I tagli
Cominciamo con la questione assillante delle versioni e delle scelte, dei tagli e dei rimpianti. Per ragioni di concentrazione drammaturgica e per la lunghezza della rappresentazione (quasi 4 ore), il direttore d'orchestra e il regista decisero di tagliare il balletto (che è il meno peggio), ma soprattutto il coro iniziale dei boscaioli e il famoso lacrymosa che segue la morte di Posa, uno dei momenti più intensi e belli della partitura, proprio quello che alcuni direttori (Maazel a Salisburgo) decisero di aggiungere anche alla versione in quattro atti in italiano. Si può solo rimpiangere amaramente che i due momenti più originali dell'opera siano stati tagliati, cosa che in un certo senso segna la versione francese – si dovrebbe evitare di usare la parola "originale" perché la realtà e la portata della versione originale sono ancora oggi discusse.
Invece, altri due momenti sono dati questa volta nell'edizione più antica di Verdi, quasi mai ascoltati, la prima parte del duetto Posa-Filippo II nell’atto secondo, e la ribellione dell’atto quarto (che dovrebbe seguire il lacrymosa…), che danno da ascoltare musiche rare, quasi mai sentite in teatro.
Nell'impossibile ricostruzione del mosaico del Don Carlos di Verdi, si è scelto di profilare lo spettacolo sulla versione in cinque atti in italiano nota come versione di Modena (1886) per ragioni drammaturgiche, che è effettivamente una soluzione ragionevole e coerente (se non del tutto soddisfacente) perché integra l'atto di Fontainebleau.
Abbiamo dedicato un dossier su questo sito alla questione di Don Carlos, alla quale non ci sottrarremo mai. Poiché i tagli effettuati da Verdi alla prima di Parigi non erano tutti dettati dalla musica, ma a volte dagli orari degli omnibus, sarà sempre discutibile se sia la prova generale del 1867 o la prima a dover essere presa in considerazione, o le decisioni successive (o anche quelle precedenti, come la versione originale prevista all'inizio delle prove di Parigi). Facciamo il meglio e diciamo che ogni teatro ci riserva una sorpresa : un Don Carlos unico ogni volta. Ma soprattutto, non crediamo mai alle dichiarazioni dei teatri che ti parlano di una "versione completa" o più completa della completa, perché questo assomiglia troppo alla pubblicità per il detersivo che lava più bianco del bianco. Così, anche se personalmente rimpiango profondamente l'esclusione del coro dei boscaioli e del lacrymosa, ammetteremo con un sorriso consapevole e leggermente ironico che questa è la "versione di Basilea".
La produzione
Il Theater Basel, allora diretto da Georges Delnon – ora ad Amburgo – aveva già offerto nel 2006 la versione francese del Don Carlos, che aveva affidato a Calixto Bieito. Questa produzione, una delle più terribili dell'opera e una delle più incisive di Bieito, presentava Carlos come un apprendista terrorista : eravamo ancora vicini agli attentati alla stazione Atocha di Madrid (2004) ed Elisabeth nel quinto atto attaccava una cintura esplosiva al suo amato. La messa in scena sottolineava anche l'ambiguità della sua relazione con Posa nel loro duetto iniziale, con una crudezza che sarebbe forse insopportabile oggi… Questa provocante messa in scena, che purtroppo non è mai stata ripetuta, costituisce per me uno dei momenti più potenti della mia carriera di spettatore.
Georges Delnon ha lasciato la sua impronta sull'identità di questo teatro, soprattutto nel chiamare registi innovativi (Bieito, ma anche Simon Stone, che ha contribuito a lanciare in Europa offrendogli una residenza artistica), e come spesso accade dopo periodi forti, la successione è difficile. Non è facile qualificare l'attuale linea di Benedikt von Peter perché è in carica da poco tempo, ma è senza dubbio molto più saggia. Il Teatro di Basilea aveva un posto speciale, più contemporaneo, quasi più sperimentale tra i grandi teatri d'opera in Svizzera, molto diverso da Zurigo o Ginevra. Rimane un'istituzione di alta qualità, come dimostra la produzione di cui ci occupiamo oggi, ma sta gradualmente cambiando il suo colore. Si spera solo che non si addormenti troppo in una routine di lusso.
Affidando l’allestimento a Vincent Huguet, Benedikt von Peter, che è intendente solo dalla scorsa stagione (e che è egli stesso un regista) dà un segnale : andare in una direzione totalmente opposta a quella di Bieito. Alla crudezza della visione di Bieito si oppone la visione più pacata e onirica di Vincent Huguet, che ha portato con sé il leggendario scenografo Richard Peduzzi, lo scenografo di tutte le produzioni di Patrice Chéreau, in particolare il Ring di Bayreuth, Lulu ed Elektra (tutte due produzioni viste alla Scala), quest’ultima dove Huguet era assistente e che ha seguito in tutte le sue riprese dopo la morte del grande regista nel 2013. Infatti, le scenografie di Peduzzi e le luci piuttosto scure di Irene Selka danno il colore complessivo a una produzione particolarmente tesa e sono imponenti senza essere pero così seducenti. Meno appariscenti sono forse i costumi più tradizionali di Camille Assaf.
È noto che la maggior parte delle produzioni di Don Carlos, in riferimento all'Escorial e all'etichetta spagnola, hanno scenografie abbastanza spoglie e costumi spesso neri o grigi. Si sa anche che Carlos ed Elisabeth morirono nel 1568, e che non avrebbero potuto conoscere (se non su una pianta-progetto…) l'Escorial completato nel 1584 ; ma non importa, l’Escorial ha fatto sognare alcuni registi. Va semplicemente sottolineato che Verdi contrappone la scintillante e colorata corte francese, come si vede nell'atto di Fontainebleau, alla corte spagnola, dove i piaceri non facevano realmente parte della vita quotidiana.
In effetti, l'atto di Fontainebleau è forse il più riuscito in termini di atmosfera : è un'invenzione di Verdi (non esiste nel dramma di Schiller), probabilmente presa dal dramma di Eugène Cormon Philippe II, Roi d'Espagne (1846), che inizia nella foresta di Saint Germain. La natura (e in particolare la foresta) si oppone ovviamente al resto dell'opera, che si svolge principalmente al chiuso (tranne l'auto-da-fé, che non è esattamente un luogo di gioia e di amore) ed è quindi piuttosto opprimente : c'è qualcosa qui che vuole collocare l'incontro in uno spazio fuori mondo, che favorisce il sogno. Tuttavia – e anche questo è un fatto che i tagli cancellano – l'opera si apriva durante la prova generale su un quadro molto buio, con questo coro di bosciaoli, tagliato qui, che cantavano la sofferenza del popolo, aspettando la fine delle guerre. Una delle ragioni del matrimonio con Filippo II è proprio quella di accelerare la fine della guerra, e se Elisabetta accetta il diktat di questa unione è per ragioni di stato e per alleviare le sofferenze della popolazione. C'è dunque una trama politica di cui l'atto di Fontainebleau da solo (senza i boscaioli) non rende conto e che suona come un colpo del destino che toglie bruscamente Elisabetta al figlio per darla al padre, come un package-regalo, e quindi sancisce solo la brutale rottura di un sogno adolescenziale. A seconda che si consideri il Grand-Opera in relazione alla storia o ai destini individuali, le cose cambiano radicalmente.
Ma d'altra parte, l'atto di Fontainebleau fissa i personaggi : un'Elisabeth che si sacrifica per il bene dello Stato e – soprattutto in questa produzione – un Don Carlos che la rifiuta ferocemente e cerca di interferire violentemente. Da una parte c'è una donna matura e dall'altra un uomo che non crescerà mai. Tutto ciò rende l'idea di Huguet interessante qui.
Resta il fatto che l'atto di Fontainebleau, oltre ad essere uno dei pezzi musicali più belli della partitura, è essenziale per l'equilibrio dell'opera, e in questo senso la versione in quattro atti lascia fuori una parte effettiva dello sviluppo dei personaggi.
Nella produzione di Vincent Huguet, l'ambientazione di Fontainebleau si ritrova nel quinto atto, come se si tornasse all'inizio, come se il libro si chiudesse, come se le due persone che si sono appena incrociate vivessero simmetricamente il momento del risveglio e il momento dell'addio senza che il loro amore sia diminuito, e che questo amore, questo incontro tra i due esseri non poteva che avvenire nella cornice vagamente (molto vagamente) bucolica di Fontainebleau, una foresta favorevole ai giochi amorosi e clandestini che la messa in scena ci permette di intravedere – sogno o realtà -. Ed è qui che forse Peduzzi riesce meglio a creare un'atmosfera, oscura e strana, dove si intuisce una vita, una specie di palazzo in fondo, una costruzione che dimentichiamo man mano che ci addentriamo nella boscaglia.
Per il resto, il lavoro di Vincent Huguet si concentra su Philippe II, visto come un cattivo così caricaturale che si ha l'impressione di un cattivo dei cartoni animati, è violento, dittatoriale : basta vedere come nel primo atto, ancora prima che Elisabeth dica sì alla proposta di matrimonio, lui le prende violentemente la mano : bisogna ricordare che nell'opera di Verdi Philippe II non è presente a Fontainebleau ; questa è una licenza della regia per materializzare il "rapimento" di cui la giovane principessa è in un certo senso la vittima.
Questa violenza mostrata dal personaggio che butta giù, spinge, brutalizza la gente non è esattamente in linea con un profilo più distanziato e più interiorizzato (come sottolinea il suo monologo elle ne m'aime pas) e anche più raffinato, come sottolinea la scena con Posa, che denota semplicemente un'immensa solitudine. Nella visione di Huguet, non è lontano dall'essere un essere bruto piuttosto sanguinario, un dittatore per diritto divino.
Questa idea di diritto divino è ben sostenuta nella scena dell'auto-da-fé, dalla discesa della coppia reale dall’alto, come se raffigurasse quelle statue barocche cariche che si vedono nelle processioni spagnole : sappiamo che il Cielo è fortemente presente nella scena ("voce del cielo" che chiude la scena per esempio).
Un'altra licenza registica che accentua l'atmosfera di orrore è la contessa di Aremberg, una figura solitamente muta, che è Thibault nella scena della canzone del velo di Eboli, diventando una figura plurale, quella di una dama di corte vittima del re, e poi un'eretica mandata al rogo (è chiusa in una gabbia nell'auto-da-fé).
Huguet concentra così diverse idee su un solo personaggio. Un altro segno della messa in scena è che l'intimità tra Posa e il re è visibile al punto che Posa è seduto in un angolo al momento del monologo elle ne m’aime pas, mentre Eboli è seduta sul letto, e Philippe II inizia il suo monologo sdraiato, una scena di intimità a tre che non ci aspettiamo, e che non è nemmeno una cattiva idea, nel senso che giustificherà tanto più la rabbia di Philippe quando saprà del tradimento di Posa. Insomma, ci sono alcuni spunti interessanti, soprattutto sugli individui e le loro relazioni : Huguet non vuole un lontano affresco storico, vuole una storia di persone lacerate, frustrate, insoddisfatte. Solo Eboli ed Elisabetta sono viste in modo piuttosto usuale e tradizionale.
Si è detto che Philippe II è trattato come una caricatura ; Posa e Carlos, invece, sono trattati come giovani "romantici" (Posa in particolare è forse il personaggio meglio disegnato), e il profilo di Carlos è quasi adolescenziale, soprattutto nell'atto di Fontainebleau.
Gli spazi disegnati da Richard Peduzzi vogliono essere evocativi, spazi di confinamento, di un colore rosso bruno, molto astratto (l'autodafé), il tutto soffocante, buio e poco illuminato, non rimarranno nelle grandi opere del maestro scenografo, che è stato una volta più ispirato.
L’esito musicale
L'insieme della compagnia combina cantanti piuttosto giovani con altri più maturi o più affermati : la qualità complessiva è particolarmente onorevole, in un'opera che non sopporta alcuna mediocrità : è difficile da distribuire – soprattutto la versione francese – e molti teatri non sono riusciti a farlo. Diciamo che nel complesso siamo di fronte a un cast equilibrato, compresi i ruoli minori, Natalia Kukhar come contessa di Aremberg e non solo, la voce del cielo della giovane ucraina Inna Fedorii ben proiettata e molto controllata, e il monaco di Andrew Murphy, un po' chiaro, ma abbastanza sonoro. Così come Lerme (Ronan Caillet) e i deputati fiamminghi (Jasin Rammal-Rykała, Kyu Choi, Félix Le-Gloahec, Andrei Maksimov, Yurii Strakhov, Jiacheng Tan).
Una bella performance di Vazgen Gazaryan come Grande Inquisitore, che si afferma con autorità, la voce è controllata in tutto il registro, e il timbro attraente : il colore vocale è ben differenziato da quello di Philippe II e ottiene tutto sommato un vero successo. Di fronte a lui, Philippe II, interpretato dal canadese Nathan Berg, ha una voce più chiara (è originariamente un basso-baritono), il timbro non è particolarmente eccezionale, ma si impone l'autorità dell'interpretazione, a cui la messa in scena richiede brutalità e violenza : la voce è controllata, il canto è attento ai colori, e la potenza c’è. Inoltre, mostra una vera presenza scenica, soprattutto nella sua aria elle ne m'aime pas dove afferma una solitudine che la messa in scena sfiora senza approfondire, anche se non è sempre un Philippe II interiore come ci piace. Detto questo, è indiscutibilmente all'altezza del ruolo.
La sua amante, che si espone sul bordo del letto durante il monologo e ride fragorosamente alla fine del suo monologo (questo è un gesto di regia inutile e irrilevante), è Kristina Stanek, una Eboli davvero eccezionale che assume il ruolo per la prima volta in questa occasione. Una volta nell’ensemble di Basilea, è ora nella troupe di Amburgo ed è giusto dire che ha dominato vocalmente la compagnia con una voce potente, acuti trionfali nel Don fatal, un po' meno nell'aria del velo, che richiede più tecnica, maggiore flessibilità vocale, segna qualche imprecisione nelle agilità e nei trilli (ma abbiamo conosciuto grandi glorie del canto con molte più difficoltà in quest'aria – Waltraud Meier per esempio). Resta il fatto che in termini di volume, estensione, con bassi sontuosi, e con un'energia notevole e un'impegno scenico stupendo, Kristina Stanek è un mezzosoprano da seguire attentamente.
L'altro intimo del re, e altrettanto intimo di Carlos, è Rodrigue, interpretato qui da John Chest, che offre anche una vera incarnazione di Posa. Abbiamo sentito voci più impressionanti (un Tézier, certo, ma non solo), ma nel complesso compone un personaggio complesso, combattuto tra la sua lealtà a Philippe e la sua amicizia per Carlos, con un profilo giovanile, indomito senza essere in inutile rivolta come lo è Carlos. Riesce a dare al suo personaggio tutte queste sfaccettature, con un canto elegante, un francese molto chiaro (cosa che non è sempre il caso dei suoi colleghi), un bel fraseggio e un vero controllo vocale. Un bel personaggio che ha anche avuto un grande successo, ben meritato.
L'Elisabeth di Yolanda Aulanet ha una voce potente, con una base ampia, una vera rotondità e un timbro carnoso. Forse Elisabeth è un po' pesante per lei perché il suo quinto atto, e in particolare la sua aria Toi qui sus le néant des grandeurs de ce monde (Tu che conosci il nulla della grandezza di questo mondo= Tu che le vanità…), non è così densa come dovrebbe essere, e perché la sua voce sembra un po' stanca. Ma per il resto, è una giovane Elisabeth, abbastanza fresca e allo stesso tempo abbastanza matura. La produzione cerca di mostrare Elizabeth e Don Carlos come una giovane coppia, cercando di differenziare significativamente i due personaggi, nonostante i sentimenti che li legano, lei riesce ad essere questa Elizabeth che è sia innamorata all'inizio e poi, non indifferente ma assente, come un “esule dall'interno”. Non c'è dubbio che la qualità della voce fa sperare in una bella carriera.
Il Don Carlos di Joachim Bäckström, un cantante scandinavo abituato a ruoli pesanti (Siegmund per esempio) è forse il meno convincente, anche se non disonorevole. Sappiamo quanto sia difficile il ruolo, soprattutto in francese, che richiede sia un grande lirismo che un certo eroismo, mostrando una gioventù feroce e spettinata, ma allo stesso tempo irresoluta. Un uomo immaturo che pensa di essere un eroe e ha bisogno di farlo capire con la sua voce.
Il personaggio c'è, la figura è giovanile, il suo primo atto è scenicamente molto convincente. Ma la tecnica vocale mostrata fin dall'inizio non è adatta al ruolo. Non è una questione di potenza o di acuti, non è una questione di lingua perché il suo francese è chiaro, è una questione di emissione, di timbro, di stile di canto. Non colora mai, canta forzando come se fosse un atto della Walküre o persino Siegfried con un timbro nasale. Non sono sicuro che si sforzi tanto quanto dà l'impressione di farlo, ma questo modo di cantare tutto insieme non si adatta al ruolo, alla sua fragilità, alla sua sottigliezza. Manca un canto interpretato, mancano colori : se è dentro il personaggio che interpreta con impegno, non è dentro il canto che lo accompagna. Errore di strada.
Ma non facciamo i pignoli, un Don Carlos (nella versione francese) è così difficile da fare che abbiamo qui un cast più che onorevole, molto impegnato, e senza veri incidenti. Tutti difendono la partitura, all'unisono con le forze del teatro, che si sono dimostrate all'altezza della sfida, che si tratti del grande coro (con il coro addizionale) del Theater Basel diretto da Michael Clark, potente, chiaro (bel fraseggio), in particolare nel terzo atto, o dell'orchestra, la Sinfonieorchester Basel, che in questa seconda rappresentazione non ha davvero avuto punti deboli, La chiara direzione di Michele Spotti ha fatto emergere il meglio delle sezioni dell'orchestra (corni, fiati) e ricorderemo l'eccezionale accompagnamento del violoncello solista nell'aria Elle ne m'aime pas di Philippe II, che ha saputo intrecciarsi perfettamente con la voce, in modo singolare e notevole.
Ma ovviamente tutto questo è anche il risultato del lavoro svolto da Michele Spotti a capo di tutte le forze del teatro, dell'intelligenza dell'approccio e della grande padronanza complessiva di questa monumentale partitura.
C'è una sfida incredibile per il direttore d'orchestra di 28 o 29 anni, che ha diretto molto Verdi in estratti, ma quasi mai un'opera completa, tranne recentemente Traviata a Palermo nel luglio 2021. Ed eccolo improvvisamente lanciato in una delle partiture più delicate del compositore italiano. Senza dubbio il Don Carlos (o Don Carlo) ispira direttori d'orchestra dotati, perché se non mi sbaglio, il Don Carlo diretto al Covent Garden e alla Scala da Claudio Abbado all'età di 35 anni nel 1968 fu il suo primo Verdi.
La direzione di Michele Spotti manca forse di un po' di interiorità in alcuni dei momenti più trattenuti, con un tempo piuttosto sostenuto, ma questa è l'unica (lievissima) riserva su un ensemble assolutamente notevole e particolarmente magistrale. Tecnicamente, tutti i livelli del testo musicale e tutte le sezioni possono essere ascoltati. Questo lavoro è molto maturo, molto leggibile e molto rigoroso, e allo stesso tempo rende giustizia alla partitura perfettamente e sotto ogni aspetto, con un senso del teatro che va sottolineato : ha occhio per tutto e respira con il palcoscenico. Abbiamo spesso sottolineato le qualità del giovane direttore, in particolare nel suo Rossini (il suo Bruschino a Pesaro), ma al di là di questa qualità, che trascina e guida un'orchestra molto ben preparata, ciò che affascina è il lavoro su una tavolozza di colori molto ampia, le variazioni di atmosfera, l'alternanza di lirismo ed epica. Ho già detto che l'accompagnamento al violoncello dell'aria di Philippe è veramente eccezionale, grazie al solista naturalmente, ma anche al lavoro di dettaglio del direttore, al suo occhio attento al testo (conosce bene il francese, avendo studiato a Ginevra) e soprattutto, a volte, alle parole singolari. Un pezzo di merletto piuttosto sorprendente.
Non so se un teatro italiano gli avrebbe affidato un Don Carlos in francese, ma Basilea gli ha dato fiducia, e con quale risultato ! È il grande architetto della serata, e il suo lavoro vale il viaggio.
Per lo spettatore che vorrebbe vedere questo spettacolo bisogna sottolineare che dura fino al prossimo maggio per altre sette rappresentazioni. Chi vuole vederlo ha tutte le possibilità per farlo : sul versante francese, i potenziali fan dell'Alsazia e della Franche-Comté (questi ultimi hanno pochi teatri d'opera tra Belfort e Digione, e devono ripiegarsi sulla Svizzera (Losanna, Bienne o Basilea), e Basilea è a sole tre ore di TGV da Parigi, mentre i fan svizzeri (e i lettori di Wanderer) sanno che Basilea è a sole 2,5 ore da Ginevra, mentre gli italiani possono raggiungere Basilea quasi in linea diretta da Milano. È uno spettacolo di grande interesse per tutti gli amanti dell'opera (molto più per la musica che per la messa in scena, che non corrisponde alla qualità musicale offerta). In ogni caso, non si deve perdere un Don Carlos in francese, così bello, così raro.