Venezia, Basilica di San Marco 21 settembre, ore 21

Venezia, Teatro alle Tese dell’Arsenale, 22 settembre, ore 20

Venezia, Sala d’armi dell’Arsenale, 23 settembre, ore 18

Venezia, Tese dei soppalchi dell’Arsenale, 23 settembre, ore 20

Helena Tulve (1972) Visiones per ensemble vocale, cori spezzati e ensemble strumentali (2022, 90’) prima es. ass. – commissione La Biennale di Venezia

libretto Helena Tulve dai frammenti di sacra rappresentazione ritrovati da Giulio Cattin a Santa Maria della Fava e dal Vangelo gnostico di Maria Maddalena

 

(transetto)

nyckelharpa Marco Ambrosini, Angela Ambrosini

kannel Anna-Liisa Eller

tiorba Alvise Zanella

contrabbasso barocco Amleto Matteucci

dulciana Maestro Michele Fattori

 

Vox Clamantis (transetto)

soprani Anna Mazurtšak (Maria Maddalena), Mari-Liis Urb (Maria), Anete Peäske (solo)

contralti Susanna Paabumets (Maria Salome), Saale Kreen (angelo), Miina Pärn (angelo), Kadri Hunt (solo)

tenori Sander Pehk (evangelista), Mikk Dede, Sakarias Jaan Leppik, Meelis Kesperi

baritono Taniel Kirikal (Gesù)

basso Aare Külama, Ott Kask (Pietro)

 

direttore : Jaan-Eik Tulve

 

Coro della Cappella Marciana (cantorie)

soprani Maria Chiara Ardolino, Caterina Chiarcos, Maria Clara Maiztegui, Elena Modena, Maria Cristina Rinaldi, Zoya Tukhmanova

contralti Maria Baldo, Lucia Gemmani, Monica Serretti, Annalisa Susanetti

tenori Enrico Imbalzano, Tommaso Maggiolo,  Riccardo Martin, Francesco Triccò, Gian-Luca Zoccatelli

bassi Giovanni Bertoldi, Thomas Mazzucchi, Luca Scapin, Marcin Wyszkowski

organo Alvise Mason

direttore : Marco Gemmani

 

Ensemble barocco del Conservatorio "Benedetto Marcello" di Venezia (navate)

soprani Marianna Acito, Martina Candida, Anastasia Fedorenko, Yiru Liu, Yangchun Ou, Caterina Schenal

contralti Talita Cotta, Aldar Dashiev, Anna Dobrucka, Costanza Giannino, Liu Rungdong, Shiho Yamaura

 

violini barocchi Daniel Jankovics e Sebastiano Franz

viola da bravo Elena da Pieve

viole da gamba Marcello Alemanno, Alberto Casarin, Carlo Santi

corni Marco Cucchi, Davide Saturno

direttore : Francesco Erle

regia : Marius Peterson

produzione La Biennale di Venezia

in collaborazione con Basilica e Procuratoria di San Marco

Venezia, 21–23 settembre 2022

Per il secondo anno del suo mandato di direttrice artistica del Settore Musica della Biennale di Venezia, Lucia Ronchetti ha scelto il titolo “Out of Stage”. Personalmente trovo stucchevole la moda di condensare in una formuletta di due o tre parole il campo d’azione di un festival, ma devo riconoscere che il titolo trovato dalla Ronchetti è piuttosto efficace. In pratica prosegue il percorso iniziato l’anno scorso, quando il tema del festival era stata l’esplorazione delle potenzialità enormi della voce umana, che è il più antico strumento e soprattutto il principale mezzo che gli umani hanno per comunicare, dunque porta inevitabilmente con sé delle connotazioni espressive e teatrali.

Infatti nelle composizioni in programma a Venezia lo scorso anno (e nell’opera della Ronchetti stessa, che però non ha giustamente deciso di non programmare le proprie composizioni) la dimensione concertistica e la dimensione teatrale convivevano e si mescolavano in modi diversi e in varie percentuali, ma sempre erano inestricabilmente allacciate. Questa volta l’accento è posto più sul teatro che sulla voce, ma sostanzialmente si è continuato a esplorare il fertilissimo rapporto voce-teatro.

La Ronchetti attribuisce un ruolo determinate anche ai luoghi della rappresentazione e ha commissionato per i festival vari lavori site-specifc : in teoria un’ottima scelta, in linea con un importante filone dell’arte odierna, ma personalmente non sono troppo d’accordo, perché creare delle opere musicali site-specific rischia (se il principio viene applicato rigidamente) di condannarle ad un’unica esecuzione, come un ritorno, mutatis mutandis, alle grandi feste barocche, che erano ideate apposta per essere eventi unici ed irripetibili ed infatti ora possono essere ricostruite solo in modo ipotetico, approssimativo, riduttivo e in definitiva deludente. È vero che la nostra è un’epoca barocca, ma siamo sicuri di voler ritornare all’età di Ferdinando de’ Medici e di Louis XIV, ammesso che ciò sia possibile ?

Purtroppo ho assistito abbiamo assistito a soli tre giorni del festival su quindici. Posso quindi dire qualcosa solamente degli spettacoli-concerti cui ho assistito. La prima sera (21 settembre) ero nella Basilica di San Marco per la prima esecuzione assoluta di Visions, una commissione della Biennale a Helena Tulve. Questo ampio lavoro corale della durata di novanta minuti si basava su frammenti manoscritti di drammi liturgici veneziani in latino, che furono scoperti nel 1994 da Giulio Cattin nella chiesa di Santa Maria della Fava e da lui trascritti ; a questi testi sono stati intercalati frammenti in lingua copta del vangelo gnostico di Maria, scoperto a Berlino nel 1955.

Della Tulve si dice spesso che prosegue la ricerca compositiva di Arvo Pärt, perché – oltre ad essere entrambi estoni – si riallacciano alla musica medioevale e in particolare al canto gregoriano e alla musica sacra. Ma, a giudicare da Visions, la Tulve sembra piuttosto lontana dal più anziano compatriota. Pärt è fondamentalmente ascetico, preferisce togliere piuttosto che aggiungere, e cerca di ricreare il misticismo che noi immaginiamo aleggiasse nelle piccole chiese medioevali disperse nell’immensità semispopolata dell’estremo nord dell’Europa. La Tulve invece, pur riecheggiando il canto gregoriano, usa un organico ampio, perfino fastoso : il coro estone Vox Clamantis (splendido) e un piccolo gruppo di strumenti antichi raggruppati nel transetto, la Cappella Marciana (voci e organo) collocata nelle due cantorie disposte in alto ai lati dell’abside, le voci e gli strumenti dell’Ensemble Barocco del Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia scaglionati nelle due navate laterali. Talvolta i vari gruppi effettuavano piccoli spostamenti per realizzare speciali effetti acustici o davano vita a piccole processioni per creare un minimo di azione teatrale.

La prima delle sei parti di Visions usava quest’organico al gran completo, ottenendo – grazie anche alla particolarissima acustica della basilica marciana – grandi effetti d’eco, possenti risonanze, sonorità avvolgenti provenienti da ogni direzione, che volevano essere una reinterpretazione moderna dei cori battenti usati per le festività solenni dai Gabrieli e dagli altri compositori attivi a San Marco tra Cinque e Seicento. Si potrebbe osservare che tale grandiosità era riservata alle grandi festività della repubblica veneta ed era totalmente estranea alla semplicità dei drammi liturgici tardo-medioevali. Ma non è la filologia che bisogna cercare in questo tipo di operazioni. Piuttosto è sembrato che questa opulenza e questa spettacolarità del suono non appartenessero alle corde più autentiche della Tulve.

Nelle altre cinque parti di Visions gli effetti spettacolari erano evitati o comunque ridotti, ma la Tulve dava l’impressione di faticare a trovare un suo percorso personale. La compositrice estone, che è indubbiamente una figura di rilievo nel mondo musicale contemporaneo, ha creato però alcuni momenti suggestivi, che quasi sempre nascevano dalla sua sensibilità per il timbro. Mi riferisco per esempio al momento in cui i giovani dell’Ensemble Barocco del Conservatorio suonavano delle primitive glassarmoniche, facendo giungere dalla penombra delle navate laterali un suono immateriale e misterioso.

In definitiva non si è evitato il rischio insito nel site-specific, particolarmente quando il sito è una meraviglia come la basilica di San Marco, che con la grandiosità dell’architettura, lo splendore dei mosaici dorati e l’acustica unica e sorprendente ha catturato la vista e l’udito degli spettatori, cosicché l’opera d’arte ha rischiato di passare in secondo piano.

Il giorno dopo ci si trasferiva al Teatro alle Tese (II) dell’Arsenale veneziano, una cornice molto più dimessa, che certamente non rischiava di soverchiare l’opera. Veniva rappresentato Çiatu di Paolo Buonvino. Un’opera ? Non proprio. C’era un regista (Antonello Pocetti) ma non c’era una regia : cantanti e strumentisti erano tutti sul palcoscenico dietro i loro leggii e solo i tre cantanti si sono permessi una qualche gestualità. C’era una costumista (e che costumista : Maria Grazia Chiuri, direttrice artistica della maison Dior) ma non c’erano costumi, perché le donne indossavano semplici tuniche nere e gli uomini smoking “semplificati”. C’era una scenografa (la nota artista Irma Blank), ma quasi non c’era scenografia, se non tre archi sullo sfondo, i cui fornici erano come pagine su cui fossero tracciati testi ormai sbiaditi e illeggibili.

In siciliano Çiatu significa fiato, nel senso di respiro, ma spesso viene usato in espressioni d’affetto per dire “anima mia”, “vita mia”. Ai testi popolari siciliani Buonvino ha accostato altri testi in cui il fiato è considerato l’origine e il fondamento della vita : testi per lo più antichissimi, a cominciare dalla Genesi, e in tante lingue diverse, quali ebraico, arabo, cinese, persiano, latino, senegalese, francese e italiano. Tali testi non potevano e non volevano configurare una vicenda drammatica tradizionale, eppure avrebbero sicuramente suscitato un’eco profonda negli ascoltatori… se solo fosse stato possibile capirne il significato. Ma le lingue in cui erano cantati erano sconosciute alla quasi totalità degli spettatori e anche leggendo il libretto era impossibile capire quali testi fossero intonati in quel determinato momento, cosicché si è assistito ad un evento dai significati oscuri, eppure non privo di un suo particolare fascino.

Çiatu era definito un “teatro musicale sperimentale”, ma questo farebbe supporre una dotazione tecnica e una struttura drammaturgica molto complesse. Invece quello che è piaciuto del lavoro di Buonvino è proprio la sua semplicità (e brevità). Buovino è un ottimo compositore, ma il suo campo è la musica da film e ha “orgogliosamente” scritto musica da film : una melodia carezzevole e venata di tristezza, pochi strumenti (l’autore stesso al pianoforte e il PMCE di Roma diretto da Tonino Battista) e una leggera elaborazione elettronica. Più originale la parte dei tre vocalist (l’italiana Rossella Ruini, il palestinese Faisal Taher e il senegalese Badara Seck) a cui erano affidati canti tradizionali scelti insieme a Buonvino e interpretati con quel margine di libertà che è insito nella musica popolare. Colpiva la tecnica vocale originalissima del griot senegalese Seck, che però tendeva a sconfinare in un protagonismo che appariva fuori luogo in questo contesto.

Il terzo e ultimo giorno alla Sala d’Armi dell’Arsenale si è potuto sperimentare Sleep laboratory, del tedesco Alexander Schubert. Gli spettatori venivano fatti entrare a coppie in uno spazio delimitato da tende, prendevano posto uno su un lettino e l’altro su una sedia, indossavano visori e auricolari e venivano guidati in un viaggio nella realtà aumentata : l’aspetto tecnologico sembrava elementare ed ingenuo, la parte musicale era ancora più elementare. Insomma, pur essendo Schubert non un esordiente ma un quarantenne piuttosto noto nel suo campo, questa “performative sound installation” sembrava al sottoscritto – che deve confessare di essere un profano nel campo – un innocuo e rilassante (e inutile) gioco.

La sera dello stesso giorno, sempre all’Arsenale ma alle Tese dei Soppalchi, era la volta di Biennale College, un progetto che da alcuni anni seleziona dei giovani musicisti, cui vengono affiancati docenti e compositori esperti che li consigliano e li guidano nell’ideazione e realizzazione di un loro lavoro, che viene poi presentato al pubblico. Quest’anno il risultato è stato deludente rispetto agli anni precedenti. Giustamente quel che abbiamo sentito/visto non era definito concerto ma performance, che indica qualcosa di più indefinito, instabile, transitorio, aleatorio. Il primo compositore-performer era il ventisettenne Jacopo Cenni, che in Hunt è seduto al centro del palco e manovra un computer che produce suoni elettronici, entrando in conflitto con la luce prodotta da alcune lampade, da cui appare dapprima spaventato, poi incuriosito : infine cerca di soggiogare la luce : questa è – riassumendo – la presentazione scritta dal compositore stesso. Mentre Cenni sembrava avere già una qualche capacità di dominare il materiale sonoro e visivo alla base della sua composizione, lo stesso non si poteva dire di Tania Cortés, trentenne autrice del lavoro successivo, Rizoma. Anche qui la compositrice-esecutrice era al centro del palco e produceva suoni elettronici e stimoli visivi, che avrebbero dovuto richiamare il vissuto degli spettatori, “dando così origine a infinite narrazioni. Questo approccio attiva una rete interconnessa di associazioni personali nelle quali si creano legami invisibili tra gli spettatori”: lascio alla Cortés la responsabilità di queste parole, di cui non sono riuscito a trovare la corrispondenza con quanto visto e sentito.

In conclusione, ho lasciato Venezia dopo aver assistito nei due primi giorni a spettacoli (Visions e Çiatu) non privi di qualche reale motivo di interesse, mentre la terza e ultima giornata è stata piuttosto deludente, avendo offerto due proposte entrambe piuttosto inconsistenti : ma non si può pretendere di trarne delle conclusioni sull’intero festival.

 

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Mauro Mariani
Mauro Mariani ha scritto per periodici musicali italiani, spagnoli, francesi e tedeschi. Collabora con testi e conferenze con importanti teatri e orchestre, come Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Maggio Musicale Fiorentino, Fenice di Venezia, Real di Madrid. Nel 1984 ha pubblicato un volume su Verdi. Fino al 2016 ha insegnato Storia della Musica, Estetica Musicale e Storia e Metodi della Critica Musicale presso il Conservatorio "Santa Cecilia" di Roma.

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