Una messa in scena di Aida al Teatro Vittorio Emanuele di Messina non è una normale occorrenza della stagione teatrale. La terz'ultima opera di Verdi è infatti legata alla città da un rapporto profondo : si era appena conclusa una rappresentazione dell'opera quando, il 28 dicembre del 1908, si scatenò sulla città dello Stretto il terribile terremoto che si portò via una buona parte dei suoi abitanti e finì per rappresentare, come ricorda Antonio Baglio nel bel saggio storico accluso nel programma di sala, una drammatica cesura nella vita sociale ed economica della città. Dopo l'edizione del 1986, voluta non a caso per la riapertura del restaurato Teatro Vittorio Emanuele, si torna dunque oggi al capolavoro verdiano, si potrebbe dire, in punta di piedi : con le arie e le melodie celeberrime che si inarcano fino a sfiorare, con la pietas dell'arte, quei lontani ignari spettatori sui quali, più di un secolo fa, si sarebbe chiusa la “fatal pietra”.
Il colpo d'occhio, giusta drammaturgia del grand-opéra, non potrebbe essere più bello e spettacolare. Grazie alle splendide proiezioni (Matthias Schnabel), in apertura scende dall'alto una pioggia di sabbia dorata a costruire sotto gli occhi degli spettatori i pilastri dei templi egizi, mentre dal basso della buca si snoda il Preludio. Fa parte del mutamento di stile voluto da Verdi per molti aspetti dell'Aida il fatto che tale Preludio sia costruito insolitamente come un fugato, e allinei brevi cellule poco caratterizzate in una serie di incastri successivi. Il direttore Carlo Palleschi, puntuale ed efficace come sempre, costruisce bene la serie delle entrate ma forse taglia troppo bruscamente la fine del motivo principale (gli archi non vibrano l'ultima nota): sortiscono così frammenti di frase troppo aguzzi, dove la costruzione generale avrebbe guadagnato da una pronuncia meno “contrappuntistica” e più “melodica”. Detto questo, il direttore fa quello che può con il settore dei violini che a volte traballa nell'intonazione. Sono invece ammirevoli la sicurezza e il piglio di Palleschi, che dirige tutto a memoria cantando insieme ai cantanti, nella concertazione delle arie e nei concertati, soprattutto quello meraviglioso e complessissimo alla fine del secondo atto.
Ottimo, nel complesso, il cast. Il ruolo eponimo è ricoperto da Oksana Dyka, che presta alla “celeste” Aida una voce squillante, precisissima anche nelle note sovracute, e una potenza tale da emergere sul coro anche nei concertati. La Dyka è però poco espressiva : canta note che si rivelano incapaci di alludere a sentimenti e ci si deve accontentare, come direbbe il teorico del formalismo Eduard Hanslick, di « forme sonore in movimento ». Potente e preciso è anche Walter Fraccaro (Radamès), ma si rinuncerebbe volentieri a un po' di potenza esplosiva a favore di una maggior morbidezza di emissione e garbo nel fraseggio. In ogni caso, il suo è un Radamès di grande personalità, ben calato nel ruolo di un eroe di stampo classico. Su tutti svetta l'Amneris di Sanja Anastasia. Come scrive Paolo Isotta, « Amneris è il più gran personaggio mai creato per un mezzosoprano insieme con Venere del Tannhäuser (versione parigina), Ortruda del Lohengrin, Fricka della Valkiria, Brangäne del Tristano e Isolda e colla principessa Eboli del Don Carlos. Amneris ne è di fatto una sorta di reincarnazione » (a questa carrellata di sorelle maggiori ricordata da Isotta aggiungeremmo anche la sorella minore, e che sorella!, che sta per arrivare : Carmen). Per Amneris Verdi crea sia il Motivo lusinghiero dell'amore per Radamès sia quello lancinante del suo odio per la schiava etiope, « ch'è come una testa di serpente dibattentesi fra primo grado, sensibile e secondo grado, poi levandosi alta » (così Isotta). In ogni caso, un personaggio magnifico, complesso, dilaniato, che Sanja Anastasia rende con intensità ammirevole e una capacità rara di renderne i tormenti prima della gelosia, poi del rimorso, infine dell'accorata richiesta di perdono. Eccellenti tutti i comprimari : Paolo Pecchioli (Re d'Egitto), Giuseppe Altomare (un Amonasro davvero magnetico), Davide Scigliano (Messaggero), Dario Russo (Ramfis), Oleksandra Chaikosvka (Sacerdotessa).
Per coronare con Aida la splendida tradizione del melodramma esotistico che comincia all'inizio dell'Ottocento con il Fernand Cortez di Spontini, Verdi deve inventare una particolare tinta modale-orientale tanto sfumata quanto efficace, e ne dispone nell'opera con una raffinatezza che non si finisce di ammirare. Il suono di Aida sembra tradizionale ma non lo è ; fa quell'impressione solo perché Verdi ha saputo funzionalizzarlo nel modo migliore alla ricreazione di un ambiente esotico, dissimulando lo slittamento armonico dall'ordinarum tonale e ottenendo il risultato eclatante per il quale nei vari quadri sembrano parlare direttamente i particolari del paesaggio : le palme, gli appannaggi sacerdotali, la sabbia del deserto, il Nilo stesso. Ma Aida, prima di tutto, è spettacolo allo stato puro. Con i suoi cortei, marce, inni sacri, colonne e dèi egizi, sfilate di prigionieri, incoronazioni, notturni sul Nilo, Aida si pone come l'annuncio, da lì a qualche anno, del cinema che sta per nascere e si propone fieramente come l'unico tipo di spettacolo (un grand-opéra di ambientazione esotica) ancora competitivo con la magia dell'immagine in movimento. Quasi cinematografica, hollywoodiana, la magnificenza orientale inventata da Carlo Antonio De Lucia (regia e costumi), con le scene sontuose di Riccardo Roggiani : dominano su tutto l'oro come colore-simbolo della regalità del Faraone e il turchese delle colonne a richiamare la preziosità dei sacri scarabei ; si allinenano i simboli imponenti di Anubis e i palazzi favolosi che si affacciano mollemente sul Nilo ; si staglia imponente il Faraone con un copricapo che, già da solo, basterebbe a dar corpo all'indispensabile couleur locale ; luccicano di un celeste sacrale i ricchi paramenti dei sacerdoti. Intelligente ed efficace è il modo in cui De Lucia gestisce l'avvicendamento delle scene solistiche con quelle corali. Gli stessi movimenti del coro (che dà qui una splendida prova sotto la direzione di Bruno Tirotta) sono organizzati nel modo migliore : lasciandolo fermo il più possibile. Così è possibile disporlo in modo geometrico ed elegante, evitando una diaspora di fastidiosi movimenti sulla scena. La stessa immobilità da oracolo carica il coro di una potenza espressiva maggiore, perché rende evidente come tutte le solenni parole pronunciate vengano ispirate dall'alto.
Quando poi si arriva alla conclusione, con Radamès e Aida rinchiusi, per essersi troppo amati, nel sotterraneo che diventerà l'unico testimone del loro struggente Liebestod, arriva un colpo d'ala della regia : sulle amare parole di « pianto eterno » di Amneris comincia nuovamente a cadere la sabbia che in apertura costruiva le colonne egizie. Ma stavolta la sabbia cade verso il basso a scoprire qualcosa che si intuisce sepolto sotto, come una preziosa rovina del passato che viene aiutata lentamente a emergere : è lo stesso Teatro Vittorio Emanuele, in una fotografia d'epoca che lo ritrae ancora in piedi all'indomani del terremoto del 1908. Non è semplicemente un potente effetto di teatro, è una mise en abîme che squarcia il tempo e permette agli spettatori di oggi di porgere la mano, simbolicamente, a chi visse quel giorno.