I teatri d’opera di Vienna e Parigi hanno coprodotto uno spettacolo importante e significativo, affidato al giovane regista Simon Stone, che immerge la storia di Violetta nel contemporaneo. La novità più rilevante è avere ripensato il personaggio della protagonista, presentandola come un’influencer, una delle tante che dominano i social e la vita sociale in ogni angolo del mondo di oggi. Violetta vive di foto pubblicate sui media, gioisce per i tanti likes, soffre per commenti poco lusinghieri degli haters : una vita dedicata, professionalmente e personalmente, a costruire una immagine pubblica, alla sua promozione e alla vendita di prodotti commerciali a essa collegati.

La scena di Robert Cousins ha al centro una grande struttura cubica sulle cui pareti esterne scorrono immagini che consentono di meglio ambientare il racconto : emails, messaggi Whatsapp, pagine Facebook, profili Instagram, ma anche paesaggi, volti, geometrie, dettagli e tanto altro (gli splendidi video sono di Zakk Hein, sicuramente uno dei punti di forza dello spettacolo). La struttura ha la forma di un cubo : all’inizio sulle quattro facce laterali scorrono le immagini, poi restano, per la maggior parte della rappresentazione, solo due facce-pareti ad angolo retto che, ruotando, consentono sui lati esterni le proiezioni, mentre sui lati interni costituiscono il fondale (bianco principalmente) delle varie scene. Il movimento circolare della struttura, oltre a consentire numerosi e funzionali cambi scena, offre un effetto dinamico di grande realismo, come ad esempio il passeggiare di Violetta nel primo e nel terzo atto in una Parigi quasi deserta fra una piazza e un venditore di specialità turche, sullo sfondo di gigantografie che pubblicizzano il profumo del suo brand. I costumi di Alice Babidge, come si diceva, ambientano la storia nel contemporaneo ed evidenziano nel secondo atto uno stridente contrasto : la semplicità agreste del primo quadro sembra opporsi alla esagerata vistosità, quasi kitsch, del secondo quadro, volendo ricreare un mondo di alterata apparenza, come il silenzio si oppone all’urlo. Perfette le luci di James Farncombe nell’illuminare la scena senza dare l’idea del naturalismo in una regia che naturalistica non è di certo.
Durante il preludio gli occhi chiusi e truccati di Violetta sono enormi sugli schermi, fremono le ciglia, impercettibili palpiti di vita. Poi, a posto degli occhi chiusi, scorrono commenti, foto, post ma anche lettere di uno studio medico che comunica a Violetta una diagnosi di tumore e la necessità di sottoporsi con urgenza a cure mediche. Durante uno dei tanti eventi a cui partecipa, Violetta conosce Alfredo e i due restano colpiti reciprocamente : nel brindisi Alfredo ha davanti un’alta piramide di bicchieri a calice su cui versa lo champagne, poi si “riconoscono” e le loro dichiarazione d’amore e di impegno reciproco hanno come sfondo il retro del locale dove si tiene l’evento, in un vicolo buio, fra secchi dell’immondizia e personale di servizio che fuma con indifferenza. Violetta oramai sa della sua malattia ed è incredula che un vero amore sia arrivato proprio in questo momento, troppo tardi. Incredula, sognante, forse anche un po’ scettica, passeggia per una Parigi notturna quasi disabitata, una coppia si bacia a Place del Pyramides, un giovane compra un kebab da un ambulante turco. Il secondo atto vede, nel primo quadro, Violetta e Alfredo in campagna, immersi in attività lavorative : lui raccoglie l’uva e pesta i grappoli in un tino (mentre canta “De’ miei bollenti spiriti”, forse l’unico momento poco riuscito a livello registico), lei raccoglie con il trattore balle di fieno.

Il colloquio con Germont avviene davanti a una piccola chiesa : Violetta ha nel profondo un senso di spiritualità mai sopito, quel retaggio cattolico che la spinge a sacrificarsi per la felicità di altri negando la propria. Stridente il contrasto con il secondo quadro : luci al neon descrivono posizioni del Kamasutra, gli invitati alla festa di Flora hanno vistosi costumi di carnevale, il Marchese indossa persino un fallo di gomma agganciato alla vita da stringhe nere di pelle borchiate. Nel terzo atto Violetta, malata di tumore, si sottopone a una seduta collettiva di chemioterapia, poi passeggia per Parigi come a ripercorrere i luoghi in cui è nato l’amore con Alfredo, unico momento felice della sua vita, ma cammina nell’indifferenza di chi la circonda, impegnato fra smartphone e laptop, lo stesso Alfredo sembra non riconoscerla. Ma il tempo concesso a Violetta è scaduto ed ella si avvia all’interno del cubo, ora ricomposto su tutti i lati tranne una fessura angolare, verso un interno radioso, bianco e luminoso. Sola.
Il plot è ben giustificato e il pubblico segue appassionatamente uno spettacolo suggestivo che mantiene desta continuamente l’attenzione dello spettatore, ma appare poco giustificato un punto però essenziale del plot, il risentimento di Giorgio Germont verso Violetta a causa del suo mestiere : l’influencer è professione oramai riconosciuta ovunque e ben remunerata e scevra da qualsiasi disapprovazione sociale in ogni nazione, comprese quelle del mondo arabo. E allora perché il fidanzato saudita della sorella di Alfredo ha una reazione così forte, al punto da rompere il fidanzamento ? Davvero è credibile che la relazione tra Alfredo e Violetta, entrambi adulti e single e professionalmente ricchi e affermati, sia scandalosa al punto tale da giustificare la rottura del fidanzamento della sorella di Alfredo ? Ma, al di là di questa considerazione (che però mina il principale pilastro su cui poggia la storia), lo spettacolo è bello e coinvolgente, arrivando quasi a commuovere quando Violetta nel terzo atto, oramai malata e stanca, si aggira tra le persone, note e non, che sono completamente prese dai loro cellulari e nemmeno la vedono : come a dire che anche di indifferenza e di solitudine si muore.
Gli allestimenti in chiave contemporanea debbono restituire integra la cifra dell’universalità del messaggio verdiano pur in uno scenario attualizzato, dove anzi la contemporaneità esalta il senso dell’opera e ne amplifica la portata emozionale. Infatti Traviata è, prima di tutto, una storia d’amore che vive la sua tragicità in quanto calata in un contesto bigotto e ipocritamente moralista, una storia d’amore vissuta contro i pregiudizi e come sfida e antidoto allo stigma sociale della protagonista e alla solitudine profonda dei personaggi, come nella azzeccata regia di Luca Baracchini vista recentemente a Fano, prodotta dalla Rete Lirica delle Marche insieme a OperaLombardia, dove Violetta è una persona transgender, donna oggi ma uomo in passato e per questo ostracizzata dalla società e respinta da Germont padre in quanto motivo di scandalo per la famiglia di Alfredo.
Ma torniamo alla produzione di Vienna che nel complesso ha il pregio di evitare i tanti, troppi luoghi comuni che Traviata porta con sé dal punto di vista della gestualità e delle movenze, uscendo dall’abusata situazione di borghesia benestante a cui molto teatro del passato ci ha abituato. A ciò si accompagna una parte musicale di eccezionale resa qualitativa.
Estremamente attenta e puntuale la direzione di Nicola Luisotti. L’orchestra è leggera, duttile, prodiga di colori e attenta a ogni ragione espressiva in un perfetto amalgama con le voci. Il pregio principale di Luisotti in questa edizione di Traviata è quello di trasmettere agli spettatori un’agitazione incessante, un senso di inquietudine quasi ansiogena. Ma, si badi bene, i tempi, pur se logicamente siano improntati alla speditezza, coniugano splendidamente una pulsione ritmica incessante con una morbidissima eleganza nella qualità dei suoni. Il Maestro trova il timbro più consono a ogni momento, a cui i tre principali interpreti vocali aderiscono alla perfezione. Un esempio per tutti : la festa in casa di Flora, dove il tempo incalzante è appoggiato alla compatta rotondità del suono orchestrale, cosicché il ritmo si trasforma in una sorta di pulsazioni febbrili continue, creando a livello musicale una stralunata sovreccitazione perfetta per le scelte registiche.

Di Kristina Mkhitaryan colpisce l’intensità emotiva dell’interpretazione, oltre alla voce bella e ben usata, non da puro soprano leggero, per cui l’astensione dal mi bemolle è dimostrazione di saggezza, in questo caso ; la sua Violetta, impetuosa e istintiva nel primo atto, diviene più cauta e riflessiva nel secondo, per giungere con vena neorelistica nel terzo, dove rende in modo mirabile la malattia : “Parigi o cara” da lei ripreso è reso opaco dalla sofferenza in modo incredibilmente emozionante ; la sua è una Violetta decisamente “moderna”, non solo concentrata sulla linea vocale ma piuttosto tesa a rendere l’espressività del ruolo e il ventaglio dei sentimenti ; di conseguenza movenze e gestualità non sono mai atteggiate e “accademiche”, per una prestazione ricchissima di autentico pathos. Rispetto alla Mkhitaryan, Dmytro Popov ha meno carisma ma ben sottolinea il ruolo ingenuo voluto dal regista, temperamentoso e controllato come un manager ; la voce del tenore è piena, salda e sicura e la prestazione applaudita dal pubblico.

Strepitoso Amartuvshin Enkhbat, che sta diventando un baritono verdiano di riferimento (ci aveva colpito qualche anno fa allo Sferisterio con un Rigoletto sorprendente); il suo Germont ha voce estesa e possente e la capacità di rendere, a livello vocale interpretativo, ogni sfumatura del ruolo, pur minima : passaggi sussurrati, a volte insinuanti, a volte sconsolati, a volte all’insegna della protervia, capacità di passare dall’ira alla sorpresa e infine all’umana pietà per il sacrificio della protagonista, tutti dettagli che vengono restituiti con un canto corretto ed equilibrato che emoziona come raramente accade.
Tutti adeguati i cantanti nei numerosi ruoli di contorno e il coro della Staatsoper, impegnati anche attorialmente in prove non facili ma superate brillantemente.