L’Otello di Verdi-Chung possiede un respiro sinfonico grandioso e convincente. L’orchestra risponde alle minime inflessioni e il coro come un sol uomo – i sussurri corali dell’ensemble diretto da Claudio Marino Moretti sono ormai cifra peculiare e momento atteso. Tuttavia ciò che impedisce a questo Otello musicalmente cesellato e variopinto di diventare memorabile è la nefasta presenza in scena dei due comprimari, che rendono difficile – non di rado spiacevole – l’ascolto di una partitura oltremodo complessa.
Marco Berti è un Otello squillante, una voce che convince negli eccessi d’ira e di concitazione, ma che si rivela costantemente piatto, incapace di poesia e soprattutto di intenzione drammatica. Legnoso tanto scenicamente quanto vocalmente, l’emissione dei declamati potrà non essere pessima dal punto di vista vocale, ma si rivela immancabilmente robotica. Un plauso alla trovata scenica dei quattro figuranti che ne impersonano le turbe e le ossessioni, che contribuiscono – nel loro ombroso total-black – a colorare un personaggio che di rado va oltre la lettura della sua parte. L’intonazione è inoltre precaria, tendente a calare e a controllare assai poco il vibrato, come se risonasse da un soldato di terracotta.
Dalibor Jenis – invero più versato del collega come attore – riesce forse a far di peggio : questi infatti ignora patentemente ciò che sta cantando e non dimostra alcun rispetto per il libretto di Arrigo Boito. Ridicola la sua lallazione nel ditirambo del primo atto, di cui non ricorda le parole ; non basta la brava ripresa del coro ben sillabata e chiara nella dizione a rammentargliele, no : pervicacemente le trascura e si produce in ingiustificabili farfugli. La noncuranza nei confronti del libretto è grave – la doppia autorialità di Otello quale opera di Verdi e Boito è cosa assodata – e basterebbe di per sé a stroncare senza appello lo Jenis, ma c’è di più : la sua voce funziona nel registro medio-acuto per la sua estensione di baritono, ma è assai poco sonora al grave e caricaturale nel registro di testa.
Carmela Remigio regala invece una Desdemona di tutto rispetto. La voce – per sua fortuna – mal si amalgama con quella di Berti, che la sopraffà in più occasioni, ma nei momenti di solo rivela una musicalità ispirata, una buona intenzione drammatica, una meditazione del testo. Commuove infatti la sua Canzone del salice, anche grazie a un’orchestra che sa dipingere un arazzo raffinatissimo in cui ogni filo è distinguibile e contribuisce alla creazione di un colore ammaliante. Bella voce e prestazione convincente quella di Matteo Mezzaro, purtroppo confinato a un ruolo musicalmente secondario.
Otello inevitabilmente veneziano, forse un po’ didascalico. Non si risparmiano i gonfaloni di San Marco e tutto si gioca in un contenitore onirico popolato delle costellazioni delle mappe celesti del Coronelli, un lusso per gli occhi, ma talvolta un po’ invasive.