Un'opera a mosaico
Sorprendentemente, in 44 edizioni, Eduardo e Cristina non era mai stato presentato al Festival di Pesaro. In compenso, l'opera è stata rappresentata a quello di Wildbad, "l'altro Festival di Rossini", ma senza un'edizione critica, nel 1997 e nel 2017. Eppure la carriera dell'opera non era iniziata così male : Lord Byron, che assistette a una delle prime rappresentazioni, ne testimoniò l'enorme successo, visto che l'anno successivo fu presentata alla Fenice di Venezia e viaggiò molto, a partire da Brescia nel 1820 e da tutti i maggiori teatri italiani, e poi all'estero, a Barcellona nel 1824, a Madrid nel 1826 e persino a New York nel 1834. Tutto ciò dimostra il suo successo. Ma Stendhal fu il primo a mettere in dubbio un'opera accusata di non essere altro che un pasticcio, una composizione basata su una musica esistente.
Infatti, dopo il 1840, ultima rappresentazione registrata a Udine, l'opera cadde nell'oblio e non fu più ripresa nel repertorio dei teatri in piena Rossini Renaissance, se non come già detto a Wildbad. Esistono peraltro tracce audio delle due riprese, nel 1997 al Bongiovanni (direttore : Francesco Corti) e nel 2017 alla Naxos (direttore : Gianluigi Gelmetti).
Pesaro non poteva certo presentare l'opera senza affidarsi all'edizione critica, completata ma non ancora pubblicata, di Andrea Malnati e Alice Tavilla.
L'edizione critica ci aiuta ovviamente a capire che Eduardo e Cristina non è un "centone", una raccolta disordinata di opere che Rossini avrebbe prestato a se stesso (self-borrowing, in buon italiano), ma qualcosa di più elaborato che sbocca su una nuova creazione. Dal materiale esistente, essenzialmente Adelaide di Borgogna, Ricciardo e Zoraide, Mosè in Egitto ed Ermione, Rossini è riuscito a creare una logica musicale autonoma, riproponendo la musica in altri contesti, con un colore diverso, rielaborando l'orchestrazione, ripetendosi senza mai ripetersi…
Per capire questa pratica, dobbiamo considerare Rossini in relazione al suo passato (mentre spesso lo consideriamo in relazione al futuro della storia dell'opera, dal bel canto a Verdi e al verismo). Quando componeva, Rossini aveva i suoi riferimenti immediati, Mozart, Haydn, Gluck, o il suo contemporaneo Beethoven, ma aveva anche una tradizione esecutiva che era quella del XVIII secolo, quando tutto era permesso : usare sempre gli stessi libretti, variare le arie a seconda del luogo o dei cantanti, introdurre arie che non appartenevano all'opera, e la parola plagio non esisteva…
Prendere arie già scritte per un titolo e reintrodurle in un altro non era un reato contro l’identità artistica. Oggi viviamo in un'epoca in cui l'opera è sacra, in cui stravolgere la sua integrità musicale è un crimine inidcibile (per non parlare di quegli orribili registi che maltrattano il pubblico, i cantanti e i compositori che non smettono di rivoltarsi nella tomba). Siamo in un'epoca di fossilizzazione moderna, che l'epoca di Rossini non ha vissuto, semplicemente perché l'aspettativa del pubblico non era di monumenti intoccabili, ma di novità, di arie alla moda, che dovevano essere offerte il prima possibile.
Nel 1819 Rossini era soprattutto napoletano, in un'epoca in cui ogni teatro aveva la sua personalità, e ora gli veniva chiesto di creare un'opera a Venezia, dove non aveva più prodotto dall'insuccesso di Sigismondo nel 1814. Contratto forse promettente, e forse una rivincita, accettò, prendendo un libretto già scritto da Giovanni Schmidt (l'immortale autore del libretto dell'Adelaide di Borgogna) nel 1810 per un'opera di Stefano Pavesi del 1810 con l'analogo titolo Odoardo e Cristina, da cui trasse due arie, quella di Giacomo e (forse) quella di Atlei…
Non fu tanto per pigrizia quanto per i tempi strettissimi che riprese musiche ben note a Napoli ma non ancora a Venezia, ma non facendone un collage, bensì adattandole al libretto, al contesto e ai personaggi : in altre parole, realizzò una nuova opera "su misura" partendo da materiale già utilizzato, con l'obiettivo di offrire un'autentica opera nuova, un vero e proprio spettacolo. Il successo del suo lavoro dimostra che ci è riuscito e che l'arte di sistemare e drammatizzare il materiale esistente è da lodare : Quest'opera ci insegna molto dell'arte di Rossini, nell'uso della musica, nel riciclo, nell'adattamento a nuovi contesti (che utilizzerà altrettanto ampiamente in seguito, si vedano Mosè in Egitto e Moïse et Pharaon, Il Viaggio a Reims e Le Comte Ory, o Maometto II e Le Siège de Corinthe : i segreti del mestiere di Casa Rossini rimangono affascinanti per la loro flessibilità, inventiva e adeguatezza.
Il libretto stesso non ha autore, il che significa che ne ha diversi, anche se abbiamo sottolineato che la storia deriva dall'opera di Stefano Pavesi sopra citata e dal libretto di Giovanni Schmidt. È probabile che nell'adattamento sia stato coinvolto Andrea Leone Tottola, prolifico librettista che lavorò anche per Donizetti e che per Rossini scrisse i libretti di Mosè in Egitto, Zelmira, La donna del Lago ed Ermione…
Come l'Adelaide di Borgogna, il libretto presenta una coppia soprano (Cristina)/mezzo travestito (Eduardo) che si scontra con due uomini, il padre di Cristina, Carlo, re di Svezia (tenore), e Giacomo, principe scozzese (basso).
La storia è molto semplice :
Siamo a Stoccolma. Eduardo, generale vittorioso e braccio armato di Carlo, re di Svezia, ha sposato segretamente Cristina, figlia del re, e hanno avuto un figlio. All'oscuro di ciò, Carlo vuole che la figlia sposi il principe scozzese Giacomo per motivi politici : così la figlia confessa il matrimonio segreto, facendo infuriare il re e rischiando di essere condannata a morte.
Tuttavia, la flotta russa assedia Stoccolma ed è Eduardo a salvare ancora una volta il suo Paese ; quindi il re accetta il matrimonio e tutto è bene quel che finisce bene (beh, quasi nell'allestimento di Pesaro…).
La messa in scena
Il libretto è allo stesso tempo lirico (i due sposi si amano profondamente), melodrammatico (i due eroi rischiano la morte), eroico (accettano coraggiosamente il fatal destino) e drammaturgicamente prezioso in quanto mette in risalto le reciproche arie in un bel contesto. Il regista Stefano Poda (che quest'estate ha diretto anche una controversa produzione di Aida a Verona), come Arnaud Bernard per Adelaide di Borgogna, ha deciso di fare un passo indietro, ovvero di proporre uno spettacolo che si distacca dal libretto e dalla storia puntando su una sorta di performance d'arte contemporanea, sia legata alla storia e quindi in qualche modo metaforica, ma anche celebrativa dell'arte in sé, poiché mette insieme scultura, coreografia e canto al servizio di uno spettacolo fortemente visivo, lontano dal teatro drammaturgico, privilegiando l'estetica e l'immagine. I movimenti dei cantanti sono minimalisti e vengono lasciati a loro stessi ; è tutto il resto a catturare l'attenzione.
Poda, che ha concepito le scene, i costumi, le luci e le coreografie, ha imposto una scenografia unica, costituita da un'accozzaglia di statue bianche, come accatastate, una sorta di festival del marmo in cui si riconoscono statue antiche e moderne (si distinguono ad esempio Rodin o Bernini), È come un mondo a sé stante, fatto di opere d'arte come in deposito, o come macellate, ma che formano anche una sorta di bassorilievo in fondo al palco, un insieme davvero ben valorizzato dall'illuminazione, che fa una certa impressione e ci ricorda l'acuto senso estetico italiano, Questa immagine è rafforzata dalle costruzioni laterali, decine di cubicoli che ospitano figure di pietra morte nella loro ganga di plexiglas, che ricordano fortemente i corpi pietrificati di Pompei o Ercolano.
In questo mondo di pietra di ispirazione funeraria, in cui si aggrovigliano tutti i nostri riferimenti artistici, si muovono i personaggi, vestiti da costumi scuri con riflessi verdi, tutti più o meno nello stesso stile, sistematicamente circondati da danzatori quasi nudi ricoperti di un bianco ceruleo, come se fossero in via di pietrificazione, e si muovono intorno ai personaggi con movimenti coreografici che ricordano fortemente il lavoro di Sidi Larbi Cherkaoui per il Rheingold ((L’Oro del Reno)) diretto da Guy Cassiers alla Scala di Milano. Solo che la coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui doveva rappresentare i movimenti dell'anima dei personaggi, l'invisibile reso per così dire visibile. Qui, ciò che vediamo è più estetico, senza alcun legame evidente con ciò che viene detto o fatto. Abbiamo quindi davanti a noi due spettacoli, uno fortemente coreografato in un'ambientazione non priva di un certo fascino, e l'altro, la storia del libretto, che rimane rappresentata in modo piuttosto piatto e convenzionale, almeno all'inizio : capiamo, soprattutto nel secondo atto, che questo mortificante disordine si riferisce anche (un po' come per Cherkaoui e Cassiers) alla situazione dei tre personaggi principali, prigionieri dei loro destini, inestricabili ed esplosi.
In questo modo, il percorso visivo che ci viene proposto potrebbe essere riassunto come la storia di una nascita o di una rinascita : dal caos iniziale nasce la luce e la vita, e soprattutto il senso. Che senso ha per Carlo, il re di Svezia, voler rompere una coppia innamorata, con un figlio, a costo di sacrificare sua figlia, il suo miglior generale e il suo erede ?
Poda ci fa vedere che le civiltà muoiono a causa delle guerre e delle rovine che le seppelliscono, e che la storia non smette mai di ripetersi e di imporsi a noi : passiamo continuamente dalla vetta alla rovina, dallo stato più alto della civiltà a quello delle barbarie, dall'arte al cimitero dele arti.
Nel secondo atto le cose diventano più chiare quando i personaggi si muovono tra grandi vetrine mobili che ospitano pezzi di una statua in apparente disordine : capiamo subito che questo disordine è una metafora della situazione della coppia e del dramma frammentato, ma a poco a poco le cose vanno al loro posto e il (lieto) fine vede la statua ricostituita, quella di una coppia abbracciata : l'arte si unisce alla storia e celebra, come spesso, gli amanti abbracciati. Ma che ne è del bambino in questa celebrazione ? L'arte celebra gli amanti, ma raramente la loro prole, se non nelle visioni della Sacra Famiglia. Allora il bambino raggiunge il nonno (Carlo), che lo abbraccia e lo soffoca così forte che il bambino crolla…
Il tutto è abbastanza bello da vedere, ma il lato negativo è che tutto è piuttosto ripetitivo e scontato assai, e i cantanti non sono attori esperti di teatro che ci affascinerebbero con la loro recitazione. E così, a parte le loro performance vocali, che come vedremo sono notevoli, non vanno oltre i gesti convenzionali del cantante tradizionale – Stefano Poda non era interessato a dirigere gli attori qui, che aveva già il suo bel da fare con il resto, il movimento coreografico e il movimento del coro.
Ma lo scopo principale della serata era ovviamente quello di scoprire questo puzzle musicale e il modo in cui Rossini aveva offerto al pubblico veneziano la sua nuova opera. Così, per Poda, la ricostruzione finale della statua è stata anche una metafora del lavoro di Rossini, che ha preso diverse opere disparate e ha creato una vera e propria opera. Dai molteplice è nato l'unico.
Gli aspetti musicali
In un certo senso, la compagnia di canto rappresentava il passato, il presente e il futuro di ciò che il canto rossiniano poteva essere, ed era notevole per il suo impegno e la sua omogeneità.
In un cast ridotto (cinque ruoli), sono presenti essenzialmente i tre protagonisti (Re Carlo, Eduardo e Cristina) e i due ruoli di supporto, Giacomo, il Principe di Scozia, il promesso, e Atlei, l'amico di Eduardo.
Il basso russo Grigory Shkarupa ha un bel timbro, una linea sottile e una proiezione invidiabile ; la sua voce è ampia e promettente.
È un nome da ricordare, così come il tenore Matteo Roma, al quale viene affidata la difficile aria di Atlei (scritta da Pavesi, non da Rossini), nella quale dimostra un timbro luminoso, una bella estensione e una risposta molto controllata alle esigenze belcantistiche di un'aria che richiede anche una certa forza. Senza dubbio supera la prova.
L'altro tenore è Enea Scala, la cui voce è così particolare per la sua estensione che pensavamo fosse destinata a ruoli tenorili acrobatici (ricordiamo la sua performance a Gand nell'Armida di Rossini diretta da Alberto Zedda, dove ha cantato un incredibile Rinaldo nel 2015); la sua voce è diventata più scura, meno luminosa, più espressiva anche. Riesce a ritrarre un personaggio piuttosto nevrotico, teso, combattuto tra le ragioni di Stato (allearsi con la Scozia) e il suo amore filiale. La sua interpretazione è particolarmente convincente, soprattutto nell'aria D'esempio alle alme infide e in tutta la grande scena che segue (che è quella di Ermione trasposta) alla conclusione del primo atto. Si può non apprezzare il particolare colore della voce, ma Enea Scala (che ha trionfato a Pesaro l'anno scorso in Otello) riesce a superare una parte che richiede un'estensione impressionante dal registro grave a quello acuto, senza alcun difetto tecnico, controllando efficacemente le agilità e la coloratura, e rimanendo sempre molto espressivo, impegnandosi molto nel colore vocale del personaggio e mostrando anche una voce che potrebbe diventare un altro "baritenore" per questo repertorio così particolare. Ha ottenuto un meritato trionfo.
Una nuova arrivata a Pesaro e nel repertorio rossiniano, Anastasia Bartoli "figlia d'arte" (è figlia di Cecilia Gasdia, eterna rossiniana). Visti i ruoli che ha interpretato, da Abigaille a Elvira in Ernani o Amelia in Simon Boccanegra, si potrebbe pensare che questo soprano lirico-spinto faccia solo un'incursione in Rossini.
La sua padronanza tecnica è impressionante, in particolare nella sua impeccabile agilità, e la sua espressività è esaltata da un vero senso del dramma. Forse gli acuti molto potenti potrebbero essere controllati meglio, poiché a un certo punto diventano un po' metallici o sgradevoli. Resta il fatto che la performance complessiva è impressionante. Con un po' più di attenzione al registro acuto, che merita più controllo e meno volume, non c'è dubbio che potrebbe essere il soprano ideale per alcuni dei grandi ruoli rossiniani, perché in quanto ad agilità non ha nulla da invidiare agli altri.
Infine, il glorioso passato del Festival è stato rappresentato stasera da Daniela Barcellona, la cui prima apparizione a Pesaro risale al 1996 e l'ultima al 2011, né Adelaide di Borgogna, dove ha cantato Ottone. Nonostante qualche delusione in certi ruoli negli ultimi anni, qui si presenta come una stilista impeccabile, una rossiniana “D.O.C” , con gravi abissali, perfettamente timbrati e omogenei, agilità impeccabili, acuti sicuri anche se è proprio in questo registro che forse mostra qualche piccolo difetto, comprensibile dopo una lunga carriera di circa trent'anni in questo repertorio impietoso. Ciò che colpisce è il fraseggio impeccabile, la dizione esemplare, il gioco di colori di una voce che rimane affascinante. Ascoltarla è una lezione di canto rossiniano. Tornando a Pesaro in un'opera dopo dodici anni di assenza, ha trionfato, e meritatamente.
Ancora una volta il coro del Teatro Ventidio Basso diretto da Giovanni Farina non è apparso al massimo della forma, ma la prestazione, richiesta anche dalla messa in scena, potrebbe averne condizionato la potenza e l'espressività. Resta il fatto che con un'orchestra di così alto livello come quella della RAI, sarebbe comunque necessario pensare a un coro che, come quello di Praga in passato, rispondesse ai requisiti che qui sono evidentemente lontani dall'essere soddisfatti.
Anzi, è forse dalla buca che arriva il vero colpo di scena : Jader Bignamini, alla guida dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI (con il notevole Giorgio Zappa al pianoforte e Jacopo Muratori al violoncello per un continuo fluido e sempre efficace) è davvero all'altezza della sfida e riesce a dare di questa musica una visione al tempo stesso energica e omogenea, unendo alla dinamica delle parti eroiche un lato lirico e sottile che non ci saremmo aspettati. Ha cercato di riflettere tutti i colori possibili, con un'orchestra splendidamente trasparente che ha reso giustizia all'orchestrazione rossiniana, senza mai dare troppo volume, nonostante i momenti in cui i ritmi militari erano sostenuti da strumenti specifici come il cappello cinese o il tamburlan, un tipo di tamburo militare che era usato quasi solo al Teatro San Benedetto. Esalta la variazione timbrica, crea stacchi dinamici con incredibile eleganza, conferisce all'orchestra un ruolo di primo piano, pur sostenendo costantemente il palcoscenico senza mai prendere il sopravvento : si sente sempre la preoccupazione di un lavoro d'insieme, di far conoscere questa partitura ultracompleta in tutti i suoi dettagli (anche con musiche che non sono di Rossini). A questo proposito, l'ouverture (la Sinfonia), scritta da Rossini negli ultimi istanti prima della prima, è notevole, con i suoi echi romantici, i colori cupi, quasi beethoveniani, e le sonorità marziali, e Jader Bignamini stabilisce subito una tensione mista a un innegabile lirismo (flauto, violini), un senso del ritmo e della dinamica, soprattutto nel famoso “crescendo rossiniano”, che fanno di questo momento un autentico pezzo di bravura, una meravigliosa captatio benevolentiae che fa subito capire che questa musica non solo vale la pena di essere difesa, ma di essere riascoltata, perché non merita l'oblio in cui è caduta.