Giuseppe Verdi (1813–1901)
Les vêpres siciliennes (1855)
Opéra en cinq actes
Libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier
(versione originale in francese)
Prima assoluta : Théâtre de l’Académie Impériale de musique de Paris, 13 giugno 1855

Maestro del Coro :  Roberto Gabbiani
Scene :  Richard Peduzzi
Costumi : Luis F. Carvalho                                            
Luci : Peter van Praet 
Coreografia :  Valentina Carrasco e Massimiliano Volpini

La duchesse Hélène Roberta Mantegna
Ninetta Irida Dragoti*
Henri John Osborn
Guy de Montfort Roberto Frontali
Jean Procida Michele Pertusi
Thibault Saverio Fiore
Daniéli Francesco Pittari
Mainfroid Daniele Centra
Robert Alessio Verna
Le sire de Béthune Dario Russo
Le comte de Vaudemont Andrii Ganchuk*

* dal progetto  “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
avec la partecipazione degli allievi de la Scuola di Danza del Teatro dell’Opera di Roma

Nuova produzione del Teatro dell’Opera di Roma

 

Roma, Teatro dell'Opera, martedì 10 dicembre 2019 (Apertura di stagione)

Poche sono le produzioni di Les Vêpres siciliennes, ancora più rare nella versione francese. A Parigi, la versione francese è stata rappresentata recentemente una sola volta nel 2002–2003 diretta da James Conlon. Per il resto, Rolf Liebermann propose la versione italiana (I vespri siciliani) nel 1974, ripresa altre tre volte nella bellissima produzione di John Dexter e Josef Svoboda di cui si ricorda lo scalone monumentale, unica sontuosa cornice di questa produzione ascetica. È merito dell'Opera di Roma proporre la versione originale francese con balletto, creata nel 1855 in occasione dell'Esposizione Universale di Parigi, ed è un vero e proprio titolo da inaugurazione, perché questa scelta raffinata permette di far crescere le conoscenze del pubblico. Il risultato è stato all'altezza delle aspettative : la serata è stata particolarmente stimolante, soprattutto per la direzione di Daniele Gatti.

Non è Carmen, ma Les vêpres siciliennes

 

Una versione francese complessa

L’industriale” del libretto Eugene Scribe (qui con Charles Duveyrier) ha riciclato per Les vêpres siciliennes il libretto de Le Duc d'Albe mai rappresentato durante la vita di Donizetti e poi completato da Matteo Salvi.  Il modello è quello di un Grand-Opéra in cinque atti, in un momento in cui il genere sta passando di moda. Questo può spiegare l'aspetto traballante del libretto, con una drammaturgia irregolare : la palinodia di Helène (mi sposo / non mi sposo) davanti al suo imminente matrimonio con Henri è uno dei segni distintivi.
Nonostante una preparazione piuttosto dolorosa in cui Verdi cercò di rompere il suo contratto, l'opera fu finalmente creata, con grande successo e una sessantina di repliche. Ma il Verdi francese non ebbe mai fortuna a Parigi, e come Don Carlos, Les vêpres siciliennes scomparve dagli schermi, per poi riapparire (ma in italiano) nel 1974 in una produzione rimasta famosa (e importata dal MET) di John Dexter e Josef Svoboda. L'interpretazione di Elena da parte di Martina Arroyo ha tra l’altro segnato la mia generazione.
Rappresentare la versione francese è innanzitutto un problema di voce, perché le versioni francesi impongono uno stile di canto che ha poco a che fare con le voci verdiane italiane. A partire dal tenore, Henri, che deve essere un tenore dagli acuti impossibili, con uno stile  molto controllato, di tradizione rossiniana (Arnold per esempio) o meyerbeeriana (Raoul, Jean de Leyden). In altre parole, oggi le scelte sono ridotte, o John Osborn, o Michael Spyres, altri come Bryan Hymel non sono più ora in grado di cantare il ruolo. Lo stesso vale per  la parte del soprano, la duchessa Hélène : la scelta difficile si riduce oggi a Sondra Radvanovsky (che l'ha cantata a Parigi nel 2003) o Angela Meade unici soprani in grado di affrontare un ruolo dalle trappole di Marguerite de Valois (Les Huguenots), che richiede agilità, mezzevoci, controllo, ma con una base vocale ampia e potente.
Insomma, elaborare una compagnia di canto è una grande sfida, perché il canto in francese presenta difficoltà specifiche, soprattutto per i cantanti italiani (per esempio i nasali.….), più che per i cantanti americani che di solito hanno una dizione francese più chiara. Un cast per Les Vêpres siciliennes di Verdi dovrebbe essere realizzata con voci da Guglielmo Tell di Rossini, non con una compagnia verdiana abituale.

Lo stesso vale per lo stile musicale. Verdi non ha fatto solo Verdi (ensemble, trii o quartetti), ma anche un po' di Meyerbeer, e, in particolare nel balletto, rende omaggio all'opera comica francese con musiche che possono ricordare Auber e talvolta annunciano Offenbach che anche lui si prenderà gioco sia della Grand-Opéra  che dell'Opéra-comique, cioè i grandi generi dominanti dell'opera ottocentesca a Parigi. Verdi nel balletto, come vedremo, impone una musica che evoca la Parigi della notte, dei cabaret, quasi da cancan. Verdi si è divertito a “gallicizzare” la sua musica, da qui la necessità per il direttore d'orchestra di tenerne conto.

Retroscena storico

L'incontro con Les vêpres siciliennes è affascinante perché ci insegna – forse più di Don Carlos (che deve molto a Schiller) – quali erano i requisiti formali di una produzione parigina, qual era la musica alla moda di quegli anni, e anche qualcosa dell'atteggiamento di Verdi, che probabilmente non amava "La Grande Boutique" ma che rimase sempre affascinato da Parigi, all'epoca il centro di gravità della musica lirica in Europa.

Formalmente, Les vêpres siciliennes è un Grand-Opéra, con soggetto storico, personaggi numerosi e storia d'amore. È strano che sia stato scelto un argomento così sfavorevole ai francesi , ma piuttosto ispirato alla situazione italiana ancora sotto il dominio austriaco. Del resto non manca di ironia storica. Infatti anche se i francesi allora dominavano la Sicilia, l'eroe Procida ricevette le armi da Pietro d'Aragona, che sembrava essere il liberatore della Sicilia occupata, ma che in realtà ha usato i vespri siciliani come trampolino di lancio per la conquista della Sicilia : i vespri siciliani si svolsero il 30 marzo 1282, e il 31 agosto sbarcò a Trapani. Conquistò la Sicilia di cui diventò re col nome di Pietro il Primo. I siciliani passarono da un dominatore all'altro e così – è un caso – Verdi e Scribe trasformarono i siciliani in ingenui che hanno creduto alla liberazione, ma che in realtà sono passati da un lupo all'altro… il massacro dei francesi fu "vendicato" in un certo senso dagli spagnoli… che rimasero molto più a lungo sull'isola…
Tutto questo retroscena politico è intrigante, perché pone la questione della libertà dei popoli, della singolarità siciliana, legate alle occupazioni straniere, a partire dalla dominazione araba, che produrrà grandi capolavori artistici, ma che porrà l’isola sotto il controllo straniero fino allo sbarco garibaldino… Con singolari conseguenze sociologiche e sociali sulla situazione di un paese, fin dall'antichità modello di ricchezza e di bellezza, diventato oggi simbolo di nuove feudalità (la mafia), ma anche di povertà e trascuratezza.

Matrimonio d'amore, matrimonio politico : John Osborn (Henri), Roberto Frontali (Montfort) Roberta Mantegna ( Hélène)

La regia

Valentina Carrasco non ha tenuto conto di questa complessità, né della complessità drammaturgica nel raccontare la storia de Les vêpres siciliennes, e la sua regia è singolarmente povera di idee. Certo, traspone la trama nel Novecento, con un'atmosfera di guerra civile spagnola (viste le uniformi indossate dai francesi assai “iberizzati”), ma senza produrre una vera e propria visione. È più interessata ai dettagli, come se trattasse ogni scena indipendentemente dall’altra, e ai personaggi : il più interessante è Montfort, il terribile governatore che scopre la paternità (come il Duca d’Alba, modello ancora più terribile) e che, di conseguenza, si trasforma psicologicamente. Una delle scene più commoventi (ingegnosa idea) fa vedere Montfort che prende una sedia e se la porta come una culla.

Ma Valentina Carrasco non si preoccupa veramente dell'ambiguità del personaggio il quale, da buon politico, cerca di approfittare della sua ritrovata paternità per risolvere la questione dell'occupazione siciliana da parte dei francesi, attraverso un matrimonio di stato, soluzione spesso trovata nella storia per risolvere i problemi e cercare così di pacificare l'isola. È caratteristica del politico cercare compromessi e Montfort da conquistatore diventa politico. In questo assomiglia a Boccanegra stanco delle lotte patrizi/plebei, che trova nell'amore della figlia per Adorno la soluzione che non aveva funzionato per lui. Certo, questo non è riuscito a Montfort, ma è meno ingenuo di Procida che si getta senza capirlo nella bocca del lupo aragonese. C'è una sottigliezza in Montfort che non c'è in un Procida tutto d'un pezzo.

L'opera infatti è una denuncia del fanatismo (nazionalista in questo caso) e Scribe da umanista liberale critica regolarmente le oppressioni (vedi Le prophète di Meyerbeer, vedi La Juive di Halévy – altra storia di bambino ritrovato). Anche questo è uno dei punti del libretto meno semplici di quanto sembri a prima vista, che Valentina Carrasco non ha voluto approfondire, accontentandosi di aneddoti. In questo modo il lavoro appare superficiale. La componente storica è decisiva nel Grand-Opéra e le poche righe qui sopra dimostrano che il libretto di Scribe è tutt’altro che semplice. C'è una polisemia qui che la regia piuttosto illustrativa non percepisce, con immagini e scene grigie, soprattutto all'inizio, che sembrano appartenere a Carmen.

Il balletto : inno alla donna

Nell'attualizzare la sua messa in scena, che si svolge in tempi moderni, Valentina Carrasco si concentra sulla questione della violenza contro le donne e del loro status, più in linea con una visione odierna (si sa che la condizione della donna nell'opera lirica è pietosa…). La questione viene affrontata in modo ancora più chiaro nel balletto. Inoltre, è interessata ai certi momenti, a certe posture, a certi gesti che fanno immagine (come il gesto finale di Henri che ucciderà suo padre) ma non tratta l'opera nella sua problematica complessiva.

Immagine finale : Henri ammazza il padre.

L'unico momento in cui c'è una vera decisione di messa in scena è il balletto, sempre un trabocchetto nell'opera francese dell’Ottocento, perché quando si programma una versione originale si pone il problema : farlo o non farlo ? e in che modo ? Ce ne sono due :

  • Trattarlo come un balletto classico, quasi distaccato dalla trama, come deciso da Pizzi nella produzione scaligera del 1989, dove Patrick Dupont ha trionfato, con un successo che nessuno dei cantanti ha potuto condividere. O come la produzione parigina di Faust di Gounod nella regia di Jorge Lavelli, dove il balletto (Coreografia George Balanchine) è stato concepito in modo completamente distaccato dalla trama, cosicché al di là delle prime rappresentazioni non è mai più stato rappresentato nelle riprese successive, perché nessuno ne vedeva l’utilità né estetica, né drammaturgica.
  • Creare una drammaturgia, come a Lione dove è stato scelto di fare del balletto di Don Carlos, una trama che potrebbe ricordare l'opera. La scelta di Valentina Carrasco, che condivide la coreografia con Massimiliano Volpini, è appunto quella di inserire il balletto nella drammaturgia generale, in cui il balletto sarebbe un'immagine mentale per ogni personaggio dell’opera, un riflesso della sua anima o del suo destino. 

    Hékène, in mezzo al balletto

    È un momento intelligente anche se i ballettomani ne sono stati sgradevolmente sorpresi (fischi violenti) perché c’è più movimento coordinato che danza, soprattutto nella prima parte. La seconda parte invece (il balletto è molto lungo) è un po' più spettacolare, ma il tutto è coerente e nel complesso è uno dei momenti più felici della serata.

Per contro, i movimenti delle masse e del coro rimangono spesso elementari e poco chiari. La scena della festa nel terzo atto, primo tentativo dei siciliani di assassinare Montfort, interrotta da Henri che salva il padre a rischio di sembrare un traditore, è organizzata male e poco chiara. Il magnifico coro “Ô noble patrie” non ha scenicamente la forza drammatica che merita, se non per l'immagine finale in bianco e nero che contrasta con l'aspetto multicolore della festa.
La scenografia di Richard Peduzzi, fatta essenzialmente di blocchi mobili che sembrano di cemento, rimane piuttosto ascetica e senza tempo, come l'interno di una fortezza, una sorta di campo chiuso che definisce gli spazi senza molta inventiva. Non passerà alla storia al contrario di altre scene firmate da Peduzzi, ad esempio con Chéreau.

Immagine finale dell'atto terzoI (Michele Pertusi – Procida)

Tutto sommato, uno spettacolo che non disturba, non fatto male, ma singolarmente privo di idee. L'interesse dell'operazione è altrove, sta nella riscoperta musicale operata dal direttore d'orchestra, Daniele Gatti, che fa ascoltare un Verdi molto diverso che molto spesso sorprende

Un'esecuzione musicale eccezionale

Prima di tutto, Les vêpres siciliennes è un Grand-Opéra con la struttura tradizionale (Scribe ne è lo specialista riconosciuto), cioè i primi due atti presentano gli elementi drammatici e i personaggi, in particolare Procida che nel secondo atto canta la maggior parte delle sue arie. La trama e i suoi nodi prendono forma nel terzo atto, quando Henri scopre di essere figlio di Montfort e di dover rinunciare a Hélène. Questo sarà il punto centrale del quarto atto musicalmente più raffinato, con le arie e gli ensemble più belli dell'opera, e del quinto atto, con il matrimonio che sembra impossibile concludere e che finirà nel sangue.

Coro :
La preparazione del coro da parte del grande maestro Roberto Gabbiani è esemplare. Anche se la dizione non è sempre chiara, le sfumature sono rese meravigliosamente, con momenti di singolare potenza e grande emozione come il coro “Noble patrie” nel terzo atto, senza dubbio l'ensemble più bello della partitura. Una grande performance nel suo complesso

Orchestra e direttore :
Ammirevole il modo in cui Daniele Gatti ha saputo abbracciare quest’opera ibrida, dove Verdi deve tener conto della tradizione parigina, pur imponendo la sua peculiarità. Da qui un approccio musicale che cerca di prendere le distanze dalle forme che ha già installato nella trilogia popolare, in particolare attingendo alla tradizione musicale del Grand-Opéra, soprattutto Meyerbeer, ma anche affermando quello stile “verdiano”, che fa il pregio dell'opera, motivo per cui l'Opera di Parigi l'ha commissionata. Questa prima commissione, ricevuta dall'Opéra di Parigi per un’opera originale, era una consacrazione per l'ancora giovane Verdi (42 anni). Parigi aspettava che il compositore, che cominciava a trionfare ovunque, desse il meglio di sé nella sua originalità… ma rispettando le forme parigine. Il periodo era piuttosto plastico per i compositori, e le opere erano sempre adattate ai luoghi in cui dovevano essere eseguite. Ci furono ad esempio diverse traduzioni italiane con modifiche del libretto e diversi titoli per contrastare la censura (Giovanna di Guzman, Batilde di Turenna, Giovanna di Braganza ecc.), prima di trovare il titolo italiano definitivo I vespri siciliani dopo l'indipendenza dell'Italia nel 1861. Abbiamo accennato alla specificità della versione francese e della scrittura verdiana che ne consegue.
Fin dall'ouverture Daniele Gatti si occupa dei ritmi e della fluidità : nelle prime battute nessuna tensione palpabile ma un'atmosfera più lirica, soprattutto nell'attacco di violoncello che abbiamo sentito in altre esecuzioni più sincopato, più ansimante. In questo modo egli stabilisce il contrasto tra le due parti dell'ouverture : un inizio piuttosto cupo, ma meno teso, con un'esposizione di (notevoli) fiati, di grande lirismo e reale fluidità ; poi una seconda parte dove esplosioni orchestrali si alternano coll’esposizione del tema centrale del duetto Henri-Montfort, perno dell'opera (magnifici fiati e soprattutto ottavino). Gatti presta particolare attenzione a legare le diverse sequenze, senza mai urtare, cercando di costruire una coerenza in quella che rimane una delle ouverture più famose del compositore.

Quando Gatti dirige Verdi, la sua principale preoccupazione è quella di rivelare la costruzione e le architetture delle partiture, per rivelare quale compositore sia Verdi e come egli abbini l'architettura drammatica del libretto con una drammaturgia musicale molto elaborata.  Quando si ha a portata di mano una vera e propria drammaturgia teatrale (Schiller!), e Camille Du Locle come per il Don Carlos, è in qualche modo più facile. Quando invece si trova davanti al riutilizzo di un libretto non usato, di fronte ad un Eugène Scribe che all'epoca è un’istituzione parigina, il compositore più giovane, certamente noto – il suo Rigoletto di Victor Hugo era stato un trionfo – ma senza fama in loco del librettista francese, si deve accontentare di quello che ha…

E il modo di Gatti di dirigere l'orchestra riflette questo forzato adattamento dell'opera di Verdi allo stile parigino. Cerca di alleggerire il più possibile il suono dell'orchestra, rendendolo particolarmente trasparente, mai pesante anche se drammatico, rallenta il ritmo (come all'inizio del terzo atto) pur mantenendo sempre un'attenzione alla leggibilità. Così l'introduzione orchestrale del secondo atto e l'accompagnamento dell'aria di Procida Et toi, Palerme, Ô beauté outragée… così leggera, così evanescente, lasciando che la voce si imponga, è un modello. Gatti non impone l'orchestra, dà un impulso che sostiene e guida il palcoscenico, altre volte fa dell’orchestra un personaggio in più con propria personalità. Ciò che caratterizza comunque il suo modo di dirigere è la sua totale assenza di pesantezza.

Ammirevole anche nella prima parte, considerata la più debole dal punto di vista drammaturgico, come nelle scene VI, VII, VIII, l'orchestra da sola costruisce il crescendo, dalla tarantella (qui non ballata, ma drammatizzata da Valentina Carrasco) poi l'aumento di tensione già nel modo in cui la tarantella cambia colore e poi come il tema dell'ouverture viene ripreso in modo più drammatico in sordina. Gatti fa salire la tensione dalla tarantella a un accompagnamento cupo di rara bellezza (si noti in particolare lo stupefacente accompagnamento delle corde basse all'inizio della scena VIII, (interdits – accablés – et de honte- et de rage): tutto questo è costruito in modo che l'orchestra imponga il suo colore all'ensemble, con un raro senso teatrale (il coro è qui notevole per la sua espressività), come nel quarto atto il silenzio segnato tra je réclame le droit de mourir avec vous (Henri) fine della parte drammatica e l'inizio dell'aria di Hélène Ami, le cœur d’Hélène pardonne au repentir, che apre la parte più lirica della scena, dove i due amanti si ritrovano. Tutto è studiato al millimetro.

Altra scena del balletto : Montfort alle prese col fantasma della madre di Henri 

È senza dubbio nel balletto del terzo atto, l'atto cardine, che queste scelte si affermano al meglio. Ed è quasi strano perché il balletto non è a priori il momento in cui ci si concentra sulla musica, che sembra sempre piuttosto funzionale e senza molto interesse. Ma qui, Daniele Gatti lo rende quasi un "pezzo chiuso" dando un'interpretazione sorprendente attraverso la sua variazione di colori e una ricerca stilistica che evidenzia il modo in cui Verdi rende omaggio alla musica "francese". In particolare fa vedere come Verdi troverà gli accenti che preannunciano le future operette di Offenbach, come creerà un'atmosfera di musica leggera che sposi le feste del Secondo Impero (ci sono i ritmi di Cancan che quasi preannunciano Orphée aux Enfers  tre anni dopo). Ci fa ascoltare un Verdi che ascolta Parigi e i modi parigini. Niente nella musica di questo balletto è pesante, ed è una performance che fa concentrare lo spettatore sulla musica. Raramente si è ascoltato un balletto condotto in modo così raffinato e intelligente.

Gatti cerca di dare a quest'opera uno stile specifico, dimostrando che è singolare nella produzione verdiana, tra La Traviata e Il trovatore da una parte e Simon Boccanegra  e Un ballo in maschera dall’altra, che segnano l'inizio di un'evoluzione musicale che porterà a Don Carlos. Questo può sorprendere rispetto ad altre interpretazioni de Les vêpres siciliennes, perché Gatti non cerca la brillantezza, cerca di adattarsi ad uno stile e una drammaturgia un po' caotica, e troviamo nell’orchestra quest’unità che forse manca nell'opera, con una vera eleganza, la ricerca di un fraseggio tipicamente lirico e francese. Gatti è convinto che le opere francesi di Verdi non debbano mai essere italianizzate, ma al contrario dimostrano come la plasticità verdiana costruisca uno stile che non è proprio (Per esempio la trasformazione del Trovatore in un Grand-Opéra francese Le trouvère nel 1857, è particolarmente eloquente e segue immediatamente Les vêpres siciliennes). Gatti è quindi alla ricerca di quell'unità stilistica che dà originalità reale al suo approccio, alla sua concertazione, al suo colore così ricercato, e che potrebbe sorprendere chi ha più familiarità con la versione italiana I vespri siciliani. Così si aspetta con quanto più viva curiosità un Don Carlos francese, dove grazie al genio di Schiller e Du Locle il testo è uno dei più bei libretti d'opera esistenti.

È Gatti a dare a tutta la serata la sua valenza globale, il direttore d'orchestra ha intrapreso un lavoro da archeologo sulla partitura, entrando nei minimi dettagli, rivedendo gli equilibri, i tempi, i colori, il rilievo della strumentazione, lavorando nei dettagli anche con il cast che deve affrontare una nuova partitura, dove quasi tutti fanno il loro debutto nei loro ruoli.

Padre e figlio : Roberto Frontali (Montfort) e John Osborn (Henri)

Canto :
John Osborn è senza dubbio quello che meglio padroneggia lo stile dell'opera. È vero che tra i tenori è un habitué del Grand-Opéra, è un Leopoldo eccezionale ne La Juive, lo abbiamo sentito anche in Fernand ne La Favorite o in Benvenuto Cellini di Berlioz, ma anche in Arnold di Guglielmo Tell, in Raoul de Nangis degli Huguenots o Jean de Leyde del Prophète, tutte opere che richiedono un tenore con acuti eccezionali e fraseggio francese esemplare. È l'unico del cast dove non bisogna guardare i sopratitoli per capire cosa canta.  Ha tutto : la linea vocale, lo stile, il fraseggio, l'omogeneità. Il suo quarto atto è esemplare, mai cantato in forza e tutto in mezzevoci, la sua aria Jour de peine et de souffrances è un modello di stile e ha acuti impeccabili (anche quello, così pericoloso nel quinto atto). Ha le qualità tipiche della scuola di canto americana, in particolare per quanto riguarda la dizione e il fraseggio. È l'Henri del momento, nel solco tracciato dall'immenso Nicolai Gedda (che lo cantava in italiano, ma nel colore dell'Henri francese), anche se Henri non è necessariamente il personaggio più interessante.

Questa produzione, infatti, fa di Montfort il personaggio centrale, soprattutto grazie all'eccezionale interpretazione di Roberto Frontali.

È davvero una magnifica sorpresa sentire Roberto Frontali in Montfort, la cui altrettanto esemplare dizione riesce a rendere il ruolo talmente emozionante. Prima di tutto, c'è un'evidente complicità tra Gatti e Frontali, soprattutto dal Macbeth parigino e dal Rigoletto che ha aperto la scorsa stagione a Roma.  Questo cantante cerca di adeguarsi ad uno stile ed a un fraseggio, con grande intelligenza, e infine compone un vero personaggio ; proprio con Rigoletto, ha l'esempio delle sofferenze di un padre e ovviamente usa questa lezione per incarnare il dolore del padre, respinto dal figlio. È senza dubbio il personaggio più incarnato sul palcoscenico, perché passa dal capo spietato all'uomo lacerato e sofferente, e il suo canto cambia ovviamente colore e ritmo nel terzo atto in cui “diventa” padre, ritrovando una paternità che punta già nel primo atto fin dal primo incontro con Henri. Ed è particolarmente commovente quando si trova vittima a sua volta della violenza del figlio, che però alla fine dell'atto lo salva dall'assassinio tramato da Procida. Questo desiderio di essere riconosciuto come padre dal figlio ribelle è uno dei punti più strazianti, e lo rende il personaggio più umanamente accattivante dell’opera grazie a un'interpretazione esemplare sotto ogni punto di vista : potenza, vibrazione, interiorità, sensibilità. Frontali dimostra in questo ruolo di essere un grandissimo artista.

Michele Pertusi (Procida)

Michele Pertusi è Procida, un ruolo che non è molto simpatico, se non all'inizio del secondo atto dove ritrova la sua amata Palermo in un monologo che è uno dei grandi momenti dell'opera. Fomenta la strage dei vespri siciliani, rifiutando il compromesso offerto dal Montfort attraverso il matrimonio di Henri con Hélène. Pertusi è stato un Philippe II esemplare a Lione, e anche lui non ha nulla da imparare sul fraseggio e sulla dizione francese. La sua aria Et toi Palerme, ô beauté qu’on outrage è un grandissimo momento di emozione e di interiorità. Ma al di là delle qualità eminenti del cantante che lo rendono indiscutibile in questo ruolo, non era in una delle sue serate migliori, con un timbro un po' opaco e velato, e una voce che si perdeva nei concertati con acuti meno facili del solito. Anche se è un po' deludente, la sua è una prestazione comunque di altissima qualità.

Il caso di Roberta Mantegna è un po' diverso. Dei quattro protagonisti, è lei quella che ha più difficoltà con la lingua francese, capiamo le parole singole, ma non il discorso complessivo, e questo le causa problemi di fluidità e fraseggio.
È nelle parti più liriche che è esemplare, e soprattutto nella meravigliosa aria del quarto atto, tutta in dolcezza, mai lanciata a piena voce. L'aria Ami!…le cœur d'Hélène/pardonne au repentir è perfettamente dominata, con belle note basse, e una linea vocale impeccabile senza intoppi, anche quando le note basse e alte sono vicine. Acuti controllati, cadenze e stile impeccabili, il tutto con le dovute sfumature. Qui Roberta Mantegna è bravissima, come nel magnifico duetto che segue, uno dei punti salienti della partitura, particolarmente delicato, stilisticamente impeccabile con tutte mezzevoci sia da parte di Osborn che di Mantegna e con un accompagnamento orchestrale da sogno. Un momento di sospensione tipicamente verdiano, ma anche un momento musicale incredibilmente controllato da Gatti che porta i due cantanti al trionfo, perfetto esempio di concertazione dove la favolosa orchestra piena di delicatezze impone ai cantanti lo stile desiderato, tutto in evanescenza e leggerezza.
Se Roberta Mantegna ha senza dubbio il lirismo desiderato, e anche se sa imporre facili acuti, ha più difficoltà nelle parti che richiedono più peso e agilità tipiche del Grand-Opéra, come il Bolero nel quinto atto, dove il canto perde un po' di scioltezza e fluidità. È vero che questo è un momento difficile per il soprano e dimostra quanto sia difficile trovare una voce adeguata che abbia l'ampiezza necessaria pur mantenendo qualità di elasticità e lirismo. Questa è la trappola della versione francese, che vuole in Hélène una lontana cugina di Marguerite de Valois (Les Huguenots), con un po' di Valentine, ma anche con centri larghi, mentre è più adeguata e compatta la versione italiana, dove brillarono voci cosi diverse come Callas, Arroyo, Scotto, Caballé.
Mantegna non è quindi sempre molto convincente in questo quinto atto, ma la giovane cantante difende molto bene il ruolo, soprattutto tutta la sua delicatezza ; si può quindi scommettere che probabilmente era anche tesa per la situazione (una prima, un ruolo nuovo) e che si sentirà sempre più sicura nel futuro.

Nel complesso gli altri ruoli (numerosi come in tutti gli Grand-Opéra, con diverse fortune per l'espressione francese) si difendono bene, a partire dalla giovane Irina Dragoti in Ninetta, proveniente dalla "Fabbrica", il programma dedicato ai giovani artisti dell'Opera di Roma, come Andrij Ganchuk (Vaudemont) : tutti meritano di essere citati Saverio Fiore (Thibault) Francesco Pittari (DaniélI) Daniele Centra (Mainfroid) Alessio Verna (Robert) Dario Russo (Béthune).

Davvero una bella serata, degna di un'inaugurazione grazie all'eccezionale scelta dell'opera, particolarmente rara in Italia nella sua versione originale, con una regia certo povera di idee forti, ma la cui spina dorsale è la splendida direzione musicale di Daniele Gatti, che porta al trionfo orchestra e coro, e una compagnia di canto nel complesso esemplare. Questa sera il Corpo di Ballo, la scuola di danza, il coro, l'orchestra e i solisti hanno dimostrato che l'Opera di Roma è ridiventata un teatro di riferimento europeo. Considerata la sua storia movimentata, si tratta di una notizia magnifica.

Roberta Mantegna (Hélène)

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