In gran segreto e con modalità addirittura carbonare – non un solo manifesto è stato affisso in città a scongiurare che si potesse venire a conoscenza dell'evento –, è stata rappresentata al Teatro Vittorio Emanuele di Messina la Tosca di Puccini. I melomani messinesi devono ormai essersi convinti di appartenere a una consorteria che ha seri motivi per evitare di pubblicizzare i suoi riti e infatti, nonostante la rigorosa segretezza dell'operazione, hanno riempito il Teatro sia alla prima che nella replica. Lo spettacolo, va detto, meritava : buoni il cast e la direzione, discreta la regia.
Tosca era il soprano bulgaro Diana Lamar, precisa e di bel colore tanto nel fraseggio quanto negli acuti. La sua Floria era tuttavia giocata tutta sul versante delle tenerezze e dell'incredulità di una povera cantante, interessata solo alla sua arte e alle baruffe con l’amante, incappata ora in un gioco più grande di lei. “Vissi d'arte”, quindi, viene bene e risulta convincente ; meno il sanguigno epilogo del secondo atto, con l'iconico “Questo è il bacio di Tosca!” ad annunciare la pugnalata a Scarpia. Anche i gesti della Lamar – e qui la responsabilità è in parte del regista – non aderiscono al lato feroce della donna, che viene fuori nel momento in cui gli sgherri del Barone torturano l'uomo che ama. Quando è al culmine del risentimento e dell’odio contro Scarpia, che la tormenta e la insidia, Diana Lamar continua a cantare e a muoversi come una delicata fanciulla romantica, spaurita e sempre sul punto di svenire. Il dato travolgente – e verista ! – di Tosca è invece proprio la voltura della protagonista, che trascorre sotto gli occhi dello spettatore da creatura d'amore e d'arte, trepida amante incline a vedere tutto sotto la specie dell'incantata relazione con il suo bel Cavaradossi (immaginando persino rivali che non esistono ma rabbonendosi alle prime carezze), a spietata congiurata pronta a uccidere il tiranno che ha osato tormentare il suo uomo. Floria Tosca non è una semplice vittima, ha una seconda faccia che viene fuori nella circostanza estrema del ricatto di Scarpia. L'impegnativa parte del Vilain della situazione, cioè appunto del Barone Scarpia, è dell'ucraino Vitaly Bilyy. Sul baritono vale un discorso analogo a quello fatto per Diana Lamar : niente da dire sui mezzi vocali e sul fraseggio, che trascorre elegante e puntuale. Il colore, però, è forse troppo chiaro per un personaggio tanto connotato in senso demoniaco, e così stenta a prendere corpo la titanica personalità del Barone, concepita per attirare l'odio dello spettatore. Anche il costume non aiuta : l'elegante polpe con cui viene vestito Scarpia fa tanto gentiluomo annoiato dalle volubili occupazioni dell'aristocrazia e non sordido amministratore di una giustizia piegata al suo interesse personale. Uno che come occupazione abituale ha quella di torturare la gente dovrebbe essere un po’ stazzonato. Splendida invece la prova di Stefano Secco (Cavaradossi): “Recondita armonia” del pittore innamorato della sua bella mora (ma forse anche attratto da una bionda sconosciuta) è intensa al punto giusto, ma lo è anche di più “E lucevan le stelle” dell'eroe tradito e spezzato da una sorte avversa. Vibrante il terzo atto di Secco/Cavaradossi, combattuto tra la lucidità con cui vede la propria fine e il desiderio di addolcire il dolore dell'amata con una pietosa bugia. Le ultime battute di Secco sono rese con la disperazione di un uomo solo e esasperato, che non sa se riuscirà a reggere la finzione fino in fondo. Buoni tutti gli altri : Lorenzo Barbieri (Angelotti/ Un Carceriere), Davide Scigliano (Spoletta), Alessio Verna (Il sagrestano/Sciarrone), Sofia Ciuffo (Un pastorello).
La regia di Carlo Antonio De Lucia (Video designer Matthias Schnabel, Light designer Giuseppe Calabrò, Scene Daniele Piscopo, costumi Sartoria Pipi) trascorre senza grandi idee, in un'impostazione tradizionale ma comunque rispettosa del testo. Potendo disporre delle proiezioni si poteva forse osare di più : non si va infatti oltre l'evocazione della Roma barocca e papalina (Palazzo Farnese, l'Angelo guerriero di Castel Sant'Angelo, un demone dai tratti barocchi) che fa da sfondo alla vicenda. Anche i movimenti in scena appaiono casuali e non abbastanza caricati di significato : una vicenda tragica, dove tutti i protagonisti muoiono, dovrebbe riflettersi in tutti i minimi particolari, persino nel modo in cui i chierichetti si avvicinano all'altare. Meglio va con le venature “leggere” del primo atto, per esempio la gag del Sagrestano con il paniere di Cavaradossi, forse più nelle corde di De Lucia.
Un discorso a parte va fatto per la direzione. Carlo Palleschi è un direttore di grande esperienza, chiamato già varie volte sul podio dell'orchestra del Vittorio Emanuele e apprezzato da tutti nelle esibizioni precedenti. Anche stavolta il direttore fa un eccellente lavoro di concertazione : i reparti sono ben cuciti e l'orchestra mostra slancio e sicurezza. A volte, per comunicare un'intenzione in modo più efficace, Palleschi usa l'intero corpo e, a giudicare dalla prontezza della risposta, il messaggio arriva in buca forte e chiaro. Ricordiamo passate prove con Verdi, anche qui a Messina, in cui il direttore aveva restituito letture centrate. Puccini, però, non è Verdi : la complessità “affettiva” del Lucchese, il carattere ambiguo del messaggio, i mezzi espressivi più complessi di quelli verdiani, il ductus che procede per piccole cellule cromatiche e non per grandi campate diatoniche, soffrono della pronuncia di Palleschi, che si getta su ogni accenno di melodia scolpendola subito con un ingenuo fortissimo. A rigore, anzi, si potrebbe dire che l'orchestra non scenda mai al di sotto del forte : “Questo è il bacio di Tosca!”, urlato dalla volenterosa Lamar, viene completamente coperto da una frase dell'orchestra. Puccini è difficile perché ha continuamente gesti espressivi che fanno pensare a Verdi, ma non ha niente della semplicità ideologica e dell'economia di mezzi di Verdi : la melodia stessa ha uno statuto e un significato nuovo rispetto al passato dell'opera italiana, e la scrittura dell'orchestra presenta una densa stratificazione verticale e una minuta struttura orizzontale a tasselli continuamente cangianti, che soffrono le semplificazioni.
In ogni caso, grande successo per tutti : l'entusiasmo stesso dell'accoglienza mostra che la città vorrebbe e meriterebbe una programmazione lirica più regolare e continuativa.