Franz Lehár (1870–1948)
Die lustige Witwe (La Vedova allegra) (1905)
Operetta in tre atti
Libretto di Victor Leon e Leo Stein da L'attaché d'Ambassade di Henri Meilhac (1874)

Direttore : Constantin Trinks
Regia : Damiano Michieletto

MAESTRO DEL CORO Roberto Gabbiani
REGISTA COLLABORATORE Eleonora Gravagnola
SCENE Paolo Fantin
COSTUMI Carla Teti                                             
LUCI Alessandro Carletti
MOVIMENTI COREOGRAFICI Chiara Vecchi

BARON MIRKO ZETA Anthony Michaels-Moore
VALENCIENNE Adriana Ferfecka
HANNA GLAWARI Nadja Mchantaf
CONTE DANILO DANILOWITSCH Paulo Szot
CAMILLE DE ROSILLON Peter Sonn
RAOUL DE SAINT-BRIOCHE Marcello Nardis
VICOMTE DE CASCADA Simon Schnorr
BOGDANOWITSCH  Timofei Baranov *
SYLVIANE Rafaela Albuquerque *
KROMOW Roberto Maietta
OLGA Irida Dragoti *
PRITSCHITSCH Andrii Ganchuk *
PRASKOWIA Sara Rocchi *
NJEGUS Karl-Heinz Macek

Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma

 

 

Roma, Teatro dell'Opera, domenica 14 aprile 2019

Ritorna al Teatro dell’Opera la celebre operetta di Lehár, La vedova allegra, in un’edizione coprodotta con La Fenice di Venezia. Il progetto scenico è di Damiano Michieletto, che trasporta la vicenda dalla Belle Époque agli anni cinquanta del Novecento, facendo perno nella sede di una banca, trattandosi di un plot che ruota attorno a un ingente capitale. Bravi e ben rodati gli interpreti vocali. Tuttavia la concertazione appare troppo controllata e contegnosa, e manca dello scatto necessario a trasmettere lo spirito stesso della partitura

Roberto Maietta (Kromow), Marcello Nardis (St. Brioche), Nadja Mchantaf (Hanna Glawari),Simon Schnorr (Cascada)

Carino è carino, lo spettacolo. Anche se non cattura come dovrebbe. A Roma, il Teatro dell’Opera ha allestito Die lustige Witwe (La vedova allegra) di Franz Lehár (1870–1948) su testo originale in tedesco, in una produzione condivisa con La Fenice di Venezia, dov’era andata in scena lo scorso anno. Nel libretto, la vicenda ha luogo nell’ambasciata parigina del fantomatico regno del Pontevedro. Regno che naviga in cattive acque. L’ambasciatore, il barone Mirko Zeta, ha indetto una festa finalizzata a individuare un candidato pontevedrino che corteggi e sposi la connazionale Hanna Glawari, ricchissima vedova, alla quale il defunto marito ha lasciato un patrimonio immenso. Ciò perché, se per caso la vedova sposasse invece un forestiero, ed esportasse all’estero tale patrimonio, lo staterello pontevedrino rischierebbe il collasso finanziario. La trama procede nel mondo scintillante e fastoso della Belle Époque, tra varie schermaglie amorose, innamoramenti leciti e non, valzer e altre danze, champagne, il famoso locale Chez Maxim’s. Ovvio, dopo molte ansie, il lieto fine che salverà il bilancio del Pontevedro.

Nadja Mchantaf-(Hanna-Glawari) in alto a sinistra Paulo Szot(Danilo)

L’allestimento è centrato sulla regia di Damiano Michieletto, artefice di progetti creativi e imprevedibili. Stavolta, invece, l’artista veneziano non propone un progetto temerario, sorprendendo chi da lui si aspettava una messa in scena trasgressiva. Con Eleonora Gravagnola regista collaboratore, e con la sua équipe abituale  – Paolo Fantin per le scene, Carla Teti che firma i bei costumi, Alessandro Carletti per il disegno luci, Chiara Vecchi per i movimenti coreografici –  Michieletto ha ideato un’ambientazione che, gravitando l’argomento attorno al danaro, anziché in ambasciata è collocata nella Pontevedro Bank. Il barone Zeta ne diviene il direttore, e tutto il resto di conseguenza, cominciando dal coprotagonista Dànilo che non appare più come conte, bensì come svogliato passacarte. In una scenografia anni cinquanta, un po’ squallidotta agli occhi nostri com’è ovvio, la regia disegna vivaci movimenti collettivi, che si alternano alle danze. Alquanto spoglia, sempre in linea con la collocazione a metà Novecento, è anche la scena del secondo atto. Anziché lo sfarzo di ricchi divani, lampadari e tendaggi di casa Glawari, c’è il malinconico salone di una balera, con desolanti tavolini e sedie addossati alle pareti. E i balli in partitura sono giustamente risolti a passo di rock ’n’ roll, twist e simili. Teneramente poetico, però, è il momento del ballo di due anziani, lento e solitario. La scena del terzo atto ? Anziché il mitico ristorante Maxim’s  – nella realtà da molti anni, con la sua meravigliosa boiserie in stile art nouveau, in capo alla maison Pierre Cardin –  ecco l’anonimo ufficio di Dànilo, che, reduce da una sbornia, si addormenta allo scrivania, e sogna la festosa irruzione delle scatenate grisettes, e del loro can can. Insomma, un progetto visivo nell’insieme coerente, innovativo, molto ben realizzato e senza particolari choc. E allora, perché alla fine della prima (ma non alle repliche), insieme ai moltissimi applausi sono piovuti dei buu all’indirizzo di Michieletto e del suo team ? Perché la parte di pubblico più conservatrice e benpensante ha contestato, si può presumere, l’assenza di lustrini, sontuosità, e pompe in stile Belle Époque. Ma una messa in scena come quella di trent’anni fa, memorabile, di Mauro Bolognini sempre all’Opera, non so se reggerebbe all’evoluzione odierna del gusto. Comunque, i pochi cavernicoli che al Teatro dell’Opera hanno buato questa Vedova allegra lo fanno perché rifiutano a priori il genio di Damiano Michieletto, come si è visto da spettacoli precedenti.

Adriana Ferfecka (Valencienne) Peter Sonn (Rossillon)

Certo, qualche perplessità è legittima, soprattutto perché quest’edizione non riesce divertente e coinvolgente come si vorrebbe. Ma la risposta si trova nella direzione d’orchestra di Constantin Trinks, pur attenta e sobria. Fin troppo, vien da dire. Elegante, sì, nel soppesare equilibri, colori, finezze della partitura, e anche nel canonico rallentando sul secondo quarto del tempo di valzer. Però gli stacchi sono troppo lenti, secondo una sensibilità un tantino âgée e perfettina, che sa di perbenismo mitteleuropeo. E questa è una lacuna che pesa sull’intera esecuzione ; il primo atto, in certi momenti, è addirittura soporifero. Di sicuro non ci sono le bollicine e l’effervescenza che ci aspetteremmo. Peccato : un direttore tecnicamente bravo, ma di gusto compassato. Di orchestra e coro, quest’ultimo preparato da Roberto Gabbiani, non si può che dire benissimo : si sono tutti visibilmente divertiti.  Quanto alla compagnia di canto, irreprensibili le due protagoniste femminili, i soprani Nadja Mchantaf (Hanna Glawari) e Adriana Ferfecka (Valencienne). Vocalmente impeccabili, e anche disinvolte nel movimento. E pazienza se non posseggono quell’appeal, vocale e personale, che solo sa creare seduzione. Meglio il versante maschile, anche sotto quest’aspetto. Il baritono Paulo Szot è un Dànilo divertente, di bella e brillante vocalità, bravo nel riuscire sfaticato e cialtroncello col suo abito tabacco stazzonato, da impiegato qualunque. Perfetto il barone Zeta impersonato da Anthony Michaels-Moore, sciolto e spiritoso. Da parte sua, il tenore Peter Sonn dà bel rilievo, vocale e interpretativo, alla figura di Camille de Rossillon, mentre raffinata ed efficace appare la dimensione che Michieletto ritaglia per il cancelliere Njegus, ruolo che non ha parti vocali, ed è sempre affidato a un attore, qui Karl-Heinz Macek, che risolve molto bene. Eliminati vari passi recitati, in questa regia Njegus parla poco. Però diventa il deus ex-machina dell’ingranaggio narrativo, da lui comandato con il ventaglio brandito a mo’ di bacchetta magica, e polvere di stelle profusa in quantità. Un’idea delicata e funzionale. Ben assortito il resto del cast : nelle seconde parti i tenori Marcello Nardis, St. Brioche, e Simon Schorr, Cascada, con il baritono Roberto Maietta, Kromow. Poi tutti attinti dal Progetto “Fabbrica” del Teatro dell’Opera i bravi comprimari : il baritono Timofei Baranov, Bogdanowitsch, il mezzosoprano Rafaela Albuquerque, Sylviane, il soprano Irida Dragoti, Olga, il baritono Andrii Ganchuk, Pritschitsch, il soprano Sara Rocchi, Praskowia.

Nadja Mchantaf (Hanna Glawari) Paolo Szot (Danilo)
Avatar photo
Francesco Arturo Saponaro
Francesco Arturo Saponaro ha esercitato a lungo l’attività di docente in Storia della musica, e di direttore in Conservatorio. Da sempre mantiene un’attenta presenza nel campo del giornalismo musicale. Scrive su Amadeus, su Classic Voice, sui giornali on line Wanderer Site e Succede Oggi. Ha scritto anche per altre testate : Il Giornale della Musica, Liberal, Reporter, Syrinx, I Fiati. Ha collaborato per molti anni con la RAI per le tre reti radiofoniche, conducendo innumerevoli programmi musicali, nonché in televisione per RaiUno e TG1 in rubriche musicali.

Autres articles

LAISSER UN COMMENTAIRE

S'il vous plaît entrez votre commentaire !
S'il vous plaît entrez votre nom ici