Nel momento in cui si mette a scrivere La rondine, che debutta nel marzo del 1917 con la prestigiosa direzione di Gino Marinuzzi, Puccini si propone di scrivere una musica “abbastanza graziosa” e “leggera”, “chiara come l'acqua di primavera” e tale da creare un'opera “sentimentale e un poco comica, simpatica, chiara, cantabile, con piccoli valzer e con note allegre e attraenti ; una specie di reazione alla musica ostica moderna”. All'altezza della Rondine il compositore di Torre del Lago ha già scritto alcuni dei capolavori che non usciranno più dai cartelloni operistici di tutto il mondo – La Bohème, Tosca, Manon Lescaut -, e dovrebbe conoscere per istinto e per mestiere la legge che regola la perequazione tra intenzioni espressive e mezzi tecnici per attuarle, ma qualcosa nella Rondine va storto. Non una delle intenzioni dichiarate dal compositore si traduce effettivamente nella pagina, che pare di continuo incresparsi, irrigidirsi, riluttare alla forza formatrice che non riesce a far presa su una materia indocile, producendo una plumbea pesantezza dove si cercava l'agile grazia, un improbabile dramma del sentimento dove si voleva ottenere un brillante gioco di società. Non che non vi si riconosca la mano del Maestro, ma La rondine pare fatta di pezzi di ricambio delle altre opere pucciniane : quelle la cui superficie si chiude sul formato senza problemi, quelle che si offrono come un artefatto compatto e solidale in tutte le sue componenti. Il fatto è che l'originario progetto di Puccini di scrivere un'operetta resta come un calco vuoto e abbandonato ma tale da preformare la materia anche quando le intenzioni del compositore cambiano, orientando la composizione verso un'opera di profilo tradizionale. Così, se Puccini si voleva tenere lontano dall'aborrito “modernismo”, finisce in realtà per comporre un'opera prettamente “moderna”, cioè scissa nelle proprie componenti, frammentaria, irrisolta. Pur profondendo una gran messe di energie creative sotto forma di archi interrotti di melodie, che vengono risucchiate subito indietro non appena tentano di staccarsi dallo sfondo, Puccini non riesce in tutta l'opera a creare un contesto di senso omogeneo : i riferimenti ai modelli formali si alternano come impazziti, il melodizzare sontuoso è continuamente frantumato e insidiato da intenzioni “narrative” che costituiscono la maggior preoccupazione del compositore e il connotato musicale dominante.
C'è poi anche l'aspetto della discrasia tra i singoli atti. Il primo atto parrebbe tratto dal proustiano Du côté des Guermantes, con l'interminabile descrizione di una festa dove l'aristocrazia vera e quella intellettuale si incrociano con il demi-monde, e dove le conversazioni si fanno e si disfano tessendo sotto gli occhi del lettore una tela tanto scintillante quanto vacua. Il secondo atto è un improbabile, lungo duetto d'amore talmente caricaturale (per mancanza di forze avverse) da chiamare il rovesciamento che si produrrà nell'atto seguente ; nel terzo atto Puccini potrebbe ritrovare finalmente il prediletto registro sadico, ma ormai è troppo tardi. La rondine non diventa quello che avrebbe potuto essere, cioè una Butterfly declinata al maschile, dove un lui perdutamente innamorato viene abbandonato da una lei orientata ad ascoltare, con avvedutezza da donna vissuta, le ragioni dell'utile : l'opera resta irrisolta tra una mancata tragedia sentimentale – la vera specialità del compositore e ciò cui inconsapevolmente tendono le sue energie creative – e un più prosaico lieto fine in cui la protagonista sacrifica per le spicce il suo grande amore sull'altare di un più attraente ménage da ricca cortigiana.
Molto difficile, in questo senso, trovare un possibile equilibrio esecutivo e un principio unificatore a un'opera con una drammaturgia problematica. Il Teatro Bellini di Catania, che apre la stagione 2018 con questo Puccini, si rivolge a un direttore di grande esperienza come Gianluigi Gelmetti, che si incarica nell'occasione anche della regia. Significativamente, le scelte direttoriali e quelle relative alla messa in scena paiono andare nella stessa direzione, che è quella di sottolineare piuttosto che occultare il carattere frammentario e eteroclito della partitura. Il lavoro di concertazione è ben fatto, l'orchestra del Bellini appare in buona forma ma il primo atto, malgrado le scene di sobria eleganza, appare come un affastellamento di motivi incoerenti e incapaci di legarsi fra loro da un nesso consequenziale. Il vero appuntamento dell'opera con se stessa è nel terzo atto, dove si assiste all'inopinato rovesciamento di valori che intronizza il denaro e lascia che l'amore, per come vuole il vero interesse di Puccini, venga brutalmente calpestato. Gelmetti allora immagina una scena totalmente spoglia e astratta, dalla quale scompaiono tutti gli elementi che connotano la storia nel senso di una Belle Époque ormai agli sgoccioli, e concentra l'attenzione sullo scontro eterno tra amore e utile, tra le ragioni del cuore e quelle – tanto più persuasive – del denaro. Peccato che il libretto debba ancora far appello alla presunta “immoralità” della protagonista che, come la verdiana Violetta, non potrebbe entrare in una casa perbene, far parte di una famiglia come si deve. È un regime di senso inautentico per una tragedia inautentica, un posticcio elemento moralistico e melodrammatico incollato a una storia che avrebbe tanto guadagnato da una cinica celebrazione del lusso su una vita di stenti, di un brillante salotto di città dove si possono sfoggiare mantelli di Fortuny sulla vita di provincia e i vestiti di lana rammendati da una suocera premurosa.
Ineguale il cast. Il caso della protagonista, Patrizia Ciofi, meriterebbe un approfondimento. In assenza di comunicazioni esplicite da parte del Teatro, si deve presumere che la Ciofi fosse nel pieno dei suoi mezzi, e la cosa risulta veramente sconcertante perché nel ruolo di protagonista è assolutamente impresentabile. Di tutto ciò di cui è fatta una voce resta solo l'intonazione, ancora immacolata, ma sono spariti completamente la grana e il “corpo”: a volte, invece di un frammento melodico, non esce altro che un sibilo imbarazzante. Il pubblico catanese, che non ha protestato, deve aver pensato a un'indisposizione, ma non essendo stata chiamata Cristiana Oliveira del secondo cast a sostituirla resta il dubbio che quello a cui abbiamo assistito fosse previsto. Discreta la prova di Giuseppe Filianoti (Ruggero): nel secondo atto ha un chiaro problema di raucedine che fortunatamente migliora nel terzo. Il colore della voce è bello e così le intenzioni musicali, ma ci sono diverse sbavature d'intonazione e la sensazione generale di una parte in cui non si ritrova completamente. Apprezzabili il Prunier di Andrea Giovannini e il Rambaldo di Marco Frusoni. Svetta su tutti la Lisette di Angela Nisi : brillante, centrata sulla parte, con una personalità tale da rubare la scena a una protagonista di caratura inadeguata.