell’opera, dimenticando in prima istanza la versione italiana opera del traduttore Carlo Zangarini per far ritorna all’originale francese di François-Benoît Hoffman. Meglio ancora, significa dimenticare i recitativi musicati da Franz Lachner. Più di ogni altro aspetto, significa guardare ai personaggi e alle note della partitura togliendo il filtro delle romantiche lenti ottocentesche. Valorizzarne la tragicità classica, scolpita con gesti statici e per voci di accenti composti, che suonano naturali ma pesanti come macigni.
Scriveva nel 1723, fustigando i suoi contemporanei, Pier Francesco Tosi che “un cantore fà languire col poco, ed annoja col troppo”. [2]
Mirabilmente, dieci anni prima di Spontini con La Vestale, Cherubini crea un ideale modello teatrale sbalzando la figura della madre tradita alle prese con la furia della vendetta. Composta nelle invettive, regale nel gesto prima di tutto musicale che suona misurato sin dall’ingresso in scena, tragica persino un attimo prima di umiliarsi dinanzi all’amante fedifrago.
Speravamo di trovare nella regia di Damiano Michieletto una recitazione misurata caratterizzata da elegante e sobria gestualità, che vivificasse l’asciutto contesto borghese –bello in verità– di una villa degli trenta del novecento ideato dallo scenografo di Paolo Fantin. [3]
Gesti e azioni che, sostenuti dalla musica, indagassero il dramma della donna abbandonata, della furia vendicatrice, della donna che si umilia, della madre che perde la ragione accecata dal desiderio di vendetta. Di ritrovare insomma, senza soluzione di continuità, i bagliori di quella corrente sotterranea che in ogni istante percorre la partitura di Cherubini sfiorando, in anticipo sui tempi, lo psicodramma borghese.
Le premesse c’erano tutte ma, a conti fatti, una riuscita a metà. Davanti a noi una famiglia borghese sfasciata, quando i protagonisti entrano in scena tutto è perduto, l’aria irrespirabile in controtendenza con la musica e i rapporti palesemente irrecuperabili. Medea è una figura isolata, reietta, ha ormai perso la rispettabilità sociale, accolta a colpi di ramazza (!) all’inizio del secondo atto.
Immagini spesso ben riuscite ma scarsamente emozionanti, intellettualmente irreprensibili ma raramente coinvolgenti. Sulla carta è pure un’ottima idea anche quella di affidare ai figli di Medea la teatralizzazione dei recitativi. A fronte della necessità di cucire le scene con una drammaturgia che facesse a meno dell’ottocentesco lavoro di Lachner, i due figli recitano su una banda sonora incisa da Timothée Nessi e Sofia Barri che leggono una riscrittura ad hoc dei dialoghi parlati originali con voce soffocata e vagamente inquietante. Pure, per quanto originale, poco a poco l’effetto svanisce e lascia spazio alla sensazione di un film già visto, persino nell’ultima scena in cui i piccoli sono avvelenati dalla madre messi a nanna con uno sciroppo.
Troppo poco se sull’altro piatto della bilancia mettiamo la scarsa presenza scenica dei protagonisti, l’assenza di carisma della pur volenterosa sposa di Giasone. Persa del tutto, insomma, la geniale pulizia che Maria Callas aveva fatto di usi e costumi del secolo precedente, facendo leva sulla sua gigantesca statura d’interprete tragica che si espresse con gesto nobile e perentorio, teatrale ma prima di tutto vocale.
Note poco liete dallo scialbo cast vocale, ad eccezione della Néris di Ambroisine Bré che sfoggia una bella linea sopranile, accenti e dizione perfetti, modula l’intensità dei suoni con garbo dal forte al piano senza perdere in smalto e intensità, sicura nell’intera emissione.
Il Teatro alla Scala ha già comunicato che Marina Rebeka non potrà tener fede per motivi di salute all’impegno della Mathilde rossiniana, prevista in marzo. In Médée, dopo la prima rappresentazione e i tentativi di proseguire in altre recite, è stata la giovane Claire de Monteil a raccoglierne il testimone, facendo leva su una voce di buon volume in tutta l’estensione, ancorché in taluni momenti affetta nei centri da vibrato e a tratti affaticata, non lascia il segno. Non si risparmia in scena ma, complice le scelte registiche, non rende la grandezza tragica del personaggio che porta in scena. Una donna, una madre disfatta che a fatica immaginiamo aggirarsi per casa con la speranza di riprendersela. Non certo una donna ferita nell’orgoglio e nella maternità, dalla statura gigantesca.
Alle prese col personaggio di Dircé, Martina Russomanno fatica a venire compiutamente a capo del ruolo. Scenicamente molto in parte, caratterizza assai bene la figura della vittima sacrificale sin dal primo istante in cui si presenta, ma la voce in taluni momenti incappa in suoni fissi e difficoltà nel registro di passaggio.
Discreto il contributo nei ruoli maschili. Sfrontato Jason è il tenore Stanislas de Barbeyrac, anch’egli scenicamente efficace ma dalla voce piuttosto dura e in difficoltà nel passaggio. Modesto Créon, per nulla ieratico anzi piuttosto leggero, quello di Nahuel di Pierro, che interagisce con l’ottimo coro del teatro.
Protagonista musicale indiscusso della serata è, dunque, risultato il direttore Michele Gamba che, dopo un magistrale Rigoletto nel giugno 2022, vince la sfida di ricreare la difficile sonorità di un’opera di passaggio generazionale come poche altre. In spazi grandi com’è la sala del Piermarini, le sonorità sono nette e brillanti senza scadere in suoni secchi e anacronistici, con appena un eccesso di timpani nell’ouverture. Ogni scena è vivificata da una costante tensione musicale. Lungi dallo scadere nella genericità, accarezza i suoni dei legni e degli archi che diventano protagonisti di arie e duetti, talora brillanti talora tristi e malinconici. Splendido momento, impressiona la tempesta del terzo atto.
Al termine dello spettacolo, applausi per tutti gli interpreti.
[1] Versione ritmica italiana di Carlo Zangarini, 1909
[2] Opinioni de’ cantori antichi e moderni o sieno osservazioni sopra il canto figurato, Bologna, 1723, pag. 103
[3] Gli spazi dei bambini di Medea sono quelli di villa Necchi Campiglio, edificata in Milano su progetto di Portaluppi tra il 1932 e il 1935