Il pensiero, sulla soglia del Carlo Felice, in una domenica silenziosamente dedicata ai preparativi delle Feste, corre per un attimo al 1992.
Un teatro da poco riaperto, alla sua prima Bohème, a poca distanza da un’ultima serie di recite andate in scena al vecchio Teatro Margherita ((dicembre 1990, nel cast Cecilia Gasdia e Vincenzo La Scola)), e sul palco Mimì. Sì, proprio quella Mimì in cui s’identificava Mirella Freni, a incantare un teatro soggiogato ad ogni istante dal suo canto, conquistato dall’arte di porgere la parola, dai suoni pieni e omogenei dell’intera estensione, ancor di più dalla capacità di immedesimarsi ad ogni istante in una fragile e misera giovinetta malata che era sfiorita in palcoscenico cent’anni prima.
“Tutti ormai sanno che La Bohème è un’opera cattiva, un’opera infelice.[…]
Nella musica della Bohème non si sente il colore locale, l’ambiente parigino, l’aria della Senna, l’odore delle fogne e delle frittelle del Quartier latino. È inutile, senza un po’ di colore non si rende l’ambiente e quindi l’opera manca di verità.”((La Luna, supplemento de “Il Fischietto”, Torino, anno XVI, n. 6, 6 febbraio 1896 a firma del “Conte di Luna”))
Giudizio netto quanto sfortunato, e chissà, per contro, quale confidenza poteva invece vantare l’anonimo censore con l’aria della Senna e l’odore delle fogne.
Al contrario, La Bohème fece giro da subito. V’era allora e ci rapisce tuttora il calore e il colore della gioventù, nulla importa che fosse parigina o milanese, nel Quartier latino dell’ottocento o in una squallida periferia metropolitana di oggi.
Con studiata economia di mezzi il giovane Puccini ammantava la sua creatura di spontaneità, tentava una via tra gli estremi giganti verdiani e le sirene del verismo, s’inventava un aureo equilibrio non più raggiunto nella maggior parte delle opere della maturità. Inevitabilmente, si esponeva al rischio di essere accusato di carenza d’ispirazione e povertà di forme, ma coglieva nel segno tratteggiando una favola da adolescenti in cui tutti, almeno per i primi due quadri, si sono rispecchiati.
Favola e gioco costituiscono la chiave di lettura di questa Bohème che torna in scena al Carlo Felice ((Augusto Fornari ha curato la regia dello spettacolo nel 2011 e nel 2014)) con la felice regia di Augusto Fornari e le scene simbiotiche dell’artista genovese Francesco Musante, noto per il sapore fanciullesco delle proprie opere.
Tutto è spensieratezza nella vicenda di questi giovani, a cominciare dalla gestualità spontanea e impacciata con cui si muovono dentro scene da fumetto cartonato. Colori sgargianti, costumi semplici, una stanza squadrata e allegra a far da cornice per il primo e per l’ultimo quadro.
Puccini, sembrano dirci i due artefici della messa in scena, è un gran burattinaio che muove le fila delle misere vite di questi giovani. Si vive alla giornata e ben venga, bighellonando per Parigi in mezzo ad una gran baraonda, anche l’occasione di scroccare una cena.
Al terzo quadro irrompe il dramma, in quella cornice gaia e surreale, in maniera improvvisa ed ancor più crudele. Sarà un pupazzo di neve a nascondere Mimì, mentre ascolta il dialogo tra Rodolfo e Marcello, e apprende l’angoscia dell’amante per la sua malattia. Il momento migliore dello spettacolo.
Non del tutto in sintonia con questa impostazione suona la parte orchestrale sotto la bacchetta, pur scrupolosa e attenta ai dettagli, di Andrea Battistoni. Da lodare l’ottima prestazione dell’orchestra che si fa apprezzare per precisione e compattezza in particolare per quanto riguarda i legni, ma il taglio interpretativo scelto dal direttore guarda controcorrente rispetto alla parte visiva. Una certa magniloquenza ed una calcata drammaticità restituiscono sonorità piuttosto pesanti soprattutto nel primo e nell’ultimo quadro, meno ingombranti nel secondo e lasciano spazio ad accenti più intimi, seppure generici, solo nel terzo.
Quanto alle voci, cominciamo col dire che è un piacere ascoltare per una volta Rebeka Lokar lontano da ruoli spinti delle solite Abigaille e Turandot.
La vocalità di Mimì, resa con voce morbida, pastosa, distesa, emerge con naturalezza.
La Lokar compone un quadro commovente senza forzare, dalla linea di canto sicura, il fraseggio è controllato e maggior frequentazione di questo repertorio potrà consentirle di ampliare in ventaglio espressivo.
Sostituendo all’ultimo l’indisposta Lavinia Bini, la Musetta di Francesca Benitez, interprete del secondo cast, è figura civettuola comme il faut. Con voce leggera da soubrette, precisa, ben disposta ma non enorme, rende credibile tanto la sfrontatezza del secondo quadro quanto la crescita umana del quarto.
Generosa di sfumature l’interpretazione del tenore Stefan Pop, un Rodolfo brillante dalla voce agile ma dagli acuti talvolta metallici e forzati, come pure assai pregevoli il Marcello di Michele Patti, gran voce non perfettamente controllata all’inizio, la precisa caratterizzazione di Schaunard ad opera di Giovanni Romeo, il roccioso Colline di Romano Dal Zovo, i garbati e mai ridicoli (finalmente!) Benoît e Alcindoro di Matteo Peirone, e ben caratterizzati tutti gli altri ruoli minori.
Al termine della recita applausi convinti del numeroso e attento pubblico all’indirizzo di tutti gli interpreti.