Vicino a due opere giovanili, il Rossini Opera Festival ha messo in programma per la sua “edizione XL” un capolavoro della maturità, Semiramide, così difficile da eseguire. La sua monumentalità si legge anche dalla presenza orchestrale non indifferente, con lunghissime introduzioni ad alcune arie, con una presenza corale importante, anticipando il Grand-Opéra, nato col Guillaume Tell del 1829, e con esigenze vocali che richiedono cantanti di grande esperienza. Ricordiamo ad esempio la produzione firmata Pier Luigi Pizzi, al festival di Aix-en-Provence 1980, ripresa a Parigi al Teatro dei Champs Elysées (allora luogo provvisorio della stagione dell'opera) nel 1981, con Caballé, Horne, Ramey, Araiza sotto la direzione di Jesus Lopez-Cobos.
A Pesaro, Semiramide è stato oggetto di altre due produzioni, nel 1992 (Hugo de Ana) ripresa nel 1994 e nel 2003 (Dieter Kaegi). L’edizione 1994 fu dal punto di vista canoro quella più notevole, con Gasdia, Dupuy, Pertusi e Blake.
Quest'anno la produzione è stata affidata a Graham Vick, considerato un regista ragionevolmente modernista da un pubblico italiano tradizionalista assai in campo registico. Recentemente, ha firmato un magnifico "Die Tote Stadt" di Korngold alla Scala. Ma questa volta il suo lavoro su Semiramide è stato accolto in modo molto contrastato, con fischi e buh.
A meno che non disturbino le scene astratte di Stuart Nunn e i suoi costumi piuttosto contemporanei, ad eccezione dei sacerdoti e di Oroe (che sembrano piuttosto brahmani usciti da Pescatori di perle ) o lo strano e colorato trucco del coro, come collezioni di bandiere di varie nazioni che coprono le faccie, come se il dramma riguardasse precisamente ogni angolo del pianeta.
La problematica posta da Vick è quella di Arsace/Ninia, delle sue origini, della sua solitudine e della sua mancanza di affetti, del trauma della perdita dei genitori del piccolo Ninia, scomparso e creduto morto alla morte del re Nino, il padre, il cui sguardo gigantesco è sospeso sulla scena e sui protagonisti fin dall’inizio dello spettacolo.
Ricordiamo rapidamente la trama : il re Nino è morto circa quindici anni fa e sua moglie, Semiramide, regna con il principe Assur, che l'ha aiutata a uccidere suo marito per governare da sola. Deve scegliere un re per sostituire Nino e la sua scelta ricade su Arsace, il valoroso guerriero, di cui è innamorata. Ma si scopre che Arsace è suo figlio, Ninia, che si pensava fosse scomparso alla morte di Nino.
Arsace regnerà, ma Semiramide morirà.
Comprendiamo fin dall'inizio la volontà di Graham Vick di mostrare lo sguardo pesante di Nino, come un continuo rimprovero di questo omicidio iniziale, e l'aspetto dello spettro, viso bianco e occhi mascherati di rosso, conferma questa presenza di uno sguardo di cui l'enormità pesa sui protagonisti. Il gioco essenziale della regia è di lavorare sul mondo degli adulti criminali e dell'infanzia innocente di Arsace/Ninia, il bambino fuori dal letto attraversando la scena e Arsace di tanto in tanto si rifugerà, si capiscono anche i disegni del bambino (traumatizzato) e l'orsacchiotto gigantesco. Modo pesante e dimostrativo per sottolineare che è una storia di filiazione, di un figlio perduto e ritrovato, di un amore materno che Semiramide crede di un'altra natura.
Questo figlio è pieno di dubbi sulle sue origini e sul trauma infantile. Se lo sguardo di Nino pesa sul verso dei panelli giganti delle scene, quando ruotano, ci sono sul retro solo disegni di bambini, una regina con pugnale insanguinato, un corpo assassinato, uccelli attraversati dal sangue, disegni che non solo tracciano una storia individuale, quella di un bambino sacrificato dalla nascita, ma potrebbero anche spiegare la natura androgina di questo Arsace in tacchi a spillo e costume maschile, simile al costume di sua madre, lui nella sua ambiguità di "travestito" e lei mascolinizzata dal potere e dalla sua gestione, vestita quasi da manager (mentre Assur ha l'abito classico del politico), come se i corpi di Arsace e Semiramide in qualche modo fossero simili.
Siamo oggi nell’epoca della “teoria del gender” e sarebbe stato sorprendente che non si traducesse da qualche parte in un'opera in cui sentimenti maschili e femminili si mescolano nelle due protagoniste, non però per la principessa Azema, che appare una "vera" donna (vestita come tale, eterna sposa in bianco) ne per Idreno, innamorato di Azema e personaggio inutile che non esiste da Voltaire, dove la trama si concentra sull'amore di Azema (ambita da Assur) per Arsace (ambito da Semiramide).
Ma i disegni dal bambino Arsace / Ninia segnano oltre gli specifici traumi personali, anche grandi miti antichi, messi sul teatro dalla tragedia greca, poi shakespeariana, omicidi, genitori indegni, bambini perduti : abbiamo segnalato altrove come la storia di Semiramide ricorda quella di Edipo in alcune parti, o quella degli Atridi, con l’omicidio di Clitennestra da parte di Oreste vendicando Agamennone ((Abbiamo scritto nel nostro resoconto della Semiramide di Monaco di Baviera (2017): "L'idea è lungi dall'essere sciocca a collocare la trama di questa Semiramide ai confini dell'Europa e dell'Asia, reinvestendo un’altra storia molto più conosciuta ricorda quella degli Atridi, persino anche quella dei Labdacidi. Semiramide / Clitennestra uccidendo Nino / Agamennone con il suo amante Assur / Egisto, a sua volta ucciso da suo figlio Arsace / Oreste che tornò dopo una lunga assenza in cui si credeva morto. C'è già abbastanza per riempire un libretto d'opera. Si potrebbe anche vedere Jocaste / Semiramide innamorata di suo figlio Oedipe / Arsace. ")). Così Voltaire scrivendo una tragedia moderna, si riferisce alle radici della tragedia antica, con una storia vicina a quella di Edipo, il fulcro della questione tragica : Voltaire conosceva perfettamente la storia del genere tragico, e tra l’altro intitola la sua prefazione a Sémiramis “Dissertazione sulla tragedia antica e quella moderna” ((Dissertation sur la tragédie ancienne et moderne)).
Le idee di regia non mancano, ma è forse la loro traduzione scenica che a volte fa sorridere o infastidisce, ad esempio il colore turchese dell'orsacchiotto e del lettino del piccolo Ninia, ma anche il costume dell’ombra di Nino, come traccie visive ovvie della filiazione) in un'estetica dai colori aggressivi che si vuole contemporanea ma che non riesce a convincere.
Piuttosto che agli aspetti politici che David Alden aveva sviluppato nella produzione di Monaco di Baviera (sotto la direzione dello stesso Mariotti nel 2017), Vick si è interessato ai destini individuali, ai labirinti della psiche, e sottolinea le ambiguità relazionali di Semiramide con Assur, con una bellissima scena iniziale dell'Atto II nel segreto di un salotto moderno, ma anche le relazioni con Arsace. Graham Vick riesce a mostrare le complessità sentimentali, i desideri nascosti e le singolarità delle anime. Un esempio solo : Assur avvolto nel suo costume "ministeriale", nella sua scena del delirio sulla tomba di Nino, diventa quasi pietoso nella sua follia, in mutande, come ridotto al suo essere singolare, privato di qualsiasi status.
Quindi questo lavoro è contrastato : le idee sono chiare, e spesso giuste, ma a volte forse mal tradotte scenicamente ed esteticamente. Soprattutto, si sovrappongono vari elementi, destini, personaggi, il passato, il presente, la questione del “gender”: tutto è leggibile, abbastanza chiaro, ma nella sua globalità manca un po' di coerenza e non va fino a fondo. Il brillante successo di Guillaume Tell qualche anno fa non si è ripetuto.
Ne va diversamente dal punto di vista musicale dove si deve salutare in primis il lavoro svolto in buca da Michele Mariotti. Avevamo già apprezzato il modo in cui la partitura era stata rivelata a Monaco di Baviera, con un'orchestra che la scopriva. Qui con l'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, che la scopre lo stesso perché non è il suo repertorio abituale, poiché è un'orchestra sinfonica che fa pochissima opera, sono proprio queste qualità sinfoniche, la qualità delle sezioni singolari (ottoni, legni) che colpiscono fin dalle prime note della famosa sinfonia dove Mariotti introduce il dramma.
Non gonfia mai il volume, ma esalta al contrario i dettagli della partitura e le sottigliezze della composizione ; e l’orchestra della RAI, una delle migliori in Italia, si dimostra la compagine ideale per la qualità intrinseca dei suoi strumentisti e per il modo limpido in cui è evidenziata l’architettura della partitura.
Ma colpisce anche l’approccio analitico del capolavoro di Rossini nel corpo dell’esecuzione, che mette attentamente in rilievo il testo : ancora una volta, viene dimostrato che nei grandi compositori (e prima di Wagner) sempre l'orchestra accompagni la parola o il testo con costante attenzione, e mette in luce la verità dell'opera e la sua complessità. Mariotti fa vedere come parole e note si rispondono, si corrispondono, e producono significato.
Molti tendono purtroppo a considerare la musica di Rossini, e in particolare il "Rossini serio" come un semplice scrigno per voci stratosferiche. In realtà, la direzione di Mariotti (e l'edizione completa praticamente mai eseguita senza tagli come qui), evidenzia una scrittura che fa intrecciare testo e canto, musica e parola, con variazioni di volume (sensibile anche negli interventi del coro), e di intensità che mettono le voci in primo piano senza mai però che si dimentichi l'orchestra. Al di là delle voci, molto interessanti anche le variazioni di dinamica e di colore lungo tutta la partitura, raramente messe in evidenza come stasera. Ancora una volta, viene dimostrato il genio di Rossini, che sa tessere un sistema in cui parole, colori e suoni si rispondono e si intrecciano in un modo sottile e raffinato raramente raggiunto. Questo lavoro è semplicemente ammirevole perché rivela le bellezze nascoste di una partitura che credevamo conoscere.
Notevole anche l'esecuzione del coro del Teatro Ventidio Basso (Ascoli Piceno), particolarmente ben preparato da Giovanni Farina, con una bella chiarezza nel fraseggio, senza mai esagerare il volume, con senso acuto della dinamica (sensibile ad esempio nel suo primo intervento abbastanza virtuoso).
Dal punto di vista della compagnia di canto, come sempre a Pesaro, c’è omogeneità e impeccabile livello generale di tutti. In particolari i ruoli di appoggio sono tutti ben tenuti, sia il Mitrane di Alessandro Luciano che la delicata Azema di Martiniana Antonie. L'ombra di Nino è anche saldamente personificata da Sergey Artamonov, forse un po’ meno impressionante per la proiezione, ma perfetto nel fraseggio e nella dizione.
Carlo Cigni è un Oroe sonoro, ben proiettato e omogeneo su tutto lo spettro, che si impone con una presenza vocale affermata e piena di autorità. Una bellissima esibizione, impressionante fin dall'inizio (apre lo spettacolo).
Il ruolo di Idreno, senza grande funzione drammaturgica, tranne per il fatto che è uno dei pochi personaggi positivi dell'opera, ha soprattutto una funzione "dimostrativa" e consente al tenore degli exploit stratosferici. Da ah, dov’è dov’è il cimento e soprattutto in La speranza più soave nel secondo atto, Antonino Siragusa fa sentire sovracuti impressionanti. Anche se il timbro è ingrato e soprattutto molto (troppo?) nasale in alto, in questo canto c'è una precisione, un'assenza di scorie, di sbavature e persino variazioni di sfumature nell’acuto che lasciano di stucco. È uno canto dimostrativo, senza dubbio voluto cosi dal compositore, ma la dimostrazione tecnica è travolgente. Molto amato a Pesaro (e giustamente!), Siragusa riceve una meritata ovazione.
Nel ruolo di Assur abbiamo in mente le esibizioni passate di Samuel Ramey e Michele Pertusi e, quelle più recenti di Alex Esposito, con cadenze stratosferiche, con dinamiche e facilità dal grave all’ acuto che ne hanno fatto forse il ruolo più esposto e più virtuoso dell'opera. Ognuno di loro ha lasciato tracce significative nella memoria delle rappresentazioni moderne di Semiramide.
Per questa produzione è stato scelto Nahuel di Pierro, che canta per la prima volta a Pesaro in modo radicalmente diverso dai suoi grandi predecessori. Non possiede i loro mezzi e la sua voce è più chiara (quasi un basso-baritono). Non ha la loro potenza né la loro tecnica in alto. Ma compensa con un meraviglioso fraseggio e un senso affermato del testo e della dizione, con un timbro caldo, che gli conferisce un'umanità (così visibile nella scena della follia) che non potevamo immaginare in questo ruolo. Lavora sul colore, sulla raffinatezza, con una rara intelligenza delle situazioni. Così, offre un’interpretazione originale, molto esperta, molto sensibile che cambia la nostra visione del personaggio e gli conferisce una nuova identità, rendendolo uno degli elementi più sorprendenti e interessanti della serata. Senza i mezzi apparenti del ruolo, è riuscito ad essere convincente, con intelligenza e musicalità…
Varduhi Abrahamyan è Arsace e appena entra in scena (la cavatina Eccomi alfine in Babilonia), si sente un vero mezzo con sontuosi gravi, con acuti chiari che riempiono la sala difficile assai dell'Arena Vitrifrigo, con un particolare senso dinamico e agilità senza sbavature, nonché una linea di canto impeccabile. Ciò che colpisce da Varduhi Abrahamyan è una musicalità innata e un canto senza effetti, naturale, giovanile, che rende perfettamente il personaggio e la situazione, con intelligenza del testo e impressionante chiarezza espressiva. Senza dubbio è l'Arsace del momento, e lo rimarrà di sicuro per qualche tempo. Successo trionfale.
La voce è perfettamente in linea con quella di Semiramide, interpretata da Salome Jicia, un giovane soprano georgiano ancora agli inizi della carriera, cantava nel 2015 la Folleville del Viaggio in Reims nell'ambito dell'Accademia rossiniana e da allora è stata regolarmente invitata. È una delle virtù di questa compagnia di canto mettere in evidenza il futuro del canto rossiniano. Salome Jicia è un soprano con un timbro piuttosto scuro (che dal colore ricorderebbe un po' Gencer). La tecnica è perfettamente a posto, sia le variazioni, le dinamiche, che l'agilità. Si dimostra un’artista bellissima, molto sensibile, soprattutto nei duetti (Serbami ognor sì fido … alle più care immagini con Arsace, o con Assur Se la vita ancora ti è cara) dove fa vedere una personalità scenica non indifferente. Forse ne la cavatina bel raggio lusinghier', non ha ancora il carisma atteso (il ruolo è talmente segnato dalla storia delle grandi interpreti del passato!), ma la regia stessa contribuisce a "banalizzare" un ruolo che vede Semiramide non come regina mitica di Babilonia ma come una specie di manager-politico moderno che si veste da uomo… Rimane che la performance è già notevole e che probabilmente guadagnerà rapidamente in autorità (canterà Norma a breve). In ogni caso, è già notevole affermarsi in questo modo in uno dei ruoli più carismatici del repertorio.
Nonostante i fischi che hanno salutato il team della regia, questa Semiramide è uno spettacolo di grande livello, per cantanti che, senza essere al top mitico del canto rossiniano, sono stati in grado di affrontare con garbo (e anche più!) la sfida, e per la direzione straordinaria di Michele Mariotti, al vertice dell'interpretazione di questa affascinante musica che ci fa andare da una sorpresa all’altra. Ecco perché Pesaro è insostituibile.