Ci voleva il Bellini International Context per regalare ai messinesi (Catania e Palermo hanno ancora delle programmazioni liriche regolari) l'emozione di un nuovo allestimento operistico. Non che non ce ne siano stati affatto negli ultimi anni, ma manca alla città una stagione operistica di apprezzabile continuità : che significa anche fidelizzazione del pubblico, più occasioni di lavoro per l’orchestra del Teatro Vittorio Emanuele, che non è stabilizzata, regolare dialogo del Teatro con le altre istituzioni culturali cittadine, approfondimento sui grandi titoli del repertorio operistico attraverso le scelte registiche e musicali, riflessione collettiva sull'attualità del teatro musicale e sulla sua capacità di parlare al pubblico di oggi, quindi formazione per i più giovani, quindi cultura per tutti. In primo luogo però, cioè prima delle varie rifrazioni e ricadute di un nuovo allestimento, il teatro musicale è fonte di incanto hic et nunc. Come se non la conoscessero a memoria, come se non la potessero cantare in prima persona, nota dopo nota, volatina dopo volatina, gli spettatori del Teatro messinese hanno accolto la cavatina di Norma “Casta Diva” con un'ondata di emozione collettiva e di intensa gratitudine per essere stati nuovamente messi a contatto con un grumo di perfezione artistica senza tempo, che dal 1831 arriva dritto come una freccia nella nostra travagliata contemporaneità e mostra come quasi due secoli siano scivolati senza appannarla su questa melodia talmente bella che pare non essere stata scritta da un essere umano, fatto come tutti di carne e d'ossa. Quando Klara Kolonits attacca – benissimo – “Casta Diva, che inargenti queste sacre, antiche piante…”, spariscono all'istante le mille contorsioni subite dal mito di Medea (modello di Norma) da Euripide in poi, le riletture colpevoliste e innocentiste del personaggio, la curvatura impressa alla storia della maga della Colcide nelle sue varie incarnazioni (Euripide, Pausania, Ovidio, Seneca, solo nell'antichità greco-romana), la sostanziale indifferenza del pubblico smaliziato di oggi per la virtù mantica esercitata attraverso il vischio (per quello ci sono ormai le quotazioni di borsa, più attendibili), e tutti si lasciano naufragare dolcemente nella divina lunghezza della frase belliniana.
Il regalo di un “breve istante di immortalità” viene favorito dall'ottimo livello complessivo dello spettacolo. Klara Kolonits (Norma) ha una voce particolare : nel registro centrale, specialmente nel forte dei recitativi, la sua emissione presenta uno sgradevole timbro metallico, che rende poco apprezzabili tutte le parti d'azione in cui Norma dialoga con i vari personaggi e ingaggia con loro un rapporto di forza. Di bella grana e squisito gusto musicale, invece, tutti i punti in cui il canto si inarca verso gli acuti, precisi, puliti, specialmente quelli dove la voce si assottiglia fino a farsi vibratile sismografo del sentimento. Buono, della Kolonits, anche il registro basso, cui è affidata la caratterizzazione psicologica che deve opporre la tragica, sanguigna Norma, all'angelica e innocente Adalgisa.
Qui la rivale della protagonista è Alessia Nadin : intensa, vocalmente a punto, del tutto all'altezza di un ruolo dal difficile equilibrio, stretto tra il tipo romantico della “fanciulla innamorata” (ovviamente di un uomo) e quello della sacerdotessa vergine, fedele e devota non a un uomo, ma a una donna e a una missione sacra. Dunque, i duetti Norma/Adalgisa filano via commoventi come il miraggio di una impossibile sorellanza. Ottimo anche il Pollione di Stefano Secco : la preparazione degli acuti è alquanto laboriosa, ma poi lo squillo esce nitido e rotondo. Anche Secco rende bene il suo personaggio, più seduttore infallibile che valente generale, più uomo tentato dalle lusinghe dell'eros che preoccupato dalle seccature del polemos. Buoni anche i comprimari : l'Oroveso di Gabriele Sagona, la Clotilde di Oleksandra Chaikovska, il Flavio di Davide Scigliano ; gradevoli i costumi di Lisa Rufini. Sul podio c'è un direttore di grande esperienza come Giuseppe Ratti, che dirige l'Orchestra dell'E.A.R. Teatro di Messina, in buona forma come anche il Coro Lirico “Francesco Cilea” preparato da Bruno Tirotta. Il fraseggio di Ratti è alquanto angoloso, come risulta già dall'ouverture : le frasi sono ben disegnate e ben condotte, ma il collegamento tra una frase e l'altra viene giocato più sulla contrapposizione che sulla consequenzialità e l'effetto, su frasi e mezze frasi molto lunghe come quelle di Bellini, è a tratti quello di un'articolazione un po' troppo evidente. Molto mobile, e sempre ben calibrata, è l'agogica : Ratti conduce con grande gusto e ottima padronanza dell'orchestra l'accompagnamento di arie che risultano così intense e vive, e vibranti di una emozione tale da sparigliare l'ordinaria isometria del ductus.
L'elegante messa in scena è firmata da Francesco Torrigiani, con belle scene di Francesca Cannavò. Quello di Torrigiani è un segno sobrio e rispettoso del dramma, che ha la sua prima e più importante sede nella musica : ogni scelta del regista incornicia e intensifica con l'immagine quello che i suoni dicono già da soli. Fino all'ultimo non ci sono idee incongrue o invadenti, anzi : il vischio che cala dall'alto su Norma nel primo atto, con un'allusione al groviglio dentro cui la sacerdotessa si è cacciata, è una soluzione scenica molto bella ; così come efficace è la proiezione sullo schermo di fondo della luna che, cambiando aspetto, grandezza e colore, funge da sentinella dell'azione. Sono ben concepiti anche i pannelli bugnati grigio scuro sullo sfondo : si legge nelle note di regia che alluderebbero alla pietra nera dell'Etna, presente ovunque nella Catania belliniana in lega con un elegantissimo bianco. Che gli spettacoli siciliani facciano ormai spesso riferimento allo specifico regionale e cittadino non è un dato di per sé apprezzabile, e anzi denota un ripiegamento in cui si presume che il pubblico riesca a ritrovarsi nelle opere solo se vi riconosce la porta di casa. Preferiamo quindi considerare i pannelli grigi di questa Norma come funzionali e ben disegnate quinte, che potrebbero riferirsi alle rudi dimore di pietra dei Galli e citare così la durezza di quel popolo bellicoso. In ogni caso, Torrigiani fa tutto bene e riesce a resistere fino alla fine dello spettacolo senza farsi venire idee sbagliate, ma nell'epilogo incappa in un’invenzione del tutto fuori posto. Quando nella scena finale dell'opera Norma si butta sulla pira funebre e Pollione, che si è miracolosamente ricordato di amarla ancora, la segue immolandosi anche lui, il momento rappresenta il punto d'arrivo di una drammatica vicenda di disonore : disonore per Norma, che ha tradito la sua vocazione e il suo popolo ; disonore per Pollione, che ha tradito i suoi passando il tempo a sedurre le sacerdotesse vergini dei nemici ; disonore e sconfitta per Adalgisa, che è stata pure sedotta e ha tentato inutilmente di ricondurre in tempo Pollione da Norma. L'epilogo dell'opera è un momento di grande drammaticità e di scioglimento dell'azione in senso tragico per tutti i protagonisti, ma purtroppo qui Torrigiani non riesce a resistere al canto delle sirene del politicamente corretto : quando Norma ormai si avvia verso il fuoco, le sue ancelle allineano intorno alla pira tante paia di scarpe rosse, quelle usate per commemorare i femminicidi. A parte il fatto che il numero stesso delle scarpe ammonticchiate farebbe pensare a un destino ricorrente per le sacerdotesse dei Galli, puntualmente sedotte da generali romani dal fascino irresistibile, l'idea di dare in chiusura una chiave di lettura dell'opera come di un femminicidio è una forzatura. La rivelazione finale di Norma come vittima sacrificale di un sistema a trazione maschile – quale ? – costituisce una resa al conformismo più appiccicoso che una regia così ben concepita non meritava. A questo punto, facendo valere le nostre prerogative di destinatari dell'interpretazione registica, scegliamo di considerare quelle scarpe rosse allineate ai piedi del rogo funebre di Norma non come riferimento a un fantomatico, inesistente femminicidio, ma al contrario come affettuoso tributo delle ancelle all'accessorio-feticcio della loro sacerdotessa : le vezzose scarpette rosse, sempre ai piedi di Norma al momento di andare a raccogliere il vischio.