A proposito di una serie di interventi, con uno scambio conclusivo, pubblicati a varie riprese fino a inizio settembre su Repubblica in tema di “regie attualizzanti”. I protagonisti del dibattito che commentiamo sono Damiano Michieletto, noto per le sue regie trasgressive e attualizzanti, e Corrado Augias, che è competente su tutto e quindi anche sulle regie d'opera.

Per continuare la lettura, la nostra recensione del Rigoletto al Circo Massimo e il nostro dibattito sulla regia pubblicato durante il lockdown (Ved. sotto l'articolo)

 

Riprendere una querelle andata in pagina su un giornale, e specialmente su un quotidiano come Repubblica che si sta distinguendo per un sempre minore interesse verso la musica e la critica musicale, prima ridotta a un miserrimo francobollo puramente informativo, poi soppressa del tutto, significherebbe riconoscere al giornale un interesse verso l'universo della musica classica, dove invece questo manca del tutto. Non resistiamo, tuttavia, a intervenire di fronte al livello platealmente inadeguato degli argomenti addotti nello scambio conclusivo pubblicato mercoledì 2 settembre sulla Repubblica a firma di Damiano Michieletto e di Corrado Augias, in accordo sostanziale tra loro, sull'opportunità delle regie cosiddette “attualizzanti”.

La produzione di Rigoletto al Circo massimo dalla quale è nato il dibattito

Corre l'obbligo di un commento perché si possono anche avere idee sbagliate, fare scelte interpretative sbagliate e sostenerle con principi sbagliati, ma non si dovrebbero affrontare fenomeni complessi come la regia d'opera con un arsenale argomentativo tanto culturalmente povero. Michieletto è noto e chiamato dai teatri di mezzo mondo per le sue regie attualizzanti ; che significa, con le parole dello stesso regista, rese teatrali che si arrogano il diritto di cambiare « l'ambientazione reinterpretando anche radicalmente le indicazioni del libretto ». Dietro l'idea di dover rendere più moderne le vicende tanto datate dei libretti – di Trovatori pronti a gettarsi in una pira dall'orrendo fuoco non c'è più traccia da nessuna parte, a Parigi non si muore più di tisi da un pezzo e a Mantova, notoriamente, scarseggiano i Duchi dissoluti –, sta quella di una cattiva salute del teatro d'opera, della sua perdita di capacità espressiva rispetto al mondo che, nota Michieletto, « cambia a velocità vertiginosa ». Siamo vicinissimi a una diagnosi di “morte dell'arte lirica”, dove la regia attualizzante sarebbe, rispetto alla gravità del male di cui soffrirebbe l'opera, una sorta di estremo rimedio prima dell'eutanasia. Sostiene infatti ancora il regista che « arrivati al 2020, dobbiamo ammettere di aver sostanzialmente abdicato alla capacità di raccontare il mondo e la vita attraverso il linguaggio del canto e della recitazione » : quanto dire che o stravolgiamo completamente l'impianto narrativo, la fabula che viene raccontata nelle opere – perché nessuno riesce più a rispecchiarsi in « storie e musiche scritte in un altro contesto, per un pubblico che le fruiva con modalità completamente diverse » –, oppure perderemo definitivamente interesse per l'opera perché nessuno di noi ha più un'esperienza diretta di cosa significhi morire di tisi o sacrificarsi per i propri ideali.

Allineandosi alla prognosi infausta del suo interlocutore, aggiunge Augias dal canto suo che il punto di vista di Michieletto è « indiscutibile : l'opera lirica è un genere ormai in esaurimento [quanti titoli di opere contemporanee sarebbe in grado di citare Augias?], per essere goduto richiede conoscenza e attenzione ; farvi appassionare le nuove generazioni è difficile. Le (buone) ragioni innovatrici possono essere un rimedio : fatta ovviamente salva la domanda : è meglio tenere in vita un genere a costo di “diluirlo”? O mantenerne integra la purezza a costo di vederlo scomparire » ? Formulando la domanda di Augias in modo diverso e provocatorio : visto che nessuno capisce più I promessi sposi perché oggi tutti vanno a convivere senza sposarsi, le giovani di nobile famiglia monacate a forza non si trovano neanche nelle più trite serie televisive, i cattivoni non si redimono e nessuno ha la più pallida idea di quali siano i primi sintomi della peste, è lecito usare proficuamente le pagine del romanzo manzoniano come réclame per un sito di incontri “soddisfatti o rimborsati”, oppure si deve continuare a tenerlo lì nella libreria, come un oggetto pregiato, ma senza poterne più fare nessun uso ? Oppure ancora : visto che quel ferro vecchio della Commedia dantesca ci racconta le vicende remote di un tizio chiaramente démodé, che invece di andare a sgambettare al Billionaire intraprende un astruso viaggio attraverso i tre regni dell'oltretomba, facendosi accompagnare per i primi due terzi del viaggio da un poeta dell'antica Roma e per l'ultima parte da una sua vecchia fiamma che lo conduce fino alla contemplazione del Padreterno – o almeno così c'è scritto –, non sarebbe meglio riscrivere tutto quanto come un più stuzzicante e attuale viaggio on the road in compagnia per la prima parte di Eugenio Scalfari, che ha anche il physique du rôle, e per l'ultima da Lilli Gruber con tanto di tacchi a spillo e unghie laccate, fino ad arrivare alla contemplazione di Christine Lagarde, assisa solennemente sul soglio della Banca Centrale Europea, tutta circonfusa di luce e contornata da serafini ?

Concepire il problema della regia nel senso dell'alternativa “attualizzazione o morte dell'opera”, messa in pratica da Michieletto e teorizzata da Augias, è frutto di un madornale errore di fondo. Da sempre, senza sosta e rispetto a qualunque possibile forma d'arte – romanzi, sculture, partiture, poesie, dipinti, palazzi, installazioni, opere d'arte concettuale, orinatoi che diventano sculture, aragoste che si trasformano in cornette del telefono, “merde d'artista”, silenzi di quattro minuti e trentatré secondi che si spacciano per musica – la fruizione, e quindi l'interpretazione creativa come quella di un regista, implica il confronto tra l'orizzonte dell'opera e quello del suo destinatario, cioè la messa in relazione di codici e universi diversi. Non sempre il confronto è pacifico : a volte è difficile e richiede la mediazione di tutta la cultura di cui dispone il fruitore ; altre volte l'orizzonte in cui l'opera si inscrive è tramontato da un pezzo e va ricostruito accuratamente per decifrarne il senso, magari anche con l'aiuto di apparati filologici, specialmente nel caso in cui la vicenda di trasmissione dell'opera si sia interrotta per molto tempo e il destinatario debba fare un sovrappiù di sforzo ermeneutico per mettersi in contatto con l'universo ideologico che l'ha generata. In tutti i casi, tuttavia, per capire e apprezzare un'opera d'arte non è necessario che l'opera faccia riferimento diretto ed esplicito al nostro mondo : attivando quello che Umberto Eco chiama l'“Enciclopedia”, cioè il complesso della nostra cultura con tutti i suoi codici e sottocodici, si riesce sempre a calarsi nell'universo di senso dell'opera per come è stata creata, a stabilire un contatto con lei e spesso ad accogliere il tesoro di significato che vi è contenuto. Appunto, però, ci vogliono impegno e cultura : che in questo senso è una parola magica. Presumere invece di fare cultura con una regia d'opera attualizzante, che elimini il lavoro faticoso ma esaltante della mediazione culturale ricontestualizzando la trama in un orizzonte familiare al destinatario – fornendo così falsi appigli per la decifrazione del suo senso –, significa non fare cultura affatto, rinunciare alla “fusione di orizzonti” tra opera e destinatario, ammiccare al pubblico mentre si tradisce la sua legittima attesa di mettersi in contatto con l'autenticità dell'opera. Oppure, come dice Michieletto, significa “creare uno spettacolo emozionante” – che durerà infatti il tempo di un'emozione.

Altra produzione che aveva provocato dibattiti, La Traviata nella regia di Tcherniakov alla Scala (2013)

       A proposito della Traviata evocata nello scambio di Repubblica, è falso quindi sostenere che per apprezzarla occorra passare per un'attualizzazione, è sbagliato pensare che per immedesimarsi nella storia di una donna del demi monde parigino malata a morte si debba conoscere il decorso traditore delle malattie polmonari, aver giocato d'azzardo, avere una figlia da sposare bene, condividere il sistema di valori per il quale una famiglia rispettabile deve evitare di imparentarsi con una donna di dubbia reputazione, essere edotti del complesso mondo sociale che ruotava intorno alla prostituzione nella Parigi dell'Ottocento (si confronti a tale proposito l'interessante analisi sulle stratificazioni della prostituzione nella società parigina ottocentesca condotta in P. Isotta, Verdi a Parigi, Marsilio, Venezia 2020). È vero invece che al di là della trasformazione odierna delle prostitute in escort (che suona evidentemente meglio), della sparizione della tisi a vantaggio di più attuali virus made in China, e di un sistema di valori che è cambiato rispetto al tempo di Verdi, La Traviata resta un'opera di impatto travolgente perché parla del sacrificio senza tempo di un'eroina per il bene dell'amato ; che Violetta potrebbe anche non essere una cocotte (come era uso a volte nei teatri dell'Ottocento, per esempio al Vittorio Emanuele di Messina), e conservare intatta la sua carica tragica. Per fare un altro esempio di eroina sacrificale, la Fantine dei Misérables di Victor Hugo si immola in uno degli esempi più strazianti dell'intera letteratura : sedotta, abbandonata e ridotta nella più nera povertà, Fantine si fa tagliare i capelli per farne parrucche, strappare i bei denti per farne dentiere per i ricchi e sopporta qualunque privazione pur di mandare ai custodi della figlia Cosette il denaro per il suo mantenimento. Conta qualcosa che Fantine sia una ragazza sedotta e perduta della metà dell'Ottocento, dunque lontanissima da noi e dal nostro mondo ? Non conta : leggendo I Miserabili si piange davanti al sacrificio di una madre e al tentativo di un uomo buono di salvarla a tutti i costi. Per piangere abbiamo bisogno di trasportare Fantine e Jean Valjean ai nostri giorni e dare alla loro vicenda un appiglio d'attualità ? Occorre rivestirli di qualche maschera familiare – lei prostituta nigeriana, per esempio, e lui disoccupato precipitato nell'abbrutimento e nell'emarginazione ? Oppure servirebbe immaginare il seduttore di Fantine come un giovane viziato che va in giro firmato da Armani dalla testa ai piedi e non si accorge del prossimo ? Siamo proprio sicuri che abbiamo bisogno di attualizzarlo per apprezzare I miserabili ? Veramente la trasposizione modernizzante aggiungerebbe qualcosa a un romanzo meraviglioso ?

Passiamo al Rigoletto, pure citato nell'articolo. Direbbero Michieletto e Augias : chi mai si potrebbe ritrovare nella vicenda di un giullare di una corte rinascimentale la cui angelica figlia viene sedotta da un potente, che giura di vendicarsi ingaggiando un killer e alla fine si rende responsabile della morte della figlia, decisa a sacrificarsi per l'amato (e per lo stesso padre)? Chi mai potrebbe appassionarsi, oggi, a una storia del genere ? Si potrebbe rispondere : è così difficile trovare nel nostro quotidiano un uomo dalla doppia moralità, una ragazza che ama in maniera pura, un killer che attacca i nemici del padrone sui telegiornali o sulla carta stampata, e soprattutto un potente che organizza “cene eleganti” per poter sedurre liberamente giovani ragazze ? Non è difficile, esempi di questo tipo se ne trovano ovunque. Rigoletto può benissimo essere ambientato in uno dei tanti centri di potere politico di oggi, come è stato fatto mille volte ; ma, a dispetto di quello che pensano Michieletto e Augias, nell'attualizzazione si perde qualcosa. Infatti, anche se davanti alle opere è sempre più frequente assistere a una seconda trama d'invenzione del regista, che si sovrappone a quella autentica per lo più in direzione attualizzante, l'effetto è quasi sempre quello di una banalizzazione del messaggio e di un impoverimento, perché si procede abusivamente a estrarre dalle opere una parte del significato, che perde così il rapporto con l'insieme. Un'opera d'arte, qualunque opera d'arte, è un insieme solidale di elementi che concorrono alla costituzione della forma. Tutti gli elementi della forma stanno in rapporto reciproco, e basta una minima alterazione in un punto specifico a produrre un contraccolpo sull'intero. Scindere l'opera in “livelli” o in “aspetti” o in “dettagli”, prendendo in modo arbitrario qualcosa e lasciando fuori qualcos'altro, spezza l'unità formale, quella che Wagner nelle sue dettagliatissime note di regia sul Parsifal – peraltro puntualmente disattese, come nell'ultima regia di Graham Vick recensita su queste colonne –, chiama “sistema di nessi”. L'opera è un sistema di nessi nel senso che qualunque sua parte implica funzionalmente le altre. Uno può anche frantumare l'unità del Parsifal per ambientarlo in una sorta di “legione straniera” come ha fatto Vick, ma l'impoverimento complessivo dell'opera, che fra i vari strati del suo significato non può prescindere dal “sacro”, è veramente inaccettabile.

Detto questo, non è un caso che proprio con Wagner nasca il Regietheater : « Richard Wagner ha introdotto implicitamente la necessità della regia come elemento della costruzione del dramma » (G. Cherqui). La densità ideologica delle opere wagneriane, paradossalmente, lascia uno spazio maggiore all'interpretazione e dunque garantisce al regista un più ampio margine di scelta, eventualmente anche in senso attualizzante : la stessa sovrabbondanza di implicazioni ideologiche nelle opere di Wagner permette di tematizzare, volta per volta e con il massimo riguardo al suo “sistema di nessi”, aspetti diversi tutti contenuti in potenza nell'opera e conformi ai suoi assunti ideologici e assiologici. Al netto della minor caratura ideologica, occorre riconoscere che in via di principio questa operazione è legittima anche rispetto ad altre opere, qualunque altra opera : se è vera, com'è vera, la bella definizione secondo cui “un classico non ha mai finito di dire quello che ha da dire”, si può star certi che è sempre possibile estrarre dall'universo simbolico di un classico qualcosa che riguardi noi e la nostra attualità ; che il “classico”, effettivamente, parla sempre anche di noi. “Estrarre”, però, non vuol dire “estorcere”: bisogna sempre salvaguardare l'“unità contestuale” dell'opera, la conformità della resa interpretativa al sistema di valori che promana dall'opera stessa e, possibilmente, dal suo autore – anche se questo comporta da parte del regista la rinuncia a qualche effetto di immediato apprezzamento. È infatti possibile – gli esempi si potrebbero moltiplicare – una regia attualizzante che metta capo a una messa in scena integra, persuasiva, bilanciata alla perfezione nel rapporto tra azione drammatica e musica, sempre coerente dal punto di vista dell'intenzione di senso, coesa in tutte le sue parti e rispettosa delle intenzioni di chi l'ha creata : in questo senso l'attualizzazione, se condotta con consapevolezza culturale e responsabilità artistica, si pone all'interno del solco di una soddisfacente mediazione culturale, di un'interpretazione conforme agli assunti dell'opera. Proprio questo è il punto, tanto essenziale quanto rimosso dalla gran parte dei registi (attualizzanti e non): la consapevolezza culturale, il rispetto verso i classici, che sono oggetti fragili e complessi da maneggiare con cura. Ogni lettura, da quelle più tradizionali a quelle più trasgressive, comporta infatti necessariamente la sovrapposizione di codici personali e allotri all'universo semantico dell'opera ; in questo senso ha ragione Cherqui quando scrive che « tutto è Regietheater », che qualunque messa in scena implica una sovrapposizione e un'interazione di piani metalinguistici. Ma l'ineliminabile momento dell'“interpretazione” – che nella sua stratificazione storica contribuisce al significato stesso dell'opera, integrandolo ! – troppo spesso, se non è condotto con rigore e consapevolezza, degenera nel tradimento delle intenzioni espressive originali dell'opera. Questa profanazione, questo “uso” spregiudicato del testo, molto raramente vengono compensati dall'eventuale aumento di “sapidità” ottenuto con l'attualizzazione. Attualizzando – e crediamo che i registi siano perfettamente consapevoli di infliggere con questo una deminutio alle opere – la gran parte delle volte si perde più di quello che si guadagna. Un'opera attualizzata tende infatti a essere un'opera disinnescata perché viene spostata dal proprio baricentro espressivo e amputata del suo dialogo con la tradizione a favore di un ammiccamento, spesso superficiale, alla realtà presente.

L'Anello del Nibelungo (regia Patrice Chéreau) che scatenò un pandemonio nel 1976 al Festival di Bayreuth. Sulla foto L'Oro del Reno.

Concludiamo con una profezia. Mala tempora currunt, il Covid ha infierito ovunque nel mondo e promette di continuare a farlo a lungo. Ma quando la programmazione di opere e quindi di regie teatrali riprenderà regolarmente, assisteremo a un profluvio di messe in scena conformiste in cui qualunque nobile tisi, qualunque blasonata sifilide operistica – malattie che rimandano a tutto un mondo morale, teatrale, letterario, pittorico, cinematografico, culturale – saranno rese inesorabilmente dai vari registi come Covid, con tanto di mascherine, disinfettanti per le mani, termoscanner, scafandri da terapia intensiva e, naturalmente, tavoli di obitorio per gli eroi o le eroine falciati dal virus cinese. Violetta non morirà di tisi a Parigi, ma di Covid a Codogno monzese : contenti ?

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Sara Zurletti
Sara Zurletti si è diplomata in violino e laureata a Roma in Lettere con tesi in Estetica. Ha poi conseguito un dottorato di ricerca all'Università Paris 8. Ha insegnato nella stessa università "Teoria dell'interpretazione musicale" e poi, dal 2004 al 2010, Estetica musicale all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e Pedagogia musicale all'Università di Salerno. Ha pubblicato "Il concetto di materiale musicale in Th. W. Adorno" (Il Mulino, 2006), "Le dodici note del diavolo. Ideologia, struttura e musica nel Doctor Faustus di Th. Mann" (Biblipolis 2011), "Amore luminoso, ridente morte. Il mito di Tristano nella Morte a Venezia di Th. Mann" (Castelvecchi), e il libro-intervista "Ars Nova. ventuno compositori italiani di oggi raccontano la musica" (Castelvecchi 2017). Attualmente insegna Storia della musica al Conservatorio "F. Cilea" di Reggio Calabria.
Crediti foto : © Yasuko Kageyama (Rigoletto)
© Brescia / Amisano Teatro alla Scala (Traviata)
© Bayreuther Festspiele (Oro del Reno)

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1 COMMENTAIRE

  1. Secondo me si parla troppo. Neanche Vasari ha speso tante parole per "illustrare" le vite e le opere dei grandi maestri del '500. Credo che la convinzione principale per un regista debba essere il ritenere che ogni materiale da rappresentare debba essere considerato come MATERIALE DI RICERCA, sentendosi così responsabile di farne una PRIMA MONDIALE ASSOLUTA. Se il "materiale" è opera d'arte, se il regista è un artista, se gli esecutori (interpreti e tecnici) sono artisti, allora il pubblico lo avvertirà sentendosi coinvolto emotivamente. Il resto è solo occasionale, è solo frutto inevitabile di una data : il prima, l'ora, il dopo (con tutta la fatica per riconoscere e accettare).
    Ultimamente ho visto spettacoli bellissimi come "Orfeo ed Euridice" (Gluk) regia di Carsen, "Nozze di Figaro" e "Don Giovanni" (Mozart) regia di Vick, "Damnatione de Faust" regia di Michie letto, "Rigoletto" regia di Michieletto.
    .…. è "SOLO" questione d'essere artisti !
    Un suggerimento per il pubblico : SIATE DISPONIBILI, INTELLIGENTI E LIBERI!!!

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