La brillantezza, la vivacità, la leggerezza mordaci e devastanti del fuoco vivaldiano si manifestano idealmente nel suono ; nonostante il manico di tiorba che svetta fuori dalla buca inganni l’occhio facendo presagire un suono “antico”, l’orecchio si accorge immediatamente che il rotondo, politissimo suono ottocentesco dell’arco moderno può inficiare la realizzazione musicale dell’elemento igneo : altro colore, altra qualità, altra tecnica, altra agilità ; non mancano tuttavia alcune felici eccezioni. I recitativi accompagnati risultano infatti particolarmente intensi ed evocativi, anche per l’uso parsimonioso e sapiente che ne fa Vivaldi : il vaticinio riportato da Orlando nel primo atto, lo sposalizio di Angelica e Medoro nel secondo, l’ammissione della sconfitta di Alcina nel terzo sono momenti di grande tensione in cui la filigrana sonora degli archi cattura magneticamente l’attenzione. Impressionanti i momenti in cui all’orchestra è richiesta concitazione, che viene resa perfettamente da un insieme preciso e netto e da una sonorità sferzante, severa.
Il cast vocale si rivela, nel complesso, pienamente all’altezza : Lucia Cirillo è un’Alcina demoniaca ed energica, talvolta poco sonora e coperta dall’orchestra, forse ostacolata dal suo abituro a forma di conchiglia. Non riesce – ma non per suo demerito – a rendere interessante l’interminabile aria Così potessi anch’io alla fine del secondo atto, ma la graduale sconfitta della maga e la sua spettacolare uscita di scena rivelano un’interprete poliedrica che sa convincere tanto nel recitativo quanto nell’aria, conferendo a entrambe un forte e consapevole senso drammatico. L’Angelica di Francesca Aspromonte è decisa e volitiva, dalla voce ricca, forse non sempre presente nel registro medio-grave, ma agile e impreziosita da un vibrato leggero e naturale. Sonia Prina (Orlando) dà vita a un personaggio di rara complessità, cui spettano numerose scene recitate, due lunghi monologhi e almeno due arie di difficoltà trascendentale. La sua è una voce eclettica : sa essere quella del nobile, irreprensibile paladino e quella del pazzo farneticante di gelosia. È nel secondo atto che il personaggio di Orlando si sviluppa e acquisisce peso drammatico : quando Angelica lo sfida per disfarsi di lui e Orlando si scopre raggirato, Prina sfodera una sonorità possente e terribile, che fa il paio con una fisicità e una presenza scenica che la rendono decisamente credibile nei panni di un cavaliere uscito da un racconto epico e prestato al teatro musicale. L’aria Nel profondo cieco mondo – in questa produzione nel secondo atto, ma originariamente nel terzo – è un brano di virtuosismo spietato, che il contralto porta avanti non senza fatica, zavorrata da un’orchestra priva di leggerezza, soprattutto nei caratteristici portamenti dell’introduzione che risultano particolarmente goffi. Il lungo monologo che conclude l’atto secondo – dalla scrittura eterogenea che spazia dal recitativo secco all’arioso – è una grande prova drammatica in cui Prina rivela non comuni doti attoriali : con inflessioni della voce, una mimica curata nei dettagli e con la legittima libertà agogica che si prende, riesce a rendere vivo, interessante e partecipato il passaggio cruciale del dramma : la scoperta che scatena la gelosia furiosa di Orlando. La follia diviene manifesta e spaventosa all’inizio del terzo atto, quando Prina sembra posseduta e preda di autentica alienazione nei movimenti, nello sguardo e nella convinzione con cui pronuncia gli sconnessi delirii di Orlando. Anche la voce è completamente dissociata da quella dell’Orlando lucido e incorruttibile paladino : una metamorfosi sorprendente. L’acme del delirio si ha con la danza della follia, in cui il clavicembalista si scatena in un magniloquente scroscio di ornamentazioni sul celebre motivo cantato con forsennata lallazione dal(la) protagonista.
Un plauso particolare spetta a Carlo Vistoli (Ruggiero), certamente la miglior voce sul palcoscenico. Controtenore attento alle più raffinate minuzie espressive, dotato di impeccabile dizione e di una voce ricca di armonici su cui esercita un controllo totale, il quale passa dalle più sottili inflessioni dinamiche alla più vistosa delle ornamentazioni. Suo uno dei pezzi più celebri dell’Orlando vivaldiano : l’aria con flauto obbligato Sol da te mio dolce amore, forse il momento più alto e riuscito della produzione. Il traversiere (tanto duttile ed elegante nelle mani di Stefano Bet) è dislocato in un palchetto laterale e dialoga con la voce perfetta di questo Ruggiero. Quella che per la maggior parte dei compositori è una figurazione di accompagnamento, Vivaldi la trasforma in astratta poesia ; e così, da un inizio d’ispirazione vocale, il traversiere si produce in arabeschi di grande complessità tecnica e altissima espressività. Ogni intervento di Ruggiero è un piccolo capolavoro interpretativo e a Vistoli riescono almeno due miracoli : rendere interessante la frivola arietta Qual candido fiore nel secondo atto e dare una scossa all’orchestra con l’aria di bravura Come l’onda con voragine orrenda e profonda. Vistoli, perfettamente a suo agio in questo ruolo e in questo repertorio – cosa che non sempre si può affermare degli altri interpreti – riesce apparentemente a guidare l’orchestra, a sgravarla e a coinvolgerla nella sua splendida e naturale sprezzatura, che tanto le manca nel corso dell’opera. La direzione di Diego Fasolis, infatti, è precisa ma non di rado piuttosto legnosa, corretta ma troppo spesso priva di smalto, di disinvoltura, di leggerezza e libertà ; convincente nei momenti drammatici, neri, mistici e patetici quanto piantata a terra nei – numerosi – momenti in cui Vivaldi spicca il volo.
Non sarebbe completa una recensione senza almeno un breve accenno all’aspetto visivo di scenografia e costumi, decisamente più d'effetto in fotografia che dal vivo. Apprezzabile la scenotecnica arcaicizzante azionata da inservienti ben visibili, soprattutto nel destriero alato su cui giunge Ruggiero e nella colossale armatura composta su aste da diversi figuranti che dà vita al delirio di Orlando all’inizio del terzo atto.
L’impressione globale è che si sia voluto a tutti i costi dar vita a un’esotica idea di Barocco che risulta del tutto fasulla nel suo cieco e pervicace perseguimento del kitsch. Gli sfarzosi costumi colmi di lustrini dorati (e probabilmente di plastica), gli abiti dalle fogge improbabili e le immancabili libbre di carne a buon mercato appaiono come l’ennesima riproposizione di un’immagine di “Barocco” stereotipa e gratuita, votata allo spettacolo fine a sé stesso e priva di una reale ricerca in direzione tanto della ricostruzione quanto dell’innovazione. Apprezzabile comunque il tentativo di rendere i diversi elementi del libretto originale, inseriti in un efficace contesto onirico.
Nel complesso si tratta di una produzione riuscita : uno spettacolo accattivante e nel suo insieme ben eseguito, che può vantare il non piccolo merito di riportare in scena un’opera decisamente interessante ma assai poco frequentata.