“[…] entro in ripetizione con un’opera nuova buffa, fatta intanto che tu viaggiavi, che mi costò più di dieci giorni di fatica, per la Grisi, Mario, Lablache e Tamburini : titolo : Don Pasquale. È Il vecchio Marcantonio (non dirlo questo).[…]”((Gaetano Donizetti al cognato Antonio Vasselli, lettera del 12 novembre 1842 cit. in “Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva” a cura di A. Bini e J. Commons, Milano 1997, pag. 1089.))
Geniale Donizetti, lo fu, e in quattro parole distratte riassumeva così al cognato la genesi di un capolavoro che affonda le radici nella malinconia e nella noia romana. Siccome ci teneva si prese tutto il tempo necessario (…dieci giorni…!) e partì da un soggetto banale e vecchiotto, già musicato da Stefano Pavesi trent’anni prima che faticò a tenere la scena anche solo per due lustri.
Come costume, si occupò delle prove e della messa in scena per la prima assoluta, per un palcoscenico importante come quello del Théâtre-Italien di Parigi che ben conosceva per essersi già scontrato con Bellini su quelle tavole al tempo del Marin Faliero.
Dai nomi dei quattro protagonisti, un cast all star per il periodo, è sin troppo facile individuare i caratteri dei rispettivi personaggi. La presenza di una Giulia Grisi, che nello stesso teatro aveva indossato per la prima volta i panni dell’Elvira dei Puritani, fa subito pensare ad una Norina protagonista assoluta della scena che con accenti e coloratura da soprano, addirittura drammatico, poteva rendere credibilmente la gravità di alcune scene (su tutte quella dello schiaffo, che distrugge il mondo del ridicolizzato padrone di casa e ci porta, nella commedia, sul filo delle lacrime di compassione) per trasformarsi con un battito d’occhi in pungente soubrette dalla voce importante.
Il tenore Mario (all’anagrafe Giovanni Matteo De Candia) era appena diventato, nella vita reale, il compagno della suddetta diva Giulia, e poteva sfoggiare una voce bella e morbida, ideale per linee melodiche raffinate ma non eccessivamente acute e legate, quelle che poteva sostenere in modo impareggiabile l’astrale Rubini.
I due buffi Lablache e Tamburini, poi, rappresentano ideali archetipi per il ruolo da gigante buono dalla voce possente ma dall’articolazione agilissima e per quello del furbo baritono leggero motore di complesse burle, guarda caso, matrimoniali.
Il senso del Don Pasquale si completa con l’aiuto di un’altra riga scritta al cognato nello stesso periodo : “Io rido ma poi tu sai bene se in fondo al core non ho la melanconia, che mi opprime, e formo una gaiezza orpello per covrirla”. ((Lettera cit. in Gustavo Marchesi, “L’Opera lirica”, 1986, pag. 191))
Per la nuova importante produzione guidata dal proprio direttore musicale Riccardo Chailly, il Teatro alla Scala si è affida al (già) cantante Davide Livermore che da par suo ancora una volta costruisce una regia spigliata, originale, fantasiosa e a prima vista attenta ai valori della musica.
Livermore rispetta l’originale ambientazione romana, solo spostandola di poco più di un secolo sino alla Roma dei mitici anni ’50, quella della grande cine-commedia all’italiana cui il regista rimanda esplicitamente nelle note del programma di sala e nelle interviste di questi giorni. Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini dunque ma, anche, Germi, Risi, Monicelli quali mostri sacri cui ispirarsi e da onorare nella rappresentazione di quella commedia all’italiana in cui attori come Totò, Fabrizi, De Filippo, Sordi, Gassman, Vitti si liberarono della propria maschera per rappresentare tramite impareggiabili caratterizzazioni pregi e difetti di un Paese alle prese con la propria ricostruzione.
Con questi presupposti l’ingresso di Cinecittà, gloria dell’industria cinematografica made in Italy, diventa lo scenario ideale per la cavatina di Norina che arriva al volante della Spider de Il Sorpasso. A lato dell’ingresso, il poster di un Maciste cinematografico tira la volata alla comparsa di centurioni, romani e romane figuranti usciti dal set.
La stessa Spider, un oggetto feticcio al pari della zucca di Cenerentola che si trasforma in carrozza, si alza sui tetti di Roma, sull’immancabile cupolone di San Pietro, per completare il giro turistico, nel caso a qualcuno non fosse chiaro dove siamo !
Immancabile la Vespa di Vacanze romane a bordo della quale scorrazza il finto notaio che è piuttosto un ladruncolo da quartiere di periferia.
Le immagini suggestive si susseguono per tutta l’opera con coerenza ed eleganza.
In una Roma che incomincia a liberarsi dalle ristrettezze economiche e politiche e sente profumo di prossima dolce vita, la zitella Norina duetta con Malatesta presso la Norina Confezioni, il suo atelier di moda (l’improbabile gonna che sfoggia, evidentemente di sua produzione, giustifica la ricerca di un marito benestante …).
Il secondo atto, che principia con l’aria di Ernesto tutto preso dai suoi pensieri di fuga ci porta nell’atrio di una stazione con arrivi e partenze, e lo sconsolato assolo di tromba (basterebbe da solo a consacrare la gloria del Donizetti musicista) commuove nel parallelismo con La strada dei giganti Masina e Fellini.
Per la scena del boschetto, all’ultimo atto, l’ambientazione si sposta in periferia, un richiamo ai pini di Roma, il luna park, il gasometro, la spider di prima e qualche dubbia figura femminile che si aggira nella periferia romana completano il quadro.
E il protagonista, Don Pasquale ? Livermore illustra sulla scena una vera e propria analisi psicologica della sua vita inventandosi la figura della madre del protagonista e l’opera inizia con il funerale di quest’ultima.
La sinfonia, a sipario aperto, è l’occasione per ripercorrere in un flashback i primi innamoramenti, da bambino, da ragazzo, da adulto. Niente da fare, impossibile superare l’ostacolo di questa madre impicciona e coronare il sogno d’amore, ecco che la bramosia matrimoniale di questo vecchio Don Pasquale è spiegata con la libertà dall’oppressione di questa Tina Pica, conquistata solo in tarda età. Di lei resta il ritratto, alle pareti di ogni stanza della casa, che mutando espressione si vendica sarcasticamente mano a mano che la burla prende forma.
Abbiamo descritto un Don Pasquale messo in scena senza un momento di sosta teatrale e senza un momento di vera tristezza. Ecco, questo è mancato allo spettacolo per rendere il senso di melanconia coperta da gaiezza di cui parla l’Autore.
Perché Don Pasquale è opera d’interni vecchi e polverosi, sempre uguali da tanti anni e bisogna aspettare la fine dell’opera persino per uscire in giardino. Non è opera per scene che ruotano e vicende che trapassino da interni ad esterni.
In mezzo, lo schiaffo di Norina è la chiave di volta di una storia già vista e rivista, quando all’improvviso cala il gelo ed in un attimo l’Autore ci costringe a provare pena per quel povero babbione di Don Pasquale sino ad allora ridicolo.
Solo in questo modo non si perde, come ci è parso in taluni momenti della serata, il senso del dramma a esclusivo vantaggio del buffo.
Alla guida dei complessi scaligeri, il direttore musicale Riccardo Chailly ha pienamente convinto per la costante ricerca di timbri e colori mai scontati, sorretta da una pregevole precisione strumentale non fine a sé stessa ma che, anzi, ha lasciato spazio al sentimento ed al coinvolgimento emotivo. L’esito complessivo è andato via via migliorando nel corso della serata, in particolare dal secondo atto in poi.
Ottimo l’intervento del coro durante il terzo atto, magistralmente sostenuto dall’orchestra che ha poi ritrovato giusti colori e umorismo nel duetto “Cheti cheti immantinente” riuscendo a far passare così in secondo piano l’appena discreta esecuzione dei cantanti.
Occasionali disomogeneità tra sezioni dell’orchestra e alcuni problemi di eccessive sonorità sono probabilmente da imputarsi alla difficoltà di prendere le misure ad una sala acusticamente non facile come quella del Piermarini, specie per questo genere di opere cui gioverebbe sicuramente un ambiente più raccolto che non costringesse gli interpreti a forzature a scapito del fraseggio.
Discreto il gruppo degli interpreti vocali, che ha visto in Ambrogio Maestri un Don Pasquale non particolarmente a suo agio nelle note gravi e nel sillabato del duetto finale, con una linea vocale che lo obbliga in più punti dell’opera a sconfinare nel parlato a mano a mano che si sale verso il settore acuto, mettendone a repentaglio l’intonazione.
Il soprano Rosa Feola ha ben figurato nel ruolo di Norina sulla scorta di un fraseggio curato e di una voce dall’emissione corretta in tutta la sua estensione, oltre che per l’ottima interpretazione che si indovina in totale sintonia con la visione registica. La voce è quella di un soprano lirico dalla coloratura non certo pirotecnica ma che esegue con sicurezza tutto quanto è previsto in partitura, e rendendo al meglio le tante sfaccettature del suo personaggio finisce per risultare la protagonista della serata.
Al tenore René Barbera è affidata la difficile parte di Ernesto, che esegue nella sua integralità (coraggiosa la puntatura con cui chiude la cabaletta, variata, del secondo atto) senza particolare propensione a sfumature e mezze voci, con un fraseggio piuttosto inerte ancorché sorretto da precisione e da sicura intonazione.
Furfanteggia scenicamente il Dottor Malatesta di Mattia Olivieri, che non dispone per contro di altrettanta sicurezza vocale, tanto nei gravi quanto nei suoni acuti, e dal fraseggio piuttosto monotono.
Simpaticamente canagliesco il corretto notaio di Andrea Porta.
Al termine della rappresentazione applausi convinti per tutti gli interpreti, in particolare per Feola, Maestri e Chailly.