Carl Maria von Weber (1786–1826)

Der Freischütz (1821)
Opera romantica in tre atti
Libretto di Friedrich Kind

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano

Direttore d’orchestra            Myung-Whun Chung
Regia                                        Matthias Hartmann
Scene                                        Raimund Orfeo Voigt
Costumi                                   Susanne Bisovsky e Josef Gerger
Collaboratore ai costumi     Malte Lübben
Luci                                          Marco Filibeck
Drammaturgo                        Michael Küster
Maestro del coro                   Bruno Casoni

Ottokar                               Michael Kraus
Kuno                                   Frank van Hove
Agathe                                Julia Kleiter
Ännchen                            Eva Liebau
Kaspar                                Günther Groissböck
Max                                     Michael König
Ein Eremit                         Stephen Milling
Kilian                                  Till Von Orlowsky
Vier Brautjungfern           Céline Mellon*
Sara Rossini*
Anna-Doris Capitelli*
Mareike Jankowski*
Stimme des Samiel           Frank van Hove

*Soliste dell'Accademia di perfezionamento per Cantanti Lirici del Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala

 

Teatro alla Scala, 20 ottobre 2017

Con l’ultima nuova produzione della stagione 2016/2017 il Teatro alla Scala porta in scena Der Freischütz (il franco cacciatore) di Carl Maria von Weber. Il capolavoro dell’opera romantica tedesca ante-Wagner torna in scena al Piermarini per la terza volta nel dopoguerra. Splendida direzione d’orchestra del coreano Myung-Whun Chung che si integra al meglio con la regia di Matthias Hartmann.

Nel Freischütz c’è tutto quanto ci potremmo aspettare in un’opera cui calzi a pennello la definizione di primo titolo del romanticismo tedesco.
Tutti concordi, i manuali di storia della musica sottolineano invariabilmente che con quest’opera Carl Maria von Weber segnò il punto fermo del romanticismo tedesco in musica prima che per le vie battute da Lortzing, Marschner, Spohr, Hoffmann, Kreutzer, Lindpaintner, Reissiger (per citare solo quelli di cui si può sperare di incrociare un’opera in palcoscenico nell’arco di una vita di peregrinazioni musicali) la rivoluzione wagneriana segnasse il nuovo confine dell’impero. Lo stesso Wagner venerò la memoria di Weber in ogni occasione utile.
Il catalogo è questo : cacciatori, boschi della Boemia, contadini, principi, jodel, guardaboschi che si raccomandano al Paradiso, cacciatori che si raccomandano all’Inferno, pallottole stregate forgiate in posti da tregenda, sant’uomini eremiti, redenzione per grazia di vergine…e tanti ancora i temi che contribuirono a fare la fortuna dell’opera sin dalla prima rappresentazione berlinese del 1821.
Il franco cacciatore fece il suo debutto sul palcoscenico del Teatro alla Scala nel 1872 e venne rappresentato in italiano ancora nelle recite del 1955 dirette da Carlo Maria Giulini. Nel maggio del 1998 Donald Runnicles direttore, con la regia di Pier’Alli e ad un cast di specialisti, il “debutto” in lingua originale.
Per la terza riproposta nel dopoguerra, la scelta del regista è caduta su Matthias Hartmann, tedesco di Osnabrück, austriaco di residenza, già sovrintendente dello Schauspielhaus di Bochum, di Zurigo, del Burgtheater di Vienna, regolarmente impegnato con l’opera lirica negli ultimi quindici anni sui palcoscenici della Mitteleuropa.
Sullo sfondo il folclore locale, la vicenda di Freischütz affonda le radici nella catastrofica guerra dei trent’anni, che nella prima metà del’600 devastò l’Europa centrale. Dal libretto, e ben di più dalla musica di Weber, prendono vita i veri protagonisti : la natura è più spesso malvagia che amica, con la spaventosa gola boscosa, la cupa vegetazione, la pallida luna, l’albero di legno marcio ; le presenze animalesche sono spettri dell’inconscio a disagio con l’insicurezza quotidiana di un mondo che non offre certezze proprio come in guerra.

Pervade l’opera un senso di insicurezza e inquietudine, di cui l’ouverture è sintesi suprema.Il dubbio è ovunque, persino il lieto fine non è un lieto fine con tutti i crismi : Max dovrà conquistarsi un certificato di buona condotta, dopo essere stato sotto osservazione per un anno, se vorrà ottenere la mano di Agathe.
Per come la messa in scena ha illustrato questi aspetti abbiamo convintamente apprezzato la regia di Hartmann, seppur caratterizzata da qualche sporadica caduta di gusto come quella di onnipresenti e prevedibili mimi che in guisa di demoni percorrono costantemente il palcoscenico ogni volta che si parla del diavolo.

Decoro ricorrente nelle diverse scene, una rada foresta di alberi secchi e senza fronde costituisce lo sfondo della vicenda davanti alla quale si anima di volta in volta un piazzale, la casa del guardaboschi, la camera di Agathe.

Nella gola del lupo gli alberi diventano talmente alti e fitti da creare una quinta spiccatamente verticale che chiude ogni via di fuga allo sguardo. Al centro della scena il malvagio Kaspar fonde le pallottole magiche tra fiamme e visioni di immagini diaboliche. Se a quasi duecento anni di distanza dalla prima l’effetto è credibile e incute sgomento ad un pubblico che nel frattempo ha conosciuto ogni genere di orrori, il regista ha centrato il bersaglio.

Modellino per la scena della gola boscosa (atto II scena quarta) ideato da Raimund Orfeo Vogt

Con pochi elementi architettonici aggiuntivi, evidenziati da luci al neon, si ricreano di volta in volta gli spazi in cui si ambientano gli altri atti.

I segni luminosi che spiccano nella nera foresta rinsecchita, lasciata da parte ogni necessità di verosimiglianza, e i costumi di Bisovsky e Gerger contribuiscono a conferire all’immagine complessiva un effetto caricaturale e al contempo inquietante a questa vicenda senza tempo.

Agathe (Julia Kleiter) nel terzo atto

Detto del buon esito della parte visiva occorre riconoscere la principale riuscita dello spettacolo. È il direttore d’orchestra Myung-Whun Chung, in stato di grazia, a suggellare una prestazione degna di essere ricordata per la sensibilità e gli effetti che riesce a tirar fuori dall’orchestra. La direzione del Maestro coreano è continuamente varia nel ritmo e nei colori ma senza indulgere in raffinatezze gratuite.
Chung sin dall’ouverture iniziale ci accompagna con leggerezza, passa dalle più delicate trasparenze orchestrali alla ricerca di un timbro caldo e romantico negli archi senza che sia mai necessario gonfiare il suono. In questo modo coglie l’aspetto ambivalente dell’opera e delle sue forme, non ne rinnega il valore e le restituisce con minuziosa precisione. Supportato dal coro, anch’esso al meglio delle proprie possibilità, il direttore restituisce il senso di ogni scena lasciandoci sempre in bilico tra la rassicurazione di una bella fiaba e l’incubo del demoniaco.

Discreto il gruppo di solisti radunato per l’occasione, in cui spicca il basso Günther Groissböck nel ruolo del malvagio Kaspar. Con un fraseggio convincente ed un’impostazione vocale corretta, la (ostentata) presenza scenica avrebbe trovato ideale complemento in una voce che si fosse imposta per un timbro più scuro e una maggior potenza.Corretta la prova del tenore Michael König che, tuttavia, non riesce ad esprimersi con varietà di fraseggio per via delle lacune dell’impostazione vocale e molto buona sotto tutti i punti di vista la Ännchen di Eva Liebau che, con voce piccola, ma non piccolissima, e ben impostata nell’intera gamma di suoni, esegue con sicurezza e interpreta con bella presenza.

Il ruolo di Agathe, protagonista femminile dell’opera, è affidato a Julia Kleiter che ne impersona la monocroma figura virginea con sicurezza, incontrando qualche problema nel passaggio di registro solamente nella splendida cavatina che apre il terzo atto.
Precisi e efficaci tutti i gli interpreti dei ruoli minori, tra cui si deve ricordare almeno l’eremita dall’imponente figura di Stephen Milling.
Applausi per tutti gli esecutori al termine della recita, in particolare per il direttore Chung.

Kaspar (Günther Groissböck) evoca Samiel

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Paolo Malaspina
Paolo Malaspina, nato ad Asti nel 1974, inizia a frequentare il mondo dell’opera nel 1989. Studia privatamente canto lirico e storia della musica parallelamente agli studi in ingegneria chimica, materia nella quale si laurea a pieni voti nel 1999 presso il Politecnico di Torino con una tesi realizzata in collaborazione con Ecole Nationale Supérieure de Chimie de Toulouse. Ambito di interesse musicale : musica lirica e sinfonica dell’ottocento e novecento, con particolare attenzione alla storia della tecnica vocale e dell'interpretazione dell'opera lirica italiana e tedesca dell'800.

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