La storia del rapporto tra Torino ed I Lombardi alla prima crociata, non è certamente affollata di appuntamenti. Se nell’anno della prima assoluta, il 1843, l’opera tenne il palcoscenico del Regio per ben 32 rappresentazioni (protagonisti, addirittura, Felice Varesi ((Felice Varesi (1813–1889) fu baritono verdiano per eccellenza, creatore dei ruoli di Macbeth e Rigoletto. Proprio in occasione dei Lombardi torinesi il baritono di origine francese si cimentò per la prima volta con la musica di Giuseppe Verdi)), Eugenia Tadolini ((Eugenia Savorani (1808–1872), sposata con il compositore Giovanni Tadolini, fu soprano celebre nella prima metà dell’ottocento per la figura scenica e per la voce bella, omogenea ed estesa. Fu molto ammirata da Mercadante, Donizetti (di cui creò il ruolo di Linda di Chamounix) e Verdi stesso, di cui fu prima interprete del ruolo di Alzira.)) e Carlo Guasco ((Carlo Guasco (1813–1876), tenore nato a Solero presso Alessandria, fu primo interprete verdiano di Oronte nei Lombardi, di Ernani e di Foresto nell’Attila.))) , risale al 1926 l’ultima occasione in cui la quarta opera di Giuseppe Verdi venne rappresentata in piazza Castello ((Nel 1995 il Teatro Regio mise in scena Jérusalem, rifacimento dei Lombardi alla prima crociata in forma di Grand Opéra, scritto per Parigi e rappresentato nel 1847.)).
Giustificata, dunque, l’attesa per un appuntamento che sulla carta si presentava sin dalla presentazione del cartellone come uno dei vertici della stagione e che, alla prova dei fatti, non ha deluso e ha confermato l’ottimo stato di salute di cui gode il Teatro in quanto a livello degli spettacoli proposti e visione artistica.
Diciamo subito che l’aspetto meno interessante della serata è costituito dalla parte scenica. L’allestimento, realizzato in coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège, porta la firma registica di Stefano Mazzonis di Pralafera, che dello stesso teatro belga è anche Direttore Generale.
La vicenda non si presta a stravolgimenti o a chissà quali trasposizioni, vista anche la ben definita caratterizzazione nel tempo e nello spazio, ma abbiamo, comunque, assistito ad uno spettacolo oleografico che fatica a calamitare l’attenzione del pubblico. I protagonisti sono per lo più abbandonati ad una gestualità stereotipata (braccia al Cielo e sguardi truci la fanno da padrone) e riusciamo a vedere il coro solo staticamente schierato a far da fondale ai protagonisti. Il senso di frammentarietà dell’opera, che rispetto al precedente Nabucco presenta una maggior varietà musicale per stile e forme a scapito della compattezza dell’insieme e della fluidità narrativa, è così amplificato dall’inerzia scenica che isola momenti slegati costruendo immagini da cartolina spesso piacevoli ma piuttosto banali.
Altrettanta carenza di idee emana dalle scene realizzate da Jean-Guy Lecat, per il quale tutta l’opera scorre tra pilastri che dai lati della scena incorniciano un fondale fisso (una stilizzazione della Basilica di Sant’Ambrogio, archi e archetti occidentali ed islamici, vedute di Gerusalemme).
Gli stessi pilastri restano sospesi a mezz’aria per creare la caverna dell’eremita cristiano e la scena del terzetto della conversione.
Appariscenti i colorati costumi realizzati da Fernand Ruiz, seppur anche in questo caso la ricercatezza pare spesso sconfinare nell’oleografico, in aggiunta a stranezze come le tuniche indossate da Oronte e Sofia e i curiosi copricapi delle schiave nell’harem del secondo atto impegnate a giocare a palla avvelenata.
Protagonista assoluto della serata è stato, dunque, il Maestro Michele Mariotti, la cui direzione ha sin d’ora le carte in regola per essere un punto di riferimento nella storia interpretativa del titolo.
L’orchestra suona come galvanizzata sotto la sua bacchetta, e innumeroveli momenti colpiscono per il suono legato degli archi, per le preziosità degli interventi dei legni nelle arie, per l’accompagnamento che anche nei momenti più noti risuona come inaudito.
Dominio della prassi esecutiva, precisione, colori, intensità, flessibilità ritmica : ogni cosa a suo posto senza che si insinui la routine, persino quando la scelta di tempi piuttosto comodi come nell’Allegro Mod.to assai di Come poteva un angelo, che chiude la scena della cavatina di Oronte, farebbe temere il peggio. La stessa si trasforma, invece, in un vertice della serata anche grazie alla solarità del canto di Francesco Meli, che squaderna una vocalità tenorile da manuale per fraseggio, varietà d’accento, bellezza del timbro, legato. La mia letizia infondere è da antologia per il rispetto delle indicazioni di Verdi (con gioja, dolce, con forza, dolciss., con slancio a seconda degli stati d’animo) e la finezza con cui Meli varia e colora i diversi mortal è degna di essere ricordata.
L’Adagio con cui principia l’opera ci introduce nel clima sonoro del primo atto con il necessario senso di mistero prima che gli interventi corali dell’Allegro vivace, perfettamente in equilibrio sonoro con la banda interna, lascino spazio all’Andante concertato dove spicca la vocalità sicura e raffinata della Giselda di Angela Meade. Impegnato nel ruolo del malvagio Pagano, Alex Esposito convince pienamente per vocalità e presenza scenica : la voce, tecnicamente sicura almeno sino agli estremi più acuti, regge la parte senza esitazioni e il personaggio esce malvagio ma mai volgare.
L’orchestra sostiene ogni stato d’animo con un fraseggio mobilissimo e scelte di tempi eletrizzanti che non scadono in bandistici effetti fini a loro stessi ma sostengono al meglio l'azione e il canto.
Meade convince nella sua aria più bella, la preghiera Salve Maria !, che ci trasporta verso la conclusione del primo atto. Pregevole il colore vocale di una voce importante e la precisione della linea di canto. Occasionali difficoltà nel passaggio e suoni talvolta piuttosto spinti passano in secondo piano a fronte della sensibilità dell’interprete nell’accentare e sfumare alla ricerca di suoni dolci e pp nelle lunghe frasi legate della sezione centrale.
Nella gran scena del secondo atto Esposito trova i suoi momenti migliori nel recitativo e nell’Adagio Ma quando un suon terribile che interpreta con incisività e autorevolezza, più a suo agio nel fraseggio largo e profetico dell’Eremita che nel ruolo stereotipato del cattivo Pagano.
Al momento del rondò-finale II Meade si mette in luce nell’Andantino Se vano è il pregare per la precisione e il colore trovato, mentre più laboriosa è la stretta che chiude l’atto dove la potenza vocale passa in primo piano a scapito di qualche suono aperto e al limite dell’intonazione.
Detto della valida prova nell’aria del terzo atto del tenore Gabriele Mangione, previsto per alcune repliche ma subentrato anzitempo per l’indisposto Giuseppe Gipali nel ruolo di Arvino, tenore comprimario dalla parte impegnativa per presenza vocale e linea musicale, resta a ricordare l’esito del terzetto Qual voluttà trascorrere.
Ancora una volta l’orchestra ha ben figurato sia nel breve concerto introduttivo che ha per protagonista il violino solista (funzionalmente analogo al solo del violoncello nel preludio dei Masnadieri) sia nell’insieme, costituendo un valido sostegno per le voci dei tre solisti. Anche in questa occasione colpisce la nitidezza di suono e la flessibilità con cui Mariotti costruisce il brano, che ricordano in taluni aspetti le migliori direzioni dell’americano James Levine alle prese con il furore quarantottesco del primo Verdi
L’istantanea del quarto atto è dedicata all’altro protagonista della serata, il Coro del Teatro Regio guidato da Andrea Secchi. I Lombardi vedono il coro impegnato per tutta l’opera, in quasi tutte le scene e già nel terzo atto il coro della Processione Gerusalem!.. Gerusalem!.. La grande, la promessa città ! è occasione per strappare applausi a scena aperta.
Il vero trionfo, però, l’Autore lo serba alla fine col coro di Crociati e Pellegrini O Signore, dal tetto natio abilmente inserito per rinnovare il precedente successo del Va, pensiero del Nabucco.
La simbiosi tra Mariotti e il Coro mantiene le aspettative : dopo una introduzione carica di tensione emotiva (bastano tre accenti alla terza e quarta battuta per costruire l’atmosfera sino al ff della settima misura) il coro attacca il cantabile con espress. per toccare tutte le corde dell’emozione nel ricordo delle lontana terre lombarde coinvolgendo nella stessa emozione tutto il pubblico in sala.
Di buon livello, infine, le prove di Lavinia Bini, Alexandra Zabala, Antonio Di Matteo, Joshua Sanders e Giuseppe Capoferri, che hanno adeguatamente completato la distribuzione vocale.
Al termine dello spettacolo, applausi per tutti gli interpreti, compreso il primo violino salito sul palco, ed in particolare per Mariotti, Esposito, Meli e Meade. Isolati dissensi per il team responsabile della parte visiva.