Firenze è ora dotata di una macchina musicale particolarmente invidiabile, la nuova sala dell'opera, da dieci anni ormai , a cui dallo scorso dicembre si è aggiunta la sala Zubin Mehta (dal nome del direttore d'orchestra che per decenni ha segnato il Maggio, di cui è tuttora direttore musicale onorario e che dirige ancora regolarmente), l'auditorium, che fa dell'insieme architettonico una specie di Città della Musica alle porte del centro, non lontano da Porta al Prato. C’è anche il Teatro Goldoni, per opere più intime, situato sulla riva sinistra dell'Arno, un piccolo gioiello restaurato nel 1997 e inaugurato all'epoca da un indimenticabile Orfeo di Monteverdi in una produzione di Luca Ronconi…
Ma il Maggio può anche usare ogni tanto il Teatro della Pergola, nel centro storico, dove nel 1847 ci fu la prima del Macbeth di Verdi. Poiché l'opera di Strauss vi si presta, così come il rapporto palcoscenico/sala, Ariadne auf Naxos ci viene proposta.
L'Ariadne auf Naxos torna dunque a Firenze dopo 25 anni di assenza (l'ultima produzione era di Jonathan Miller con Zubin Mehta sul podio) e in una produzione di Matthias Hartmann, regista (purtroppo) amato dal sovrintendente Alexander Pereira, trasferitosi dalla Scala a Firenze nel 2020.
Matthias Hartmann ha lavorato nelle più importanti istituzioni teatrali di lingua tedesca, tra cui lo Schauspielhaus di Zurigo e il Burgtheater di Vienna, che ha diretto dal 2009 al 2014. Sarà forse un buon manager, ma è anche responsabile di una serie di mediocri produzioni operistiche, ultimamente la Dama di picche della Scala, di cui abbiamo riferito e la presente Ariadne.
Vede Ariadne auf Naxos come un'opera sul teatro, di teatro nel teatro, ambientato in un salone ipercarico in stile kitsch, un salone di parvenu che un Faninal del Rosenkavalier non disdegnerebbe (scenografia di Volker Hintermeier) pieno di oggetti eterogenei, divani, mobili vari, opere d’arte, tra i quali una folla di personaggi non sempre si muove facilmente.
Ariadne auf Naxos è un esercizio di stile, nel primo atto un pezzo di conversazione, nello stile di una commedia borghese, con tre personaggi centrali : l'Haushofmeister (il maggiordomo), un ruolo parlato, il maestro di musica (direttamente venuto dal Borghese gentiluomo di Molière, come il maestro di ballo ‑Tanzmeister-. Si sa che la commedia di Moiière fu il prologo della prima versione nel 1912, finché il prologo attuale fosse elaborato per la prima viennese del 1916), e per terzo il compositore, che vede la sua opera sfuggirgli gradualmente di mano a causa delle richieste del mecenate (normalmente sconosciuto, ma che qui si vede fugacemente all'apertura del sipario, su una sedia a rotelle e in condizioni piuttosto precarie). Intorno a loro c'è il trambusto dei preparativi per lo spettacolo della sera.
La musica raffinatissima di Strauss, esaltata stasera con quale brillantezza da Daniele Gatti, non ha evidentemente influenzato il regista, che ha ancora qualche lezione da imparare in materia raffinatezza. A parte l'agitazione e l'andirivieni, c'è poca recitazione, poca chiarezza, uno stile frou-frou accentuato dai costumi sempre sontuosi, ma qui forse fintroppo firmati da Adriana Braga-Peretzki, abituale costumista di tutte le produzioni del regista tedesco Frank Castorf, a partire dal Ring di Bayreuth.
Troppa roba inutile, tanto che si perde il tema del dibattito, che è di livello relativamente alto, poiché si tratta dell'autonomia del creatore, della sua libertà, dell'artista di fronte al potere – in questo caso il potere del denaro, questioni essenziali affrontate (certo in modo scherzoso) da Hofmannsthal. È l'arte di Hofmannsthal di scherzare con serietà, o di essere serio nello scherzo, cioè di fingere di toccare con leggerezza le questioni fondamentali, tanto più che era stato necessario riscrivere un prologo per porre le tematiche fondamentali dei generi musicali (conversazioni, opera buffa, opera seria). Gli attori della commedia dell'arte che sono l’emblema dell’interazione dei generi musicali tra di loro non saranno però mai visti come “tipologie” cosi specifiche, né nel primo né nel secondo atto.
La leggerezza e l'eleganza non sembrano essere state considerate dal regista.
Nella seconda parte, l'Opera, Matthias Hartmann, come molti altri prima di lui, propone di non fare un'opera nell'opera (cosa che è stata scelta ad Aix nell'allestimento di Katie Mitchell, anch'esso poco convincente), ma di proporre l'opera al pubblico, direttamente, in modo che gli attori della commedia dell'arte possano mantenere la loro funzione performativa di intermediari tra il pubblico (noi) e i cantanti (Arianna).
La scenografia era (un po', appena) ridotta e il "NO", costituito da lampadine a LED che evocavano le opere artistiche dei saloni d'arte contemporanea. E con grande senso dell’umorismo (?), sembra far cominciare l’opera con errori (luci in sala, sipario che si apre e si chiude, macchinisti in agitazione…). Che trovata !
Il NO è diventato "NAXOS", ricordando i cartelli che indicavano i luoghi nelle rappresentazioni teatrali del XVII secolo.
Non c'è nemmeno nella regia la cura della recitazione, con un vero e proprio buco nero negli ultimi venti minuti, quando un Bacco da operetta (una toga di lustrini e una vistosa corona di gigli) e un'Arianna da opera passano il tempo a cantare senza esprimere nulla con gesti o movimenti, alla maniera di quella che pensiamo sia l'opera di una volta.
Tutto questo vuole essere distanziato e ironico, naturalmente, sotto lo sguardo un po' tenero degli attori della commedia dell'arte, ma è solo superficiale e piuttosto pesante, un po' come Arianna al Carnevale di Rio…
Fortunatamente le cose si ribaltano se si considerano gli aspetti musicali, con un cast di quelli che difendono con impegno l'opera, anche se è stato raggiunto da Covid : oltre a Daniele Gatti, sono stati sostituiti Alexander Pereira (Haushofmeister) Daniel Schliewa (Brighella), Jessica Pratt e Michèle Losier. Le Zerbinette sono state ben quattro e Michele Losier, il compositore, è stato sostituita in extremis per le ultime due recite da Sophie Koch, che aveva interpretato il ruolo in aprile alla Scala.
Per fortuna Jessica Pratt, che aveva cantato solo la generale, ha potuto cantare le ultime due recite.
Si può immaginare cosa significhino questi cambiamenti in termini di lavoro di prova, in un'opera così fragile in termini di colore complessivo da dare.
E più in là, ci si chiede, se queste condizioni persistono, come andrà l'estate dei Festival, Aix Bayreuth, Salisburgo e altri.
Il cast, nonostante tutte queste sventure, è rimasto solido e abbastanza omogeneo, a partire dai ruoli minori, come le tre ninfe di Maria Nazarova, Anna Doris Capitelli e Liubov Medvedeva, essenziali per il colore del dramma all'inizio dell'opera, e il cui canto poetico, raffinato e sobrio ha meritato il successo finale. Da notare anche il Tanzmeister di Antonio Garès, agile, con una voce ben posizionata e proiettata, e buon attore. L'ensemble della commedia dell'arte, Brighella (Paul Schweinester), Scaramuccio (Luca Bernard), Truffaldin (Jacoub Eisa) e Harlekin (Liviu Holender), si è presentato a pieni voti, con un vero plus per Liviu Holender, Harlekin con un fraseggio impeccabile, una dizione chiara e un bel timbro caldo. Lo avevamo visto e apprezzato in Maskarade di Nielsen qualche mese fa a Francoforte, di cui abbiamo riferito.
Markus Werba fa un sontuoso Musiklehrer, come sempre molto a suo agio sul palco, con una facilità di espressione, una duttilità e un senso del colore e dell'interpretazione : sa cosa significa conversazione e sa cosa significa cantare.
Sophie Koch arriva nella produzione senza aver provato e quindi offre il “suo” Komponist, che non è necessariamente quello voluto e preparato durante le prove. La voce è forte, decisa, gli acuti dardeggianti, a volte aspri, senza (troppe) sfumature, ma si impone sul pubblico, che le tributa un trionfo di gratitudine per aver salvato lo spettacolo e per l’impegno comunque lodevole.
Krassimira Stoyanova è un'Arianna sobria, sempre impeccabile nello stile, leggermente distanziata, ma mai in difetto. Dalla sua Marescialla a Salisburgo, ha sempre affrontato i ruoli straussiani con la stessa eleganza, la stessa scienza del canto. Le manca quel "più" che entusiasma il pubblico : rimane un'interprete di qualità leggermente inferiore a quella della cantante.
Zerbinetta, il ruolo più spettacolare per la sua aria "Großmächtige Prinzessin" (essenziale dal punto di vista drammaturgico, perché indirizza l'opera verso il suo epilogo), è Jessica Pratt, tornata dall'isolamento covidiano e più nota per le sue pirotecnie belcantistiche. Per prima cosa sentiamo la gioia di cantare e di stare sul palcoscenico, e lei smentisce chi la accusa di essere solo una macchina da note acute : costruisce un personaggio simpatico, aperto, umano, gioioso che trascina il pubblico. L'esecuzione è pienamente lodevole, anche se tecnicamente forse gli acuti mancano della precisione ritmica di una Gruberova, insostituibile in questo ruolo. Jessica Pratt tiene meno l’acuto, ma canta legando bene e soprattutto con bella espressività, con un fraseggio impeccabile e una presenza reale. Stasera ha davvero segnato la serata.
Bacco, ruolo difficile e ingrato che deve attendere gli ultimi venti minuti per apparire come il Deus ex machina dell'intera vicenda, è spesso, quasi sempre, attribuito a tenori drammatici : si fraintende, credo, la linea voluta da questo finale. Questo non è Sigfrido, e nemmeno l'Imperatore della Donna senz’ombra. Naturalmente il volume musicale richiede una voce in grado di superare l’orchestra, ma alla Lohengrin più che alla Tristano. La mia prima ineffabile Ariadne auf Naxos a Salisburgo nel 1979 (Böhm, Hildegard Behrens, Edita Gruberova, James King) presentava un James King più lirico che drammatico.
Quindi Bacco è un tenore americano totalmente sconosciuto, AJ Glueckert, vestito con un costume da Dio dell'operetta che non sarebbe stato incongruo in Offenbach, ne La belle Hélène o Orfeo negli Inferi, e poiché il regista non sa cosa fare con il personaggio, non riesce a imporsi sul palcoscenico, il che gli fa subito un torto.
È un peccato, perché vocalmente canta evitando le urla e gli acuti urlati alla Andreas Schager, e la voce rimane molto ben controllata, elegante, con un fraseggio chiaro e una dizione impeccabile come spesso fanno i cantanti americani. Certo, manca un po' di espressività, e il duetto d'amore con Ariane Stoyanova rimane musicale ma non veramente appassionato o appassionante. Ma questo cantante dovrebbe ovviamente essere ascoltato in altri ruoli, perché questo tipo di voce manca.
Ma il gioiello della serata è la buca. Innanzitutto, perché i (bravissimi) musicisti dell'orchestra del Maggio Musicale Fiorentino mostrano la loro gioia di suonare, evidente durante gli saluti, con i loro sorrisi e i loro sguardi assolutamente deliziati e brillanti. E sono stati all'altezza della sfida, e soprattutto della direzione musicale, che è così chiara da permettere a ogni sezione di essere ascoltata a sé stante. C'è una sorta di rivelazione dell'orchestra e dell'orchestrazione che dà un colore eccezionale a questo Strauss.
Daniele Gatti si affida a quello che è il DNA dell'opera, l'eleganza e la raffinatezza in ogni momento, con una scienza dei volumi, una morbidezza nelle sequenze, una linea che segue le volute della musica, passando da un colore all'altro con fluidità, lasciando spazio anche a una certa preziosità.
Gatti segue con precisione il libretto, nel prologo sottolinea le parole, sa cosa significa la conversazione in musica nella prima parte, quest'arte iniziata da Wagner nei Meistersinger e così sviluppata nel Novecento, con una leggerezza, un senso del tocco leggero sorprendente, un'attenzione ai cambiamenti di ritmo e di colore imposti dalla varietà degli stati d'animo dei personaggi.
Nell'opera, questa direzione richiama l'opera seria, guarda a un Settecento fantasticato, mescolato allo stile “Secession”. C'è una sorta di sistema di echi (la ninfa Eco è nel cast!) che ricompone tutti i fili di questa musica e della sua complessità, perché Strauss non smette mai di giocare tra il passato di questa musica e il suo futuro. Daniele Gatti sa rivelare tutte queste sottigliezze con grande sensibilità, e allo stesso tempo con un impegno marcato per quest'ultima rappresentazione, dopo tutti gli intoppi covidiani che l'hanno preceduta. C'è gioia, malinconia, poesia… Gatti ha trovato un tono di grande accuratezza e delicatezza che corrisponde molto a quest'opera che è allo stesso tempo musicalmente cristallina e (se posso dirlo) anche abissale. Peccato che queste ali impalpabili e leggere siano calzate con le scarpe di piombo di una messa in scena debole.