Da mezzo secolo questo titolo non compariva sul palcoscenico romano. Com’era consuetudine allora, e ancor oggi, quella lontana edizione coniugava tanto l’originale stesura viennese quanto la versione parigina, di pochi anni dopo. È infatti a Vienna che Orfeo ed Euridice debuttò il 5 ottobre 1762, al Burgtheater, per celebrare l’onomastico (che cadeva il giorno precedente) dell’imperatore Francesco I, marito di Maria Teresa d’Austria. Adesso, dunque, Orfeo ed Euridice di Gluck è appena andato in scena al Costanzi, in coproduzione con Théâtre des Champs-Elysées, Château de Versailles Spectacles, Canadian Opera Company. È stato uno spettacolo meraviglioso, che non soltanto arricchisce l’attuale infilata di successi del Teatro dell’Opera, ma offre un modello memorabile di allestimento lirico. Orfeo ed Euridice non nasce come opera vera e propria, bensì come azione teatrale, con personaggi soli, e orchestra ridotta. L’azione teatrale nel secolo XVIII era appunto una produzione di proporzioni contenute, non troppo lunga, per lo più destinata ad abbellire anniversari, cerimonie, festeggiamenti.
Autore del libretto di Orfeo ed Euridice, in italiano, è il poeta livornese Ranieri de’ Calzabigi. Al suo nome, e a quello del compositore Christoph Willibald Gluck, è legata la storica riforma del melodramma che, dopo metà Settecento, razionalizza e alleggerisce il teatro musicale, liberandolo da abusi ed esibizionismi superflui, fin lì dilaganti soprattutto per il capriccioso divismo degli interpreti canori. La riforma di Gluck e Calzabigi sarà poi sistemata e presentata in bella forma, con argomentazioni logiche e serrate come esigeva l’età dell’Illuminismo, nella prefazione all’opera successiva dei due, l’Alceste del 1767. Essa stabilisce una connessione tra la sinfonia d’apertura e il seguito dell’opera, impone il recitativo obbligato (accompagnato dall’orchestra, e non dal solo basso continuo), snellisce le forme dell’aria, dà spazio al coro e al ballo, valorizza l’orchestra e le possibilità espressive degli strumenti. Tutte novità che appaiono proprio già in Orfeo ed Euridice, segnandone la fortuna esecutiva, che travalicò il destino effimero delle semplici azioni teatrali, perché se ne capì subito l’importanza. Tanto che il lavoro fu riproposto a Parigi nel 1774, su un nuovo libretto in francese e con inserimento di varie danze, irrinunciabili su quella piazza.
La peculiarità di quest’allestimento romano, con il suo fascino straordinario, deriva dalla capacità del regista, Robert Carsen, di concepire una mise en scène che ha perfettamente valorizzato la musica, a sua volta molto ben governata dal direttore d’orchestra, Gianluca Capuano, che sapientemente ha scelto un controtenore per il ruolo maschile, e non il tenore che di solito si arruola, fuori stile. Robert Carsen – che oltre alla regia ha ideato anche le luci, magnifiche, insieme a Peter van Praet, mentre Tobias Hoheisel ha disegnato scene e costumi, belli anche questi negli abiti moderni tipo Armani – ha collocato la vicenda in una cornice minimale, di profondo magnetismo, fondata sui quattro elementi primigenî. Terra, fuoco, acqua, aria. Una scelta, a pensarci bene, pienamente omogenea all’ottica della riforma ideata dagli autori settecenteschi. E infatti, dopo oltre duecentocinquant’anni, Carsen ne ha ricavato una lettura di impressionante modernità. Spoglia, ma di straordinaria eloquenza. Nessun fasto scenico, né effetti speciali. Il terreno che invade il palcoscenico, con buca di sepoltura e di accesso all’Ade. Il fuoco delle lucerne che producono una luce tremolante. L’acqua versata da una scodella all’altra, dalle ombre e da Orfeo. L’aria opprimente degli Inferi per le luci inquietanti. Una semplicità di mezzi, nel progetto di Carsen, giustamente orientata al sopravveniente gusto neoclassico : perché i grandi artisti sanno guardare molti anni avanti a noi spettatori. E, in questo paesaggio dolente, i movimenti di personaggi e coro sono lenti e contenuti, estremamente espressivi : un’intelligente valorizzazione del canto e dei colori strumentali. Tanto che, per non diluire la tensione, le musiche delle danze ci sono, sì, ma senza coreografia : anche questa una scelta opportuna e coerente all’atmosfera diffusa.
Molto ben riuscito il versante musicale. La direzione d’orchestra di Gianluca Capuano, forte di una lunga e competente frequentazione del repertorio antico, traccia una concertazione impeccabile, ricavando dall’orchestra una resa attenta nella luminosità dei colori strumentali, così importanti in Gluck, e nel consapevole dosaggio delle proporzioni espressive. E impeccabile è apparso anche il coro, istruito da Roberto Gabbiani, dalla melopea introduttiva agli interventi successivi, coro persuasivo anche nell’adesione al movimento scenico. Ottimi i tre interpreti vocali. Il controtenore Carlo Vìstoli è un Orfeo dal timbro sempre accattivante, addirittura soave, che nella sua elegante linea di canto ben si coniuga all’immaterialità della messinscena. Capace di limpida dizione, a suo agio e senza falsetti anche nei passi più impervi, Vìstoli esibisce adeguato volume, fraseggio che convince, pienamente umano, e non più semidio come nel mito. Accanto a lui, altrettanto suadente riesce Mariangela Sicilia, che tratteggia un’Euridice dall’accento caldo e trepidante, specie quando incalza Orfeo con le sue suppliche e ansie affatto femminili di anima innamorata, grazie al fraseggio di intelligente finezza. Il soprano ungherese Emöke Baràth interpreta Amore, e lo fa con efficace dominio della parte, e con accento incisivo nel suo canto espansivo e confortante. I lunghi, calorosi applausi finali appaiono la migliore espressione della compiaciuta meraviglia che ha conquistato il pubblico.