“…Difatti ho osservato in alcuni giornali francesi alcune frasi che ammetterebbero qualche dubbiezza. Chi rimarca una cosa e chi l’altra. Chi trova il soggetto sublime, e chi non musicabile. Chi trova che io non conoscevo Shachespeare quando scrissi il Macbet.
Oh, in questo hanno un gran torto. Può darsi che io non abbia reso bene il Macbet, ma che io non conosco, che io non capisco e non sento Shachespeare no ; per Dio, no. È un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani fin dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente.”
(Giuseppe Verdi a Léon Escudier il 28 aprile 1865((Nove giorni dopo la prima parigina al Théâtre Lyrique)),
Giuseppe Verdi di Franco Abbiati,
Milano, 1959, vol. terzo, pg.8)
No, non ci sono dubbi. Verdi nutrì per tutta la vita una vera e propria venerazione per lo scrittore inglese. Accusarlo di non conoscerlo a fondo ? Lo leggiamo discolparsi con la concretezza della sua terra e sembra di sentirlo : se proprio volete ditemi che non so scriver musica ma non pensate neanche per un attimo che non capisca la grandezza del Poeta…
Bella sfida quella del Festival Verdi 2020 per la città di Parma. Prova d’amore.
Mentre la maggior parte delle rassegne all’estero ha mandato in soffitta i progetti estivi, con l’eccezione di Salisburgo che non ha desistito dall’appuntamento col centenario manifestando una caparbietà che all’inizio pareva azzardata ma che alla fine ha pagato importanti dividendi musicali, il Festival Verdi 2020, come quasi tutti i festival italiani, si è riorganizzato negli spazi en plein air del parco Ducale. Nell’oltretorrente, a poche centinaia di metri dalla casa in cui nacque Arturo Toscanini, la spianata antistante al cinquecentesco Palazzo del Giardino che funge da elegante quinta ospita il palco ed una platea con mille posti a sedere, ben distanziati, per gli spettacoli che vedono impegnati orchestra e coro. Tra tutti, di particolare interesse l’esecuzione in forma di concerto di due capolavori giovanili : Macbeth e Ernani.
A leggere il cartellone, il Festival si giocava una carta insolita con l’esecuzione della versione parigina del Macbeth nella traduzione in francese raramente eseguita che venne commissionata a Nuitter e Beaumont per le recite del 1865. Come sempre Verdi teneva in modo particolare agli appuntamenti nella capitale d’Oltralpe. In questo caso lavorò con finezza sulla tinta musicale e ripulì il testo musicale da forme nel frattempo superate, ma poco efficace si dimostrò la traduzione che neanche lontanamente raggiunge la fusione d’intenti tra suono e parola toccata nel Don Carlos. Nei fatti, la musica ha vinto a mani basse grazie ad un'esecuzione brillante con punte di straordinario valore, finendo per derubricare la scelta del francese ad una mera curiosità.
Che la serata promettesse bene lo si è capito sin dal preludio.
Prese le misure ad alcune entrate scoperte degli archi, che suonano aspre pur facendosi ammirare l’eccellente lavoro svolto sull’amplificazione la cui unica pecca è quella di non poter fisicamente restituire maggior “corpo” e profondità al suono, con le prime battute si comprende subito che siamo davanti ad una lettura da primo della classe da parte di Roberto Abbado.
C’è proprio tutto nel suo Macbeth : intensità, colori, concertazione, accompagnamento ora triviale ora raffinato, teatro vero ma mai sopra le righe. Distillato di verdianità.
L’orchestra asseconda al meglio il suo gesto chiaro e coinvolgente con la lucentezza degli archi, la precisione e il bronzo degli ottoni, gli ottimi interventi del violoncello e del flauto tanto per citarne alcuni.
Nulla è trascurato o incoerente, basti pensare al tempo comodo che stacca Abbado nella scena del brindisi che, sostenuto dal gioco di colori e controllato da rigorosa dinamica, genera a poco a poco un crescendo di vera tensione per vie interne che si scioglie nella naturalezza di un Il part ! Je respire da brivido.
L’altro vertice della serata, diremmo sin oltre le attese, è costituito dal Macbeth di Ludovic Tézier, che si conferma il più importante baritono verdiano oggi in circolazione.Presenza carismatica senza aver mai bisogno di andare sopra le righe, cesella i suoni con perizia tecnica e sfoggia voce ferma ed omogenea in tutta l’estensione, sempre ben appoggiata sul fiato e salda negli estremi acuti che non lo impensieriscono.
Sbalza all’inizio la figura di un re giovane e baldanzoso, la cui vocalità si infittisce a poco a poco di accenti e mezzevoci a comporre il quadro dell’evoluzione psicologica di un personaggio sempre più perso verso la sua rovina, scollegato dalla realtà.A notte alta Honneurs, respect, tendresse è il coronamento di una prestazione esemplare.
A fronte di tanto re, Silvia Dalla Benetta pare talvolta più Abigaille che Lady Macbeth, quando nei grandi concertati e negli estremi acuti tiene testa a fatica al proprio personaggio. Si riscatta però quando la voce, nei centri e nell’ottava inferiore, può distendersi e arriva a tratteggiare una Lady luciferina ed insinuante, dalla forte presenza scenica.
A completare la distribuzione vocale, l’ottimo Banquo di Riccardo Zanellato, preciso, ben interpretato, dalla voce bella e salda, e le pregevoli voci tenorili di Giorgio Berrugi e David Astorga, come pure degni di lode tutti gli altri interpreti dei ruoli minori tra cui merita di essere ricordata almeno La Comtesse di Natalia Gavrilan.
Molto impegnato il Coro del locale Teatro Regio che si è ben disimpegnato, pur alle prese con la difficoltà di fraseggiare e rendere comprensibile il difficile testo francese.
Al termine della recita applausi meritati per tutti gli interpreti, particolarmente prolungati per Abbado, Tézier e Dalla Benetta e tanti complimenti al Festival Verdi per una sfida vinta alla grande sul piano organizzativo e musicale.