Se non avesse quell’atteggiamento deciso e quel passo marziale, quando esce in palcoscenico, penseresti che si tratti di un addetto ai servizi, che forse deve sistemare la partitura sul leggìo : un inserviente col volto di un ragazzino. E invece è un direttore d’orchestra in forte ascesa internazionale, che poco tempo fa ha debuttato anche sul podio dell’Orchestra di Santa Cecilia. Tarmo Peltokoski, ventiquattro anni appena da padre finlandese e madre filippina, ha già inanellato una serie di incarichi e responsabilità presso la Deutsche Kammerphilarmonie Bremen, l’Orchestra Nazionale della Lituania, la Filarmonica di Rotterdam, al Capitole de Toulouse, alla San Diego e alla Toronto Symphony, alla Filarmonica di Los Angeles. E l’elenco potrebbe continuare. Non sono le prime orchestre del mondo, ma la lista attuale è già di qualità medio-alta. Dalla biografia di Peltokoski si apprende che ha iniziato a studiare pianoforte a otto anni, e direzione d’orchestra a quattordici, entrando poi all’Accademia Sibelius. Sembra dunque il prodotto, doti personali a parte, di un sistema scolastico che fin dalla tenera età prevede un’educazione musicale. A Santa Cecilia, la giovane bacchetta finlandese ha proposto un programma singolare, affiancando due autori diversissimi, quali Musorgskij e Gershwin ; una scelta che potrebbe trovare spiegazione, ammesso ve ne fosse bisogno, nel retroterra della musica popolare e dei suoi stilemi, che in epoche differenti, e con esiti molto diversi, ha ispirato entrambi i compositori.
Peltokoski ha aperto il concerto con Una notte sul Monte Calvo, ma non nella rivisitazione postuma, operata da Rimskij-Korsakov, bensì nella stesura originaria che Musorgskij suggellò nel 1867, come episodio inserito nella sua opera La fiera di Soročincski. Invece della stesura edulcorata di Rimskij-Korsakov, con finale rasserenante, l’originale di Musorgskij mette in musica un sogno del giovane Gričko, sogno popolato di spiriti infernali. C’è quindi un testo, con voce solista, coro, e coro di voci bianche. La scelta di Peltokoski recupera quindi proprio quel linguaggio antiaccademico tipico di Musorgskij, linguaggio che i suoi revisori consideravano acerbo e bisognoso dei loro aggiustamenti. Si sentono affiorare dunque i vapori satanici del sogno, nell’asprezza dell’impianto armonico non privo di dissonanze irrisolte, così come nell’impiego in qualche passo della scala per toni interi. E anche la strumentazione è restituita nel suo profilo spigoloso e scabro. Vigoroso, deciso il piglio del direttore finlandese, attraverso il quale la temperatura lievita fino all’apice dell’intervento demoniaco. Molto bravi e incisivi sia il basso Giorgi Manoshvili, voce di belle qualità, sia il coro e il coro di voci bianche dell’Accademia, istruiti rispettivamente da Andrea Secchi e Claudia Morelli.
Atmosfera del tutto diversa nella pagina successiva : Rapsodia in blu, della quale ricorre il centenario. Alla tastiera un grande virtuoso, Alexandre Tharaud. Come si accennava prima, anche Gershwin è sensibile alle suggestioni della musica che era molto diffusa negli ambienti newyorchesi dei suoi anni. Il fascino di questa pagina si è in più coniugato, sul palcoscenico di Santa Cecilia, con la seducente lettura del pianista francese. Dopo il celebre glissando introduttivo del clarinetto, l’orchestra, sotto la bacchetta di Peltokoski, ha dispiegato un suono smagliante per colori e luminosità, mentre Tharaud ha esibito accenti di raffinata eleganza, disegnando un fraseggio naturale e brioso, alla larga da ogni affettazione. E, grazie alle sue strepitose capacità tecniche, gli ingranaggi di questa grande musica sono sembrati agevoli. Gli scroscianti applausi del pubblico hanno ottenuto due bis, entrambi singolari. Nel primo, Tharaud ha coinvolto Peltokoski alla tastiera e, a quattro mani, i due musicisti hanno sciorinato tutte le sofisticate nuances di Laideronette, da Ma Mère l'Oye di Ravel. Nel secondo bis, Tharaud ha sorpreso la sala con un’amabile trascrizione della colonna sonora di Nino Rota per Otto e mezzo, il film capolavoro di Federico Fellini.
La seconda parte del concerto ha offerto il ritorno a Musorgskij, e ai suoi Quadri da un’esposizione, nella versione orchestrale di Maurice Ravel. E qui Peltokoski ha squadernato una lettura mirata soprattutto a sottolineare il nocciolo del sentimento di Musorgskij, sia pure filtrato attraverso la sofisticata orchestrazione raveliana. Il direttore finlandese si è impegnato a far emergere l’anima di ciascun episodio, in un caleidoscopio di sfumature qua e là anche scabre e spigolose, per meglio illuminare la varietà di colori con i quali Ravel ha contrassegnato via via ogni tappa del percorso. Ecco quindi venire in superficie le diverse peculiarità timbriche, le mutevolezze ritmiche, nel disegno di un itinerario screziato da venature differenti : lo stesso ritorno della Promenade, nell’incedere della partitura, ha via via assunto un sapore diverso, per non parlare dei vari quadri, ciascuno incorniciato in atmosfere distinte. Ecco allora un tratto più marcato in episodi come Gnomus o come Bydlo, nel quale il faticoso procedere del carro è tradotto in un suono greve, quasi materico. E i lampi iridescenti di Tuileries, del Balletto dei pulcini, di Limoges, coniugati attraverso leggerissime sfumature e differenze negli impulsi ritmici. O ancora il dialogo tra Samuel Goldenberg e Schmuyle, segnato dal contrasto che dipinge le due figure, con la voce nebbiosa della tromba in sordina che, sulle note gravi degli strumentini, diffonde il suo lamento querulo e indolente. Da ricordare anche l’atmosfera remota di Catacombae, intangibile nella sua austerità, e di percezione quasi tridimensionale grazie alla ricerca di distinti effetti orchestrali.
Insomma, nella sua pacata sicurezza, questa giovane bacchetta ha esibito qualità interpretative che puntano in profondità ; e infatti la sua performance è stata accolta con calore dal pubblico, e con attestati di stima dall’orchestra. Non posso non aggiungere però che, seduto com’ero in posizione laterale, tanto da poter osservare il volto del direttore, mi ha colpito l’assoluta, immutabile impassibilità della sua espressione, e quindi la completa assenza di quella maschera comunicativa che sempre collega dialetticamente le bacchette importanti con le loro orchestre. Molta tecnica, ma non altrettanto calore ? Il tempo ci dirà se le notevoli qualità mostrate da Peltokoski troveranno conferma, o se la sua fulminea ascesa sia anche frutto delle pressioni che, notoriamente, le agenzie importanti esercitano sugli enti di spettacolo, condizionandone parte delle scelte.