Il titolo dello spettacolo proposto a Messina per la 68° stagione concertistica dell'Associazione “Vincenzo Bellini” da Guido Barbieri e Michele Marco Rossi recita La belva. La mia vita contro la tua. Un ‘racconto morale’ per voce narrante e violoncello. Effettivamente, come emerge dai temi trattati nello spettacolo, proprio di un’“operetta morale” si tratta. Barbieri e Rossi portano infatti in scena la storia toccante di un sopravvissuto della Shoah, il pugile polacco Hertzko Haft (diventato poi, negli Stati Uniti, Harry Haft), costretto dagli aguzzini del campo di concentramento dove era rinchiuso a combattere fino alla morte contro altri prigionieri : da cui, appunto, il sottotitolo “la mia vita contro la tua”. In un momento dello spettacolo si fa anche riferimento all'altro genere di intrattenimento, oltre agli incontri di pugilato, voluto dai nazisti per alleviare la noia delle loro giornate nei campi di sterminio : la musica. Sono vicende molto note, ma vale comunque la pena di ricordare la tragica fine nel campo di Auschwitz-Birkenau della violoncellista Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler ; quella di Viktor Ulmann, che nel campo di Theresienstadt, prima di morire, scrive il suo capolavoro Der Kaiser von Atlantis ; e la storia di Olivier Messiaen, che da internato nel campo di Görlitz compone il suo quartetto-capolavoro, una meditazione apocalittica sulla fine del tempo, il Quatuour pour la fin du temps. Va ricordato che la musica – c’erano orchestre in tutti i lager – accoglieva i deportati al loro arrivo nei campi, passava soave sopra le loro teste mentre andavano verso la morte nelle “docce”, accompagnava nella loro discesa all’inferno le vittime ma anche i loro carnefici, incapaci di vedere l’incompatibilità tra un Lied di Schubert e l’abominio, tra l’Inno alla gioia di Beethoven e lo sterminio di milioni di innocenti.
La storia narrata da Barbieri (autore del testo) e Rossi parte dal libro di memorie scritto dal figlio del pugile protagonista, che in punto di morte si decide finalmente a raccontare al figlio, che l’ha sempre considerato un “mostro”, la sua terribile storia di sopravvissuto : a Birkenau, negli incontri di pugilato dove solo il vincitore poteva sopravvivere, Haft ha causato la morte di settantacinque persone, fra cui il suo migliore amico. Da questo libro verrà poi tratta la sceneggiatura per il film The Survivor. La violenta disumanizzazione subita nel lager rende Haft un padre brutale, inchiodato al proprio passato, privato di qualunque speranza e incapace di un autentico rapporto umano. Tuttavia, il fatto stesso di accettare alla fine di raccontare al figlio la sua vicenda – e si può immaginare quanto questo sia costato a ogni singolo sopravvissuto della Shoah, nel timore di non essere creduto – riannoda il filo dell’amore tra padre e figlio, rendendo forse possibile al pugile polacco, ormai giunto alla fine della vita, una conciliazione con il proprio passato di “belva del ring”.
Barbieri, che oggi scrive sul Manifesto, è stato per vent’anni critico della Repubblica ed è una voce “storica” di Radio Tre, ha una lunga e brillante carriera di autore di testi e libretti per grandi compositori italiani come Ennio Morricone, Ivan Fedele, Silvia Colasanti ; come voce recitante si è esibito con alcuni dei maggiori musicisti italiani ; come autore di testi teatrali, messi in scena in teatri nazionali ed esteri, ha collaborato con attori del calibro di Toni Servillo, Carlo Cecchi, Moni Ovadia, Sonia Bergamasco e altri. La sua esperienza e il suo talento attoriale vengono fuori dalla misura con cui restituisce in scena un testo come La belva, così gravido di dolore, di ingiustizia, di scandalo e di umanità tradita. La sua è una recitazione stilizzatissima, che mentre dà voce alla tragedia con impassibilità (quasi un recto tono : qui siamo di fronte a un tipo particolare di “sacro”) non concede il minimo spazio all'“effetto”, alla ricerca della facile commozione, alla doratura spettacolare. Anche da questo punto di vista, lo spettacolo è un “racconto morale”. L’idea che il dolore vada pronunciato a bassa voce, in punta di piedi e con infinito rispetto è rara in questi tempi di oblio del pudore e di irrefrenabile esibizione di sé : se qualunque racconto guadagna a essere narrato con ritegno, tutto ciò che pertiene alla Shoah dovrebbe essere raccontato solo così, dietro una invisibile maschera. La musica accompagna magnificamente l’azione. Michele Marco Rossi esegue, intervallando e quindi articolando la narrazione, la Sonata op. 25 n. 3 di Hindemith, Obstinate di Georges Aperghis, un brano di anonimo rinascimentale e Klingende Buchstaben di Alfred Schnittke. Il linguaggio atonale della musica per violoncello offre alla storia sostegno, commento, approfondimento, lenimento, finale trasfigurazione. Anzi, si vorrebbe osservare che qui la musica sembra assolvere alla funzione che il coro aveva nella tragedia greca : un po’ protagonista dell’azione (Rossi a tratti racconta e canta molto bene), un po’ ammonimento esterno, un po’ estrema, quasi paradossale consolazione.
La belva. La mia vita contro la tua, che ricorda cosa è stata la Shoah, è andato in scena mentre sfilano alla televisione le immagini dell'esercito israeliano che spara sulle autoambulanze palestinesi, mentre i medici rivelano di bambini di Gaza centrati al petto o in piena fronte dai “migliori tiratori del mondo”, mentre il Primo ministro israeliano Netanyahu, su cui pende un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità, viene ricevuto con tutti gli onori in Ungheria (e così verrebbe ricevuto in Italia, come ha dichiarato il nostro Ministro degli Esteri), mentre grandi donne come Edith Bruck e Liliana Segre non riescono a esprimere una sola parola di condanna per i crimini di Israele. I discendenti di quelli che subirono la Shoah sembrano oggi averla dimenticata in quella che appare un’insensata, folle coazione a passare finalmente dalla parte dei carnefici. Uno spettacolo come questo vale una scelta di campo : dalla parte delle vittime, sempre.