Il titolo mancava a Roma da oltre trent’anni. Dobbiamo ricordare che I Puritani è un capolavoro di ormai rara esecuzione, purtroppo, per la difficoltà di assemblare una compagnia di canto in grado di eseguirlo ad alto livello. C’è riuscito il Teatro dell’Opera, con un allestimento di elevata qualità musicale, e di modesto valore scenico. In primo piano, la concertazione messa a fuoco da Roberto Abbado, decisamente di alto pregio. Con il suo incedere duttile e sensibile, il direttore milanese ha avvolto di luce tutta particolare la partitura di Bellini, evidenziando il peso particolare della scrittura orchestrale, complessa e articolata, ben più di un accompagnamento alla vocalità. Ultima opera del compositore catanese – concepita a partire dall’aprile 1834 e andata in scena nel gennaio 1835 al Théâtre Italien in Parigi, dove nel settembre il musicista troverà la morte – I Puritani risente, nel suo profilo più denso e articolato, anche dei consigli ricevuti in loco da Rossini. Il ventaglio di risorse espressive risulta qui tanto copioso da permettere a Bellini di trovare sempre la temperatura più opportuna, sia per dipingere efficacemente ogni frangente drammaturgico, sia per levigare e tornire il disegno delle voci.
Sorretto da profonda consapevolezza interpretativa, Roberto Abbado centra e illumina appropriatamente ritmi e colori di ciascun episodio, saldandone i significati nelle rispettive concatenazioni. Sotto la sua bacchetta, quindi, l’opera non appare soltanto un forziere di melodie sublimi, ma piuttosto un organico affresco di pregnante incisività teatrale. E anche gli stacchi impressi allo scorrimento hanno creato particolare intensità, specialmente nei momenti topici, per non dire del duetto di slancio risorgimentale, Suoni la tromba, e intrepido, che chiude l’atto secondo. Si fa apprezzare, di Roberto Abbado, anche la scelta della versione integrale dell’opera, rispettando tutti i da capo, così come fu cristallizzata dall’autore stesso alla vigilia della “prima” parigina, espungendo di suo pugno tre episodi che l’allungavano di molto. Qualche calo di tensione, ogni tanto, è inevitabile data la lunghezza ; ma si è rivelata una scelta preferibile rispetto ai tagli che di solito si praticano nei moderni allestimenti, e che non giovano alla funzionalità drammaturgica.
Nella parte di Elvira, Jessica Pratt ha confermato la sua padronanza del ruolo, mietendo anche stavolta il convinto favore del pubblico romano, che l’annovera ormai tra i suoi beniamini. Grazie all’indiscussa sicurezza tecnica, il soprano australiano si è ben disimpegnato tra virtuosismi e colorature del suo personaggio, al quale ha conferito profonda intensità di accenti. Occorre però osservare che, all’inizio dell’opera, oltre a un certo sforzo in alcuni passaggi acuti, è apparso limitato il volume vocale. Appannamenti che si sono poi dissipati negli atti successivi, che hanno visto la Pratt pienamente in parte, e capace da par suo di comunicare intense temperature emotive.
John Osborn ha avvolto di sottile intelligenza la sua interpretazione di Arturo. Tenendosi alla larga da ogni esibizione di bravura, e dal mitizzato quanto ininfluente fa sopracuto nel finale, il tenore statunitense ha offerto un modello di belcanto. L’incantevole soavità con la quale Osborn ha intessuto un ruolo di difficile equilibrio, costellato di passi impegnativi, ha dato al suo Arturo un profilo di delicata eleganza. Dall’inizio alla fine il tenore ha stupito, dipanando l’impervio ruolo su un itinerario di dinamiche attente e vellutate, con accorto dosaggio di fiati e coloriti. Il che gli ha permesso di sfoggiare convincente proprietà di accenti, nell’attraversare sia il cantare piano sia gli acuti che competono al ruolo.
Diversa la dimensione interpretativa di Franco Vassallo nella parte di Riccardo, resa molto bene in una vocalità quasi verdiana per pienezza e rotondità di timbro, con qualche impeto un po’ troppo generoso. Notevoli gli accenti espressi da Nicola Ulivieri, che conferisce spiccato decoro al suo Giorgio Valton, su una linea che ne rende in giusta misura la nobiltà melodica.
E ha fatto bella figura, nei panni di Enrichetta, anche Irene Savignano, alla quale il recupero delle pagine solitamente tagliate ha restituito una dimensione protagonistica, ben assolta dal giovane soprano. Buona anche la prova dei comprimari Roberto Lorenzi (Gualtiero Valton) e Rodrigo Ortiz (Bruno Robertson).
Come sempre, Roberto Gabbiani ha preparato egregiamente il Coro, inappuntabile. Difficile da sopportare, tuttavia, la sua immobilità scenica : schierato simmetricamente ai fianchi del quadro principale, e suddiviso per sezioni. Il che ci porta dritti dritti a dire della messa in scena, firmata dal regista Andrea De Rosa. A dire poco, in verità, trattandosi di un progetto scenico decisamente ordinario, e povero di idee. La scenografia di Nicolas Bovey ha collocato sullo sfondo, sopra una breve gradinata, delle mura imponenti quanto anonime, sotto le cui arcate si è risolto il va e vieni. Nel terzo atto, la scena è occupata da due grandi pannelli luminosi, incernierati fra loro : l’uno a terra, e lì agiscono i personaggi, e l’altro che va su e giù, a mo’ di panino che si chiude. Tutto qui, tra le luci di Pasquale Mari e i costumi insipidi di Mariano Tufano. Ordinario e generico, quindi, il movimento dei personaggi. Due sole ispirazioni degne di nota, nella regia. Quella positiva, del grande velo nuziale che diventa anche un tappeto sul quale volano petali di fiori, con bell’effetto. E quella insulsa se non ridicola dell’autoaccecamento di Elvira, quando perde il senno. Una citazione sofoclea, anzi una trovata, che però evapora nel finale, quando i due innamorati si ritrovano felicemente.