L’intenzione interpretativa era interessante, ma la traduzione scenica è andata fuori misura. Come quando il regista s’innamora della propria idea, al punto da sottovalutare l’imprescindibile necessità di partire dalla musica. E cioè di compenetrarsi e ancorarsi prima di tutto alla creazione musicale, per poi sviluppare il suo progetto visivo. Perché pur sempre di opera lirica si tratta, ricordiamolo. È la sintesi del giudizio sulla recente Lucrezia Borgia del Teatro Comunale di Bologna, centrata sulla regia di Silvia Paoli. La regista fiorentina ha compiuto un attento lavoro di documentazione, attingendo al materiale storiografico sul personaggio. E si è resa conto che l’immagine della nobildonna rinascimentale è stata radicalmente deformata dal dramma di Victor Hugo, Lucrèce Borgia, andato in scena a Parigi nel 1833. Dramma dal quale, in omaggio ai gusti e al clima del romanticismo, la duchessa era stata inchiodata a indelebile icona di avvelenatrice seriale, e di dissoluta praticante di sesso e intrighi. E non mancava anche l’infamia di aver subìto un incesto, ad opera del padre, Papa Alessandro VI. Come se poi fosse stata colpa sua, di Lucrezia : cornuta e mazziata…
Chiaro che un drammone di questo genere, con le sue morbosità, fosse un ghiotto boccone per ricavarne un melodramma ottocentesco in piena regola ! Ed è il letterato Felice Romani a confezionare subito, nello stesso 1833, il libretto per la Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti. Da lì in poi, l’immagine di Lucrezia è fissata come assassina senza scrupoli, esposta a ogni perversione, che può trovar modo di redimersi soltanto nella maternità, come suggerisce il testo di Romani, mitigando Hugo. E invece Silvia Paoli, dalle sue ricerche nella storiografia specializzata, ci ricorda che Lucrezia è anzitutto una vittima. Tanto per cominciare, non sembra avesse mai avvelenato alcuno, e fu piuttosto usata e consumata dal padre, fin dall’età di dodici anni, come pedina di una disinvolta politica di matrimoni combinati in successione. Una vittima del potere maschile, violento e patriarcale. Vittima degli uomini che decidono per lei, imponendole le scelte a loro convenienti.
E questo mondo cinquecentesco, con le sue regole implacabili, nel suo progetto scenico la regista lo trasporta nel ventennio fascista, popolato di maschi in orbace, per i quali la donna in genere è subordinata al loro perverso potere. Figurarsi poi per una donna come Lucrezia Borgia, dipinta come infame, malvagia, rea, e via continuando. E di certo, nella partitura donizettiana, non mancano suggestioni inquiete e oscure, che accennano a una realtà patologica. Insomma, scopo di questa regia bolognese è di presentare Lucrezia come vittima, come donna che non è stata capita nei propri sentimenti e debolezze, e che è attorniata da un ambiente duro e dispotico. Il progetto di Paoli – su scene di Andrea Belli, costumi di Valeria Donata Bettella, disegno luci di Alessandro Carletti, movimenti coreografici di Sandhya Nagaraja – sarebbe stato stimolante. Ma la regista si è fatta prendere la mano, e ha inutilmente esagerato.
Un ampio mattatoio, con tanto di piastrelle insanguinate alle pareti e ganci da macello pendenti dall’alto, ha fatto da contenitore per l’intera vicenda, variando via via gli arredi interni. E questo spazio ospita, oltre ai personaggi principali, un andirivieni di donne discinte e disponibili. Dopo il prologo, l’acme si raggiunge all’inizio del primo atto, in una scena di violenza che ricorda il film pasoliniano, Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Al centro, una gabbia metallica stipata di donne seminude, come polli in una stia, e fatte oggetto di minacce e percosse. A turno, qualcuna è trascinata fuori, appesa per le mani ai ganci da macello, e sottoposta a stupri e sadismi. Troppo. E soprattutto non giustificato in alcun modo dalla partitura. Non a caso, al termine di Vieni : la mia vendetta di Alfonso, e della successiva cabaletta Qualunque sia l’evento, al calar del sipario per un cambio scena, alla replica del 12 maggio si è scatenata la vivace protesta di alcuni spettatori, anche questa oltre misura. Esagerata la regia, ma sgradevoli anche i contestatori, per l’evidente, eccessivo moralismo che li animava.
E dire che invece, sul versante dell’esecuzione musicale, lo spettacolo è apparso senz’altro apprezzabile. Consapevole e attenta è apparsa la direzione e concertazione di Yves Abel, che ha ricavato il possibile dalla modesta Orchestra del Comunale, mentre si è ben disimpegnato il Coro, istruito da Gea Garatti. Del nutrito cast, una spanna sopra è risultata la prova dei due protagonisti, Olga Peretyatko, Lucrezia, e Stefan Pop, Gennaro.
Lodevole anche il Duca Alfonso di Mirco Palazzi, incisivo nel difficile ruolo, nonostante il timbro un po’ asciutto agli estremi del registro grave.
Lunghi, scroscianti applausi hanno premiato la prima aria di Lucrezia, Com’è bello ! Quale incanto, con la quale Olga Peretyatko ha subito chiarito la sua piena padronanza del personaggio. Ancor prima che dal lato vocale, il soprano russo convince nel saper rendere la prismatica personalità di Lucrezia, di volta in volta ardente, smarrita, ansiosa. Il suo canto risulta, nella nostra replica, calibrato e omogeneo in ogni registro, sicuro nelle agilità, intenso e toccante in ogni situazione.
Di alto livello la prestazione di Stefan Pop, nei panni di Gennaro. Fin dal Prologo, e dall’aria Di pescatore ignobile, il tenore romeno esibisce una perfetta padronanza del ruolo. Fraseggio appropriato, timbro caldo e rotondo, squillo limpidissimo, dizione impeccabile : le doti vocali ed espressive danno a quest’artista un margine di sicurezza che imprime un segno ben riconoscibile. La parte di Maffio Orsini è onorevolmente assolta dal mezzosoprano Lamia Beuque. Nutrito lo stuolo dei comprimari, tra i quali si distinguono Nicolò Donini (Gubetta), Pietro Picone (Rustighello), Luca Gallo (Astolfo), affiancati da Cristiano Olivieri (Jeppo Livoretto), Tommaso Caramia (Don Apostolo Gazella), Tong Liu (Ascanio Petrucci), Stefano Consolini (Oloferno Vitellozzo).