Hector Berlioz (1803–1869)
La Damnation de Faust (1846)
Légende dramatique en quatre parties
Libretto di Hector Berlioz, Almire Gandonnière, Gérard de Nerval da Goethe

Direttore musicale : Daniele Gatti
Regia : Damiano Michieletto

Maestro del coro Roberto Gabbiani
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Roca Film
Movimenti mimici Chiara Vecchi

 

Interpreti
Faust Pavel Černoch
Méphistophélès Alex Esposito
Marguerite Veronica Simeoni
Brander Goran Jurić

 

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Teatro dell'Opera di Roma, 12 dicembre 2017

La scelta di inaugurare la stagione dell’Opera di Roma con La Damnation de Faust è assai corragiosa nel contesto, perché il titolo non è realmente un’opera lirica ma una leggenda drammatica, perché il pezzo è difficile,  raro assai, poco conosciuto dal pubblico
L’inaugurazione permette di verificare lo stato delle truppe, orchestra e coro, e nello stesso tempo di focalizzare l'attenzione su una produzione che deve essere singolare, se non eccezionale. Le discussioni aspre che essa ha suscitato sui social networks dimostra che ha pienamente raggiunto l’obiettivo.  Un spettacolo ambizioso, forte, qualche volta sconcertante, musicalmente di grande interesse colloca l’opera di Roma all’apice dei Teatri italiani. 

 

 

Il pubblico è invitato a due ore senza pausa di uno spettacolo concepito come quadro vivente, scandito in piccole scene a volte discontinue che sottolineano la drammaturgia assai assente dell’opera, paragonabili a quelli affreschi che raccontano episodi delle vite dei santi oppure biblici : Damiano Michieletto impone l’idea religiosa, come se si trattasse di quello che oserei chiamare “messa bianca”, visto che il colore bianco s’impone, un bianco clinico e asettico.

Ogni scena ha il suo titolo, da La veillée (la veglia) alla Damnation (Dannazione), come un percorso, come la successione di stazioni in una Passione. Il coro sta sopra, come un coro d’angeli barocchi. In questo senso, la produzione sta bene a Roma. Senza dubbio questa eleganza e quest'estetismo non offrono una visione abituale del dramma.
Singolare la visione di un Faust adolescenziale, depressivo e solo, che dorme vicino alle sue pillole, agli avanzi di un McDo, e a un libro d'arte aperto alla pagina del Paradiso di Cranach, singolare anche un Mephisto che non ha nulla di diabolico, ragazzaccio simpatico che fin dall’inizio e prima che Faust lo incontri costruisce la trappola, singolare anche la presenza di Margherita ben prima del momento abituale, come figura dal sogno edenico degli amori dell’infanzia persa.
L’infanzia infatti ha un’importanza notevole nella visione di Michieletto : certo Faust è giovane, appena uscito dall’adolescenza, con la sua relazione problematica al padre e anche probabilmente alla madre, e che va perso nei suoi sogni, davanti al suo doppio-bambino che incontra anche lui una bambina, il doppio di Margherita, come se tutto fosse solo un delirio in stato semi-comatoso di un Faust erratico.
C’è in questa Damnation uno sguardo clinico e agghiacciante, qualcosa di medico (Faust giace anche su un letto d’ospedale) in uno spazio scenico quanto più vario che Michieletto usa una steadycam (come Frank Castorf e tanti registi oggi) che trasmette sullo schermo quello che lo spettatore non può vedere, scene dietro le quinte o primi piani sui personaggi .

Mephisto è il regista di una storia che esplose sotto vari punti di vista, e Faust è il suo strumento.
Parecchi momenti sono magnificamente messi in scena :

  • La marcia ungherese, dove Michieletto sceglie di non far vedere la violenza della guerra, ma quella forse ancora più agghiacciante del bullismo tra studenti coetanei dove Faust è capro espiatorio, umiliato e rigettato.
  • L’incontro con Margherita, metafora di quella di Adamo ed Eva, in una scena fatta da immagini dell’Eden di Lucas Cranach (allusione alle radici medioevali della storia), con video ma anche elementi scenici, come se fosse un’illusione barocca non senza l’ironia di un neon dov'è scritto “Paradisus” e di un Mephisto che vediamo vestirsi da simpatico serpente da commedia.
  • Le ultime scene, quelle di Margherita perduta, di Faust lacerato dal rimorso, e la dannazione finale che fa passare la scena dal bianco al nero : il bianco è coperto di un velo di plastica nera, Mephisto, Faust, Margherita si coprono di pece o di petrolio, sostanza vischiosa che soffoca i corpi e copre i vestiti : non c’è più nulla della relativa leggerezza dell’inizio della storia e si crea una tensione al limite del sopportabile.
  • L’ultima immagine, apoteosi barocca dove il palcoscenico è invaso da personaggi con candele tremolanti, con al centro Margherita e una bara bianca già vista all’inizio, è impressionante di bellezza e di emozione.

 

Damiano Michieletto ha trasformato l’universo creato da Berlioz in un universo mentale, sbarazzato da ogni tipo di romanticismo ingombrante, ma centrato sulla perturbazione psichica di un giovane che non è "al mondo" e che cerca una via d’uscita. Invece incontra una voce, quella di Mephisto che non ha nulla di diabolico, tutto vestito di bianco come un mago da Music-Hall (costumi di Carla Teti), che vuole a tutti costi divertirsi con i figli del mondo che percorre, violentando Margherita e baciando Faust golosamente.
Ma nello stesso tempo il dispositivo scenico e la maniera di organizzare la trama rinvia a quadri religiosi con questo coro fisso che domina la scena, e questa Damnation sembra la parabola di una modernità ammalata che si perde, e dove si perdono gli esseri come abbandonati dal mondo. Anche se Margherita, tra bambina, essere fantasmatico e Eva in paradiso non trova sempre la sua coerenza. Ma il personaggio non è molto approfondito da Berlioz.

E’ un lavoro sui riferimenti letterari e culturali dell’epoca : Musset e la sua Confessione di un figlio del secolo (di 10 anni anteriore alla Damnation) e lo Spleen di Baudelaire. E Damiano Michieletto riesce ad intrecciarli nello stesso tempo – e forse è questa la sua grande riuscita – con l’immagine di una Dannazione del nostro mondo, tracciando un arco tra i miti letterari dell’ottocento e quelli cinematografici del mondo contemporaneo (c’è ad esempio una parentela di certe immagini con quelle di Terence Malick). Grande spettacolo.

A questa visione fortissima corrisponde un disegno musicale non meno convincente. La direzione di Daniele Gatti va al contrario della tradizione e propone uno sguardo nuovo su questa partitura : Gatti cerca di esaltarne le raffinatezze con grande cura al colore, alla chiarezza e alla limpidezza, facendo sentire tutti gli strumenti con dosaggi sottilissimi, mettendo a prova (con esiti molto belli) un’orchestra non abituata a questo repertorio di difficile esecuzione tecnica. Ne risulta un suono spesso alleggerito, molto fine, che esalta momenti di sensibile lirismo .
Gatti comunque non dimentica neanche il Berlioz romantico e “scapigliato”, con i suoi contrasti e le sue tempeste : ma tutto viene strettamente controllato. La Marcia ungherese è presa con un tempo vivace, rapido. La corsa all’abisso è letteralmente antologica e gli ultimi momenti sono davvero sublimi. C’è come una graduatoria nell’intensità, senza mai rinunciare alla chiarezza, alla raffinatezza, senza mai cadere nel chiassoso, anche nei momenti più favorevoli agli eccessi, l’orchestra dell'Opera accompagna sempre la trama con delicatezza.
Certe ultime produzioni musicali di Daniele Gatti in Italia sono nate dal suo periodo parigino, che sia il suo Pelléas fiorentino o questa Damnation. Imporre questo repertorio ad un pubblico poco pratico è un segno di audacia. E Berlioz era anche lui audace…
Anche se Daniele Gatti tiene conto come si è visto dal periodo romantico (come non tenerne conto ?), s’interessa anche, dal punto di vista del colore, al Berlioz che sta guardando il passato ancora vicino, Beethoven che ammirava tanto,  e anche Cherubini la cui influenza sul mondo musicale francese rimane oggi assai poco studiata : propone un Berlioz forse più asciutto e classico. Ma come si sa, i classici hanno sempre scritto “romanticamente”, come diceva il critico ottocentesco francese Saint-Beuve.

Gatti accompagna e dirige con un’attenzione di ogni istante un cast non idiomatico, ma che in questo spettacolo volontariamente non “gallicano” prende tutto il suo senso.
Il Faust di Pavel Černoch reduce dai suoi Don Carlos parigini non è pratico della partitura e dello stile come lo potrebbe essere un Michael Spyres, non ne ha neanche la qualità timbrica, ma è il personaggio voluto dalla regia, fragile a livello psicologico, giovanile, con voce ben impostata, e molte raffinatezze, soprattutto nella seconda parte : riesce ad imporre un Faust giovanile e assente, solo, perduto, abbandonato e comunica una vera emozione. Non sarà un modello di fraseggio francese, anche se la dizione è chiara, ma è una figura coerente, presente scenicamente e particolarmente sensibile. Un bel Faust fuori dagli schemi.
Veronica Simeoni era Margherita, con dizione assai chiara, ma con un’espressività che non riesce mai a commuovere. La prestazione non è mediocre, ma ci manca la convinzione, anche se, come già detto, non si può dire che Berlioz si sia interessato al personaggio a livello drammaturgico. Il suo “Autrefois un roi de Thulé” è correttamente eseguito, ma vale soprattutto per il sublime accompagnamento dell’orchestra. “D’amour l’ardente flamme” mi è parso invece un po’ freddo.
Goran Jurić era un Brander soddisfacente, vestito da paillettes d’artista da supermercato, intrusione volgare e volontariamente “altrove”; e la sua “Chanson du Rat” vale anche per il topone che ricordava un po’ i topi di Neuenfels nel Lohengrin di Bayreuth qualche anno fa.

Quello che domina tutto il cast è Alex Esposito a tutti i livelli. È un attore che s’impossessa della parte per farne una cosa del tutto personale, ancora meno mefistofelico del personaggio originale di Berlioz. Si burla di tutto, e del mondo e delle persone, e si diverte a fare del mondo e delle persone ciò che vuole. È un manipolatore geniale e anche simpatico, centro di tutta l'attenzione. Vocalmente, con fraseggio perfetto, con una dizione che rende tutto il testo chiarissimo, con un’espressività stupefacente, compone un Mephisto tra i più originali, intelligenti, senza mai essere conforme alla tradizione : un personaggio affascinante, con tanti aspetti diversi, ma anche con una certa unità. Riesce a far sentire, sotto la leggerezza, la complessità della parte.
Il coro diretto da Roberto Gabbiani è stato veramente magnifico, in una partitura dove interviene tanto, la sua presenza angelica oppure spettrale (dipende…) s’impone a livello visivo e vocale. Si sente il lavoro intenso di preparazione. Lo stesso per l’orchestra di cui abbiamo sottolineato la perfetta sintonia con Daniele Gatti : la prestazione è veramente ottima.

Si tratta di una Damnation de Faust  diversa, fuori dalle abitudini, ma affascinante, e benché vada verso altri orizzonti di quelli di un Berlioz idiomatico o di un Berlioz (magnifico tra l’altro) alla Gardiner o alla Colin Davis, ci fa scoprire un’altra direzione, quella di un Berlioz al crocevia di tradizioni europee, più europeo che francese, romantico ma non troppo, classico ma non troppo, incredibilmente raffinato, in una realizzazione di rara intelligenza e di una grande profondità scenica e musicale.

Berlioz era “Grand Prix de Rome” e ha soggiornato quattordici mesi in Villa Medici, ha scritto il “Carnaval romain”, ci sarà ormai anche la Damnation romaine.

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