Riprendendo un vecchio allestimento del Teatro delle Muse di Ancona firmato da Pier Luigi Pizzi, giunto in splendida forma artistica alla veneranda età di ottantanove anni, il Teatro Massimo di Palermo manda in scena l'Idomeneo di Mozart, e scommette sulla capacità della difficile opera mozartiana di far presa sul pubblico palermitano. L’operazione è sostanzialmente riuscita, grazie anche alla massiccia presenza in teatro di turisti tedeschi, stregati da un'opera andata in scena per la prima volta nel 1781 a Monaco e riproposta nell'incantevole cornice di una città che sta recuperando poco a poco i suoi capolavori : è ancora in corso, ma in via di completamento, il restauro del sontuoso Palazzo Butera. Il palazzo settecentesco bianco e ocra che distende la sua ragguardevole mole sulla marina palermitana, lasciato da anni in stato d'abbandono, è stato infatti acquisito nel 2016 dalla famiglia Valsecchi di Milano, restaurato con intelligenza e rispetto, e quindi donato alla città come spazio multifunzionale dedicato all'arte contemporanea.
Certo, la problematica drammaturgia dell'opera mozartiana pone agli interpreti di oggi difficoltà che si vanno facendo sempre più irresolubili, o almeno che si polarizzano in scelte esecutive portate tendenzialmente a escludersi una con l'altra. Bisognerebbe infatti poter decidere una volta per tutte se Idomeneo sia un'opera di pretto stampo metastasiano, con la tipica impalcatura convenzionale di tensioni incrociate destinate a veicolare affetti stereotipati ; oppure un'opera che guarda al teatro riformato di Gluck, e abbia quindi superato l'antitesi preordinata amore/dovere essendo nutrita da conflitti psicologici più succosi ; oppure ancora un'opera giovanile di un genio assolutamente irriducibile a modelli. O forse, più di tutto, una sintesi complessa di queste tre cose messe insieme. Ciò che dall'esterno appare un organismo formale le cui componenti sono perfettamente saldate, si rivela invece a uno sguardo più attento una concrezione formale instabile e continuamente pronta a scindersi nei suoi diversi registri stilistici. La sfida posta a chi mette in scena questo problematico capolavoro è infatti quella di governare i continui cambiamenti nei modelli di riferimento – che si traducono in altrettante modalità espressive –, senza lasciar percepire al pubblico che si trova davanti ora a passioni interamente convenzionali, statiche e preordinate come avviene in un'opera metastasiana, ora davanti ad accensioni drammatiche nel senso della più intensa spettacolarità gluckiana, ora di fronte a qualcosa che Gluck e Metastasio non avevano mai visto né avrebbero potuto prevedere : un teatro fatto non da conflitti padroneggiabili e agevolmente formalizzabili, ma da accensioni emotive imprevedibili, inquietanti e palpitanti di umanità come accade con Mozart.
Di fronte a un vero rebus come questo, il direttore Daniel Cohen fa quello che può. Per alimentare la drammaticità nell'ouverture forza sul rapporto tra archi da una parte, e ottoni e percussioni dall'altra, finendo per conferire a questo mirabile brano mozartiano un carattere alquanto bombastico. Anche i tempi delle arie e soprattutto dei recitativi accompagnati sono sempre troppo veloci, come se Cohen avvertisse la necessità di sostenere in qualche modo la tensione, scegliendo però il mezzo sbagliato. Il grande recitativo accompagnato di sapore gluckiano, di cui Mozart molto usa e forse anche abusa, ha una radice storica che non rimanda all'opera italiana, dove il valore della parola si limita alla sua capacità “informativa”, e può dunque essere pronunciata in fretta, ma al nobile eloquio della Tragédie lyrique, dove la parola è tornita prima di tutto per incantare e meravigliare. Questo comporterebbe un'attenzione micrologica di cantanti e direttore all'espressività minuta di ogni parola, che prima ancora di essere un “segno” dotato di un preciso potenziale di informazione, va considerata qui come un “gesto” volto ad affermare un'estetica aristocratica. Dal punto di vista esecutivo, una resa adeguata dei grandi recitativi accompagnati richiederebbe quindi una flessibilità agogica quasi sismografica e una capacità di mettere in risalto e far risplendere uno per uno i versi dell'abate Varesco, che rimandano come intonazione a Metastasio, ma come sistema di valori alla grande lezione dei tragici francesi Racine e Corneille.
In questo senso, il cast è uniformemente al di sotto della sfida. Idamante è l'inespressiva quanto precisa Aya Wakizono : non c'è un solo momento in cui non sembri cantare qualcos'altro che non ha niente a che vedere con Idomeneo. Lo stesso si deve dire di Carmela Remigio, che presta la voce a Ilia : l'aderenza del ductus al senso delle parole, la nuance psicologica, non sono mai stati il punto di forza del soprano, ma a questo si aggiunge nell’occasione una condizione non ottimale della voce per la quale tutto appare emesso senza la grazia necessaria.
Meglio fa come Elettra Eleonora Buratto, a parte qualche durezza di troppo : la sua parte è più facile delle altre perché il personaggio della figlia di Agamennone è ben risolto e orientato in maniera chiara. Idomeneo è René Barbera. Musicalmente le cose potrebbero funzionare se il suo personaggio fosse il mite e un poco inetto fidanzato di Donna Anna del Don Giovanni e non il tormentato Re di Creta dell'Idomeneo : il timbro di Barbera è infatti troppo chiaro per il ruolo, e questo toglie drammaticità al ruolo centrale dell'opera, che è insieme fomite del massimo contrasto d'affetti e catalizzatore della risoluzione finale in nome della virtù. Buona la prova di Giovanni Sala come Arbace.
Un discorso a parte va fatto per la regia di Pier Luigi Pizzi, che cura anche le scene e i costumi. La chiave generale della messa in scena è una stilizzazione elegantissima in linea con gli assunti neoclassici dell'opera. Pizzi mette così sullo sfondo due ordini di onde bianche chiaramente ispirate a quelle di Hokusai, e in primo piano costruisce un grande tempio dorico grigio che ospita l'azione. Nel mezzo tra le due grandi onde bianche, il regista piazza la nera nave di Idomeneo : una bella nave greca che viene prima malmenata dalla tempesta scatenata dall'infuriato Poseidone e poi nell'ultimo atto, rivestita d'oro, si trasforma nell'ara su cui verrà celebrato il matrimonio di Idamante e Ilia. Il punto è che con Idomeneo la stilizzazione, per quanto elegante e apprezzabile in sé, non paga. Si potrebbe infatti pensare di stilizzare con successo un dramma di sovrabbondante contenuto drammatico e incerto gusto come, poniamo, Cavalleria rusticana, inserendo la sua arroventata materia emotiva in una cornice di nitore formale che la depuri così dal Kitsch. Ma non si dovrebbe stilizzare un'opera che è già convenzionale e stilizzata di suo : si rischia di toglierle quel barlume di vita che le è rimasto. Proprio questo succede nell'allestimento palermitano. Il desiderio di compostezza espressiva si trasforma qui in un'intenzione penitenziale che si estende dalle scene, ai gesti, ai costumi. Il Principe Idamante, in grigio scuro come tutti gli altri, sembra indossare un sacco condominiale della spazzatura indifferenziata, e la corte di Idomeneo sembra un'accolta di topi che incongruamente si muovono come un coro greco. Il solo personaggio non in grigio è Elettra, che con il viola intenso del suo costume regala alla messa in scena una macchia di colore. Ma anche questa è una scelta curiosa : sembrerebbe così che Elettra insista su un piano assiologico diverso da quello degli altri, e abbia nella trama un'importanza centrale che invece non ha. Non ben governati risultano i movimenti scenici : si passa infatti da una gestualità astratta da stampa neoclassica nelle scene di disperazione di Ilia e Elettra, alle incredibili pacche sulle spalle e baci alla sposa che i nobili invitati danno a Idomeneo e Ilia – Re e Regina ! -, come se tutti, postato l'indispensabile servizio fotografico su Facebook, fossero impazienti di ritrovarsi di lì a poco al ristorante per l'aperitif renforcé.