Dmitrij Šostakovič stesso, che quando compose la Lady Macbeth del distretto di Mzensk era un giovane genio scatenato ed estremista, non aveva previsto quasi nessun momento di tregua per il pubblico e la regia accentua ulteriormente quest’incessante bombardamento dei nervi degli spettatori. Anche la scelta di fare un solo intervallo tra i quattro atti, che complessivamente durano circa tre ore, contribuisce a rendere questa continua tensione drammatica quasi insostenibile.
Testo e musica di quest’opera sono totalmente privi di un solo raggio di luce (un duro colpo per chi si ostina a credere che l’uomo alberghi un minimo di razionalità e/o di spiritualità e che non sia totalmente preda di istinti bestiali) e danno un quadro quasi intollerabile della miseria morale degli abitanti di un villaggio sperduto nella pianura russa dell’Ottocento. Come se non bastasse, Kusej porta tutto al parossismo. Per il regista quel che succede in quest’opera ha come unica causa il sesso, che nel gretto mondo che circonda la protagonista Katerina non è erotismo, non è gioiosa realizzazione di un istinto primario, ma brutalità, sopraffazione e violenza. Si comincia fin dal secondo quadro, quando i pesanti scherzi dei servi ai danni della cuoca diventano nella regia di Kusej un vero e proprio stupro : probabilmente era proprio quel che Šostakovič voleva, ma all’epoca non era possibile mostrare tutto ciò in scena. Subito dopo anche l’amplesso tra la protagonista Katerina e il suo amante Sergej è assolutamente bestiale, senza la minima traccia di sentimento. È significativo che la musica di queste due scene si assomigli e che assomigli anche – nel carattere generale e in alcuni precisi dettagli – alle scene della spietata fustigazione di Sergej da parte di Boris (il suocero di Katerina) e della terribile morte dello stesso Boris, cui Katerina somministra veleno per topi nella zuppa.
Come in ogni sua regia, Kusej insiste molto sul sesso e immediati dintorni, anche quando non sarebbe strettamente necessario : ecco dunque i poliziotti nudi (in realtà indossano mutande color carne) in caserma, gli invitati ubriachi che urinano durante il banchetto nuziale, i deportati nudi o seminudi durante il loro cammino verso la Siberia. Ma nel mostrare rapporti sessuali e corpi nudi non c’è il minimo compiacimento, anzi l’effetto è volutamente aggressivo e perfino ributtante e serve per accentuare le tinte crude e sgradevoli del quadro di quella fauna umana, rappresentata come una bolgia infernale : non so se sia voluto, ma nell’ultimo quadro i corpi nudi dei deportati mi hanno ricordato i dannati nelle famose incisioni ottocentesche di Gustave Doré con scene dell’Inferno dantesco.
Per Kusej il sesso è dunque il protagonista principale, ma non l’unico. C’è spazio anche per la satira feroce, particolarmente nel raffigurare i poliziotti e gli inviatati al banchetto nuziale : naturalmente qui il pensiero va ad Otto Dix e George Grosz.
In palcoscenico tutto è affidato alla fisicità dei solisti e delle masse, mentre le scene di Martin Zehetgruber potrebbero sembrare dei contenitori neutri, quasi invisibili : ma la stanza vuota dalle pareti di vetro dei primi due atti si rivela ambiente tutt’altro che neutro e diventa la gabbia in cui Katerina è rinchiusa dalla famiglia del marito e allo stesso tempo la vetrina in cui è esposta all’indiscreto e impietoso sguardo di tutti.
Il ritmo teatrale rapido e implacabile e la musica graffiante ed esasperata vengono acuiti dalla regia e lo spettatore è completamente travolto, soggiogato, conquistato. Alla fine si applaude con entusiasmo. Eppure, riflettendo a mente fredda, si deve fare un appunto a Kusej, perché a causa dell’eccessiva attenzione al sesso si è fatto sfuggire qualcosa della complessità e della ricchezza di significati della Lady Macbeth del distretto di Mzensk, in cui i rapporti familiari e la sete di denaro hanno un ruolo importante almeno quanto il sesso e servono a dare un quadro più completo e anche più disperato di quel piccolo e chiuso mondo di mercanti avidi e brutali, donne usate come oggetti e contadini rozzi e ignoranti.
A differenza della regia, la direzione di Juraj Valčuha non si fa sfuggire nessun aspetto della musica di Šostakovič, di volta in volta drammatica e ironica, volgare e raffinata. In alcuni momenti riesce perfino ad alleggerire quella macchina infernale che è l’orchestra di Šostakovič, evidenziando brevi oasi quasi cameristiche, in cui le ottime prime parti dell’orchestra del San Carlo hanno modo di far capire quel che valgono. Ma indubbiamente i momenti predominanti, perché più frequenti e di maggior effetto, sono quelli di estrema e quasi insopportabile violenza sonora, che nel 1936 attirarono la condanna di Stalin, che li definì “caos invece di musica”. L’orchestra del San Carlo segue magnificamente il suo nuovo direttore musicale, con cui – a giudicare dai risultati – ha già stabilito un ottimo rapporto artistico. Egualmente da elogiare il coro (istruito da Marco Faelli) chiamato ad una prova musicalmente e scenicamente molto impegnativa. Lo rinforzava un gruppo di voci maschili del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo.
Elena Mikhailenko è complessivamente una valida protagonista. Supera la tremenda tessitura di Katerina, tuttavia non ha la personalità maiuscola per dare tutta la sua terribile grandiosità a questa Lady Macbeth di paese, che è indubbiamente una delle figure femminili più forti di tutto il teatro musicale del Novecento. Delle due facce di Katerina, carnefice e vittima, è la seconda che emerge maggiormente nella sua interpretazione. Ed è probabilmente quel che Kusej voleva, presentandola con una parrucca bionda che ricordava inevitabilmente Marylin Monroe o qualche altra diva hollywoodiana di quegli anni : non una mangiatrice d’uomini, ma una “svampita”, come in Italia venivano definite allora le donne di questo genere. Suo suocero Boris – un padre padrone, avido, bramoso e bestialmente violento, un vero orco – era interpretato in modo efficacissimo da Dmitry Ulyanov. Sergej, il vanesio e insincero amante di Katerina, è Ladislav Elgr, che ha voce e fisico prestanti, ma non troppo, perché deve apparire un mediocre. Ludovit Ludha è scenicamente e vocalmente pallido, come deve essere Zinovi, il marito di Katerina, che è un personaggio piuttosto marginale.
Ottimi gli interpreti dei numerosi personaggi minori, ma tre in particolare sono eccezionali. Carole Wilson è impressionante per il realismo del canto e della recitazione nella scena dello stupro della cuoca. Il veterano Vladimir Vaneev – che è stato uno storico interprete del suocero Boris e ha cantato quella parte anche in una delle cinque recite napoletane – conferma di essere ancora un grande artista nella parte del vecchio deportato, cui è affidato uno dei pochi momenti lirici e cantabili dell’opera. Anche indossando i cenci di una deportata, Julia Gertseva con la sua voce e la sua bellezza rende affascinante Sonietka, la nuova amante di Sergej.