Programma

Fryderyk Chopin
Due notturni op. 27
n. 1  in Do diesis minore
n. 2  in Re bemolle maggiore
Ballata n. 3 in La bemolle maggiore op. 47
Ballata n. 4 in Fa minore op. 52
Berceuse in Re bemolle maggiore op. 57
Scherzo n. 1 in Si minore op. 20

***

Tre mazurche op. 56
n. 1 in Si maggiore
n. 2 in Do maggiore
n. 3 in Do minore
Sonata n. 3 in Si minore op. 58

Teatro Massimo – Palermo, 25 novembre 2017

Torna al Teatro Massimo di Palermo il pianista Maurizio Pollini con un concerto dedicato tutto a Chopin, cui segue una mattinata di lezione al Conservatorio. Protagonista da oltre quarant'anni della scena concertistica, Pollini si misura qui con uno dei suoi autori d'elezione, fornendo una lettura in linea con una poetica riconoscibilissima che ha fatto la storia del pianismo italiano e internazionale.

Più ancora che un “evento” – una parola malfamata che ha nuociuto alla cultura e alla musica quanto poche altre – il concerto di Maurizio Pollini per la stagione concertistica del Teatro Massimo di Palermo è stato una festa : le ragioni misteriose che legano un interprete al pubblico hanno raccolto intorno al pianista milanese una folla festante quanto inesperta (sul palco c'erano gli abitanti dei quartieri sfavoriti dello Zen e dell'Albergheria), che ha affollato il Teatro Massimo con tale entusiasmo da applaudire persino tra un movimento e l'altro della Sonata n. 3 in si minore op. 58, in un concerto tutto dedicato a Chopin. Il programma si apriva con i Due Notturni op. 27, la Terza e Quarta Ballata, la Berceuse in re bemolle op. 57, lo Scherzo n. 1 op. 20, nella prima parte ; Tre Mazurke op. 56 e appunto la Sonata n. 3 op. 58 nella seconda parte, con lo Scherzo n. 3 per bis.

Maurizio Pollini con Leoluca Orlando

Tracciando  una sintetica storia delle tendenze interpretative dal Novecento storico fino a oggi nel suo recentissimo L'interpretazione pianistica nel postmoderno (Rugginenti 2017), Piero Rattalino individua fra le altre una via prettamente “moderna” il cui esponente più tipico è, per il nostro maggiore studioso di interpretazione pianistica, per l’appunto Pollini. A esemplificazione dell'atteggiamento “moderno” nell'interpretazione, scrive dunque Rattalino che la lettura di Pollini del Notturno op. 27 n. 1, proprio il brano con cui si è aperto il recital palermitano, è “un'esecuzione che non coinvolge emotivamente, ma che cerca di far contemplare l'oggetto sonoro « bello ». Deve quindi essere bello, e deve essere contemplato in funzione della sua bellezza. È secondo me un'esasperazione del concetto di classico. Indubbiamente una bellissima esecuzione, di cui personalmente non condivido la poetica, ma assolutamente impeccabile. Secondo me” – sostiene sempre Rattalino -, “siamo in un falso storico, un bellissimo falso storico, che rappresenta non la società di oggi ma la società di qualche anno addietro. Pollini è un rappresentante del suo tempo, ovvero dagli anni Settanta agli anni Novanta, in cui c'è il tentativo, fatto da tanti artisti, onestamente, di razionalizzare l'interpretazione”. Vale la pena di osservare in questo giudizio, del tutto condivisibile, che Rattalino scrive “falso storico” non nel senso che Pollini offra una lettura di Chopin arbitraria e non rispettosa – il nostro maggior pianista appartiene al grande fiume dell'interpretazione novecentesca che ricerca la “verità” del testo, e non si concederebbe mai derive decostruzionistiche sotto le accoglienti insegne del postmoderno -, ma intende “falso storico” nel senso di un'esecuzione che presuppone una società, uno stato delle forze di produzione e una concezione generale dell'interpretazione musicale che non esistono più.

Il concerto di Palermo comincia con una singola concessione al “manierismo”, cioè l'attitudine esecutiva dell'inizio del Novecento, nel momento in cui Pollini marca l'inizio della melodia del Notturno op. 27 n. 1 con uno “scampanamento”, uno sfasamento civettuolo tra mano destra e mano sinistra molto vecchia maniera, ma si incanala subito dopo nella consueta poetica che Rattalino definisce “razionalizzazione dell'esecuzione”: la costruzione di un oggetto musicale di cui si mettono in risalto prima di tutto la ragione strutturale, le nervature formali, gli archi di tensione – perché in questo, per Pollini, consiste la musica. Rimane fuori da tale razionalismo costruttivo tutto ciò che non può essere preventivamente integrato nell'istanza logica e nel piano espressivo definito a priori : gli scarti emotivi, le intermittenze del cuore, il cedimento al patetismo, l'apertura a regimi di senso non padroneggiabili razionalmente, che vengono esclusi perché saboterebbero proprio la compattezza costruttiva dell'insieme con l'esplosione di un dettaglio particolarmente eloquente.

Nei due Notturni eseguiti a Palermo si avverte in modo evidente la mancanza di quell'attimo in cui il sentimento di Chopin pare sbocciare come per incanto sotto la punta delle dita del pianista, con l'apertura di un varco verso il cuore, l'insinuarsi di una vena di patetismo, un'incrinatura nella superficie sonora che lasci filtrare il sogno. Nell'esecuzione di Pollini non c'è spazio per dettagli che minaccino di rendersi autonomi rispetto all'insieme. Tutta la materia chopiniana viene sussunta sotto una logica spietata : la ripresa “A'” del Secondo Notturno op. 27 (una forma A‑B‑A'), per esempio, non viene presentata come il ritorno di un elemento già espresso, stavolta con una nuova nuance sentimentale, magari più tenera, più nostalgica, ma viene eseguita come una trionfale ripresa beethoveniana al termine di uno sviluppo tormentato, l'approdo logico e consequenziale di una rigorosa dialettica costruttiva – estranea, con quest'enfasi, all'ethos di Chopin.

Quello della ripresa discutibile del Notturno è un esempio fra i tanti possibili, ma più in generale ci è parso di notare un appannamento della capacità di Pollini di intuire e poi scolpire letteralmente la forma, che era il suo tratto interpretativo più tipico e che per altro si apprezza ancora nella fortunata incisione del 2005 dei Notturni per  la Deutsche Grammophon. La fortissima tensione razionale, il telos inesorabile impresso al discorso, l'ardore tutto particolare che trovava la sua ragione nella costruzione della forma ma diventava poi un puro dato emotivo – un'impostazione che Pollini deriva dalla sua frequentazione del repertorio neo-avanguardistico e trasferisce poi a quello tradizionale – si sono ora come offuscati e affievoliti. La ragione, crediamo, non è l'età di Pollini, che malgrado i suoi settantacinque anni conserva una freschezza tecnica e una capacità di concentrazione che paiono preludere a una vecchiaia leggendaria come quella di Rubinstein e di Backhaus, in grado anche in età avanzata di ammaliare il pubblico del loro tempo con esecuzioni di smagliante perfezione tecnica. La ragione per la caduta della tensione esecutiva e della capacità di definizione della forma, per Pollini, sta a nostro modo di vedere nel fatto che non esiste più dietro o sotto la sua poetica una tensione ideologica capace di giustificarla : è infatti tramontato per sempre il tempo dell'ottimismo progressista che, coltivando l'utopia di un'impossibile presa del potere da parte del proletariato, trasferiva sulla pagina musicale il riverbero accecante di quella scommessa sul futuro.

Certo, il vuoto che si è aperto dove una volta c'era la politicizzazione dell'arte, si nota meno dove il dato strutturale è prioritario : la Terza Sonata, eseguita a tratti come se fosse la Seconda di Boulez, fornisce al razionalismo costruttivista di Pollini la giustificazione di una architettura derivata dalla tradizione classica, anche se la sua resa, trattandosi di Chopin, risulta come sovradeterminata rispetto al peso della stessa struttura nell'economia globale della pagina. Colpisce però in questo recital, anche rispetto al recente passato, un'impressionante piattezza dinamica : i forti esplosivi di un tempo non esplodono più, i pianissimo non sono contemplati dall'invadenza onnivora della logica costruttiva, la timbrica si mantiene costantemente nelle zone del grigio e su tutto pare calato il monocromato di un mezzoforte spento e come sterilizzato. Impressiona anche la mancanza di libertà nei respiri, di quella preziosa flessibilità agogica che era la delizia dei grandi interpreti, e degli ascoltatori, del Novecento storico (Alfred Cortot, Samson François, dello stesso Rubinstein): Pollini esegue tutto come se fosse davanti a un tribunale pronto a condannare il minimo rubato, la minima increspatura ritmica, il più piccolo inarcarsi della linea sopra il tracciato predeterminato. Risultano per questo più convincenti le parti veloci della Sonata, lo Scherzo e il Finale, dove il rimo incalzante e la testura più uniforme forniscono al pianista il telaio per un disegno formale dalle linee regolari. Le formi brevi e “impressionistiche”, invece, sono quelle che a nostro vedere soffrono di più questo tipo di impostazione. Le due Mazurke e ancora di più la Berceuse fanno l'effetto di apparizioni spettrali, graziose piccole rovine di un'estetica ormai fuori corso – che del resto non ha mai avuto con il Charakterstück una particolare congenialità. Nella Seconda Mazurka sembra addirittura a tratti che il pianista milanese non si preoccupi affatto di trasmettere un senso quale che sia, perché uno dei postulati del suo costruttivismo razionalista, il più autenticamente e profondamente sentito, è il feticismo della struttura – che per Pollini, per definizione, un senso ce l'ha.

Malgrado tutto, però, alla gente in sala arriva qualcosa che ha un effetto magnetico. Anche se nel caso di una star del pianismo come Pollini il pubblico tende a piegarsi alla logica del grande evento e del successo preordinato, resta il fatto che gli ascoltatori colgono con esattezza la gigantesca levatura d'interprete di Pollini, la sua intransigenza, la sua concezione sacrale dell'esecuzione che vede il concerto come un rito di cui l'interprete è il sacerdote, e nel quale avviene una sorta di rivelazione. Questa concezione arriva a un pianista moderno come Pollini dalle profondità storiche del Romanticismo, ed è meraviglioso per tutti poter ancora assistere a un concerto con la certezza che si sta partecipando a qualcosa – un rito nel senso proprio del termine – che tocca la sfera del sacro. Con violenza sfacciata e iconoclasta – e forse anche irresponsabilmente – il Postmoderno ci ha privato di questa dimensione sacrale della musica : l'interprete postmoderno per eccellenza, Lang Lang, fa di tutto tranne trasmettere l'idea che la musica sia una cosa sacra alla quale ci si debba accostare con atteggiamento reverente. Per questo, con la sua sola presenza Pollini si pone oggi come una scheggia di Moderno conficcata negli oliati ingranaggi del Postmoderno, che fra i suoi dogmi avrebbe proprio quello di aver fatto fuori una volta per tutte il sacro dall'arte. Pollini è un ultimo, uno che conclude e chiude il cerchio della tradizione, l'esponente sopravvissuto di un modo alto e intransigente di intendere la musica che non concede niente allo spettacolo, al successo, alla popolarità a tutti i costi. Vederlo avanzare verso il pianoforte sul palcoscenico, con il passo malfermo e la tensione concentrata di un officiante che si avvicina all'altare, è l'istantanea commovente su un mondo che non c'è più.

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Sara Zurletti
Sara Zurletti si è diplomata in violino e laureata a Roma in Lettere con tesi in Estetica. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca all'Università Paris 8. Ha insegnato nella stessa università "Teoria dell'interpretazione musicale" e poi, dal 2004 al 2010, Estetica musicale all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e Pedagogia musicale all'Università di Salerno. Ha pubblicato "Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno" (Il Mulino, 2006), "Le dodici note del diavolo. Ideologia, struttura e musica nel Doctor Faustus di Th. Mann" (Biblipolis 2011), "Amore luminoso, ridente morte. Il mito di Tristano nella Morte a Venezia di Th. Mann" (Castelvecchi), e il libro-intervista "Ars Nova. ventuno compositori italiani di oggi raccontano la musica" (Castelvecchi 2017). Attualmente insegna Storia della musica al Conservatorio "F. Cilea" di Reggio Calabria.
Crediti foto : © Rosellina Garbo

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