“Noi danziam sull’orlo d’un vulcan!”: a dare un senso più profondo e allusivo a queste parole ci pensò la storia, ben più di quanto non faccia il libretto della Vedova allegra di Franz Lehár. Nell’operetta il protagonista maschile Danilo Danilovic associa valzer e vulcani dopo che il suo sentimento ferito lo fa inveire contro Hanna Glawari, la vedova che lo turba, e che gli appare “troppo libero-scambista”; ma nel suo delirio di innamorato, nel pieno di una schermaglia con sé stesso prima che con l'amata, Danilo pronuncia altre parole – “equilibrio europeo”, “guerra” – che col senno di poi diventano vaticini pesanti come lapidi. A Vittorio Sgarbi, regista della produzione andata in scena al Teatro di Catania, la dimensione del futuro, rispetto a una creazione che precede di pochi anni la Grande Guerra, sembra tuttavia interessare ben poco : Sgarbi regola il suo approccio al lavoro musicato da Franz Lehár in senso sincronico, e vede nell'operetta la fissazione di un momento la cui cifra a livello artistico si può riassumere nello stile liberty, a livello ideologico nella fine consapevole della Belle époque. Su queste premesse, Sgarbi rende credibile – oltre che ancora viva e divertente – La vedova allegra alludendo discretamente a una dimensione onirica : dove il sogno, prima di essere materia eletta nel senso di Freud, è ancora sogno ad occhi aperti di personaggi che vogliono abbandonarsi a un sensuale oblio.
L'impianto scenico, con proiezione sullo sfondo di immagini fra cui dominano gli sfarzosi interni delle Terme Berzieri di Salsomaggiore, si completa con specchi che fanno da quinte laterali (che forse qui sarebbero stati preferibili con una cornice anch’essa in stile art nouveau). L’impostazione funziona : non perché nel 1905 ci fosse solo il liberty, ma perché quello stile è sia accogliente rispetto alle istanze estetiche precedenti, sia connotato – dal punto di vista odierno – come arte senza tempo, elegante sigla metastorica di evasione, distacco e disimpegno. E questi caratteri, in termini letterari e musicali, sono rintracciabili anche nella Vedova allegra. La produzione di Catania, accanto alla regia di Sgarbi, propone la brillante direzione d’orchestra di Andrea Sanguineti, che restituisce lo slancio elegante degli andamenti di valzer e la vaporosa adesione sentimentale della musica. I tempi tendono a volte un po’ a dilatarsi quando Sanguineti accompagna i protagonisti, non sempre del tutto a segno nel cogliere il carattere dell’opera. Della vocalità di Silvia Dalla Benetta (nel ruolo di Hanna) non si può che dire bene, ma in diversi momenti – su tutti nell’aria della Vilja – Dalla Benetta rincorre un’intensità che non sembra appartenere a questa musica. A confronto Fabio Armiliato appare meno smagliante quanto al timbro, ma le sue intenzioni espressive – sia musicali che nelle parti recitate – delineano un Danilo più che convincente. Manuela Cucuccio è una vivace Valencienne, Emanuele D’Aguanno un appassionato Rossillon, mentre Armando Ariostini (barone Mirko Zeta) si fa perdonare per la sua classe qualche défaillance vocale. Buona la prova del coro – diretto da Gea Garatti Ansini – e del corpo di ballo del teatro. Nel successo di tutti, spicca il più che festeggiato Tuccio Musumeci : certo, gioca in casa (l'attore è una colonna storica del teatro di prosa a Catania), ma è veramente irresistibile nel ruolo di Njegus.