O König, das O re, non io
kann ich dir nicht sagen ; questo posso dirti ;
und was du frägst, e ciò che tu domandi,
das kannst du nie erfahren. non potrai mai comprendere.
(Atto II, Scena III)
e ancora…
Dünkt dich das ? Questo a te sembra ?
Ich weiss es anders, Ciò che so io, è diverso,
doch kann ich's dir nicht sagen. però non posso dirtelo.
Wo ich erwacht, – Dove mi destai –
weilt' ich nicht ; Non mi trattenni ;
doch, wo ich weilte, ma dove mi trattenni,
das kann ich dir nicht sagen. non posso dirti.
Die Sonne sah ich nicht, Io non vedevo il sole,
noch sah ich Land und Leute : né terra né popoli vedevo :
doch, was ich sah, ma quello che vedevo,
das kann ich dir nicht sagen. non posso dirti.
(Atto III, Scena I)
(Traduzione libretto dal tedesco : Franco Serpa – Fondazione Teatro Regio di Torino)
Non serve altro, per me l’essenza di Tristan und Isolde è tutta qui.
Raccontare in musica quello che non si può raccontare, l’ineffabile è protagonista e le quinte sono il mare, nel suo continuo agitarsi non lascia punti di riferimento confondendosi, e la notte, che con il buio confonde chi v’indaga con i sensi del giorno.
Così la musica ne è lo specchio fedele, l’alternarsi di abbandoni senza freni e scatti d’esaltazione, parossismi e cantilene che potrebbero non finire mai.
E’ il racconto di due protagonisti senza tempo.
Il filtro d’amore è quello di morte, espediente che aiuta semplicemente a dirsi quello che non vorrebbero e saprebbero dirsi.
Un’opera come questa, tuttavia, non si esaurisce con una sola chiave di lettura interpretativa ed è, anzi, di segno totalmente opposto la riuscitissima messa in scena proveniente dall’Opernhaus di Zurigo con cui il Teatro Regio di Torino ha felicemente inaugurato la stagione 2017/18.
Affidato alla regia di Claus Guth il dramma si svolge all’interno di una villa borghese dell’epoca in cui Wagner mise in musica la vicenda e l’utilizzo di un palcoscenico rotante consente di variare frequentemente gli ambienti. Una storia d’amore, vero, costretto dalle regole a finir male.
Così nel primo atto Isotta attende quella che dovrebbe essere la fine della traversata in una assolata camera da letto, l’abito nuziale testimone in ogni istante dell’incombente matrimonio con Marke.
La scena è dominata dal rosso pompeiano delle pareti, che ricorda tanto le sale dei grandi musei nazionali in cui gli Stati sovrani misero in mostra l’orgoglio delle proprie collezioni. Siamo anche noi spettatori di quadri mutati in realtà ?
Tristan attende in anticamera beffardo con i suoi, l’incontro tra i due si svolge in un giardino d’inverno e il filtro questa volta è veramente galeotto…
In una stanza da letto, simmetrica alla prima, Tristan ritrova le bende che ne avevano curato le ferite. E' il dramma borghese di due amanti che si cercano.
E’ una parete celeste che occupa l’intera larghezza della scena, intervallata da porte regolarmente disposte, quella su cui si apre il sipario nel secondo atto e di volta in volta i protagonisti si inseguono in una sala da ricevimento tra gli ospiti o restano soli in una grande sala da pranzo per il duetto d’amore.
Re Marke, abito scuro e bastone, si abbandonerà al proprio sfogo a fine pasto, circondato dagli ospiti. Isotta seduta al suo fianco, per rispetto della buona educazione, Tristan ad un capo del tavolo.
Nel terzo atto, coerentemente con il disegno complessivo, il castello abbondonato assume le forme del diroccato ingresso di un edificio ottocentesco (sarà sempre un museo?). Tristan (ri)vive negli ambienti dei primi due atti il proprio tormento, sino a morire in quella sala da pranzo testimone del duetto d’amore. Re Marke e Brangäne escono mano nella mano.
Il regista con la sua ambientazione allude alla liaison Wagner – Wesendonck : lo spettacolo è una produzione originariamente andata in scena a Zurigo, la stessa città in cui, nell’allora periferica Villa Wesendonck che funge da scena per questa produzione, l’esule Richard e Minna, legittima consorte, vennero ospitati sino a quando quest’ultima non ebbe una crisi di nervi nei confronti della Signora Mathilde.
Personalmente non ne sento la necessità, il disegno si risolve coerentemente grazie nell’idea interpretativa, belle scene ed eleganti costumi ne completano la cornice.
Condotta con ammirabile coerenza rispetto all’idea registica, considero come una delle sue migliori prove in assoluto la direzione di Gianandrea Noseda. Al suo primo incontro sul podio con il titolo, il maestro Noseda guida l’orchestra del Regio in una lettura plastica che non indulge a sfinimenti estetici o eccessivi parossismi musicali. In maniera incalzante sostiene i duetti del second’atto, con esperienza soccorre i cantanti nei momenti in cui la voce è tesa al limite delle possibilità.
L’orchestra suona bene, costantemente in sintonia con i cantanti contribuisce a sbalzare una immagine sonora concreta, precisa, netta. Bene gli archi, in particolare i violoncelli, i fiati, gli ottoni.
Per lo spettacolo d’inaugurazione il teatro ha radunato un gruppo di voci di prim’ordine in cui, per una volta, sono i due protagonisti a spiccare. Ricarda Merbeth è soprano di assidua frequentazione wagneriana sui palcoscenici tedeschi, ivi compreso quello di Bayreuth. Con voce lirica interpreta una Isotta che non urla, la voce è svettante e ferma nell’acuto e ben impostata nei centri, lasciando solo spazi a rari disagi quando scende nel registro grave.
Dubbi vi erano sulla tenuta di Peter Seiffert, altro cantante di comprovata fede wagneriana, in un ruolo tanto gravoso come quello di Tristan.
Invano gli estremi acuti della stretta del duetto del secondo atto o del lunghissimo racconto del terzo atto, inesorabilmente affetti da pesante vibrato ma comunque cantati in tono, riuscirebbero ad inficiare il valore della sua prestazione. Che è quella di un vero tenore cavalleresco dalla voce chiara sempre correttamente appoggiata sul fiato, ancora ben ferma nelle note centrali, dalla linea di canto sicura anche nei momenti dove solo l’esperienza e una buona tecnica sopperiscono.
Del resto del cast, si ricordano gli interventi precisi, non memorabili, di Steven Humes (dal peso vocale un po’ troppo leggero per il ruolo), di Michelle Breedt (piuttosto generica nell’accento e spesso al limite), di Martin Gantner (piuttosto a disagio nel rendere a piena voce la spavalderia della parte). Bene il resto del cast e gli interventi del coro.
Meritato successo per il direttore e i due protagonisti al termine di una recita domenicale davanti ad una sala pressoché esaurita che, complice l’orario pomeridiano, non ha registrato significative defezioni di pubblico nonostante le cinque ore di durata complessiva.