La questione dell’opera seria rossiniana è quella della regia, per due motivi :
- Da una parte il pubblico viene soprattutto per le voci
- Dall’altra, e per Semiramide in particolare, la strutturazione tradizionale fa ostacolo ad un vero lavoro drammaturgico : alla regia si preferisce il bel scrigno. Ricordiamoci del lavoro tutto bianco di Pierluigi Pizzi a Aix en Provence nel’1980, che faceva da scrigno/quadro al Festival delle voci Caballé, Horne, e Ramey…
Il sovrintendente Klaus Bachler ha chiamato per l’occasione David Alden, che ha lavorato a Berlino con Michele Mariotti per Les Huguenots, l’autunno scorso.
L’approccio di Alden è sempre molto politico, e ambienta la trama in un qualunque stato d’Asia Centrale dell’ex-Unione Sovietica, come lo dimostrano le scene di Paul Steinberg inspirate agli anni 50 – realismo sovietico, e la statua del dittatore morto, che potrebbe essere Lenin, Nazarbaiev, Aliev, i vari Kim coreani oppure Islam Karimov (Uzbekistan), con il quale la statua di Nino ha una certa somiglianza.
L’idea di ambientare l’azione della Semiramide ai confini d'Europa e Asia, è intelligentemente mirata. Ma la storia di Voltaire ne ricorda stranamente un’altra, quella degli Atridi, anche dei Labdacidi : Semiramide/Clitennestra assassinando il marito Nino/Agamennone con l’aiuto dell’amante Assur/Egisto, a sua volta ammazzata dal figlio Arsace/Oreste dopo una lunga assenza e dopo esser stato creduto morto. Manca Elettra, ma c’è abbastanza materiale per un libretto d’opera.
Si potrebbe anche pensare a Giocasta/Semiramide volendo sposare il figlio Edipo/Arsace.
Tutti aspetti politici, intrallazzi di corte, rancori di amanti lasciati, gelosie amorose, ma anche elementi religiosi (il personaggio di Oroe) sono presenti, onde fare di questa storia un tessuto intrecciato d’interessi privati e pubblici in un quadro generico dove il popolo viene sempre manovrato. La visione di quest'orientalismo post-sovietico è suggerita per trasporre in giorni nostri una Persia vista dal Settecento affascinato dall’Oriente e dall’estremo Oriente, dal quale certe tragedie di Voltaire sono nate, che leggiamo anche nelle Lettere Persiane di Montesquieu. Al pittoresco del momento risponde la perennità del sangue, del tradimento, del totalitarismo che non può che creare intrighi da palazzo, oppure omicidi di cui la storia orientale, in particolare ottomana, è piena, e di cui un recente omicidio al gas VX in salsa coreana dimostra ancora l’attualità.
L’idea iniziale è tutt’altra che assurda : è intelligente iscrivere l’azione in una di queste dittature alle frontiere d’Oriente e d’Occidente, dove si possono leggere le nostre rappresentazioni sbagliate o folkloristiche, ma anche proporre sguardi incrociati sottolineati dai costumi di Buki Shiff, contemporanei o no (c’è anche la Legione straniera francese!) e dalle scene di Paul Steinberg, riempite di immense foto ritoccate (alla moda propaganda sovietica) del dittatore Nino con famiglia, nonché dalla sottomissione del popolo alla decisione della regina. Tutto questo è giusto, e avrebbe potuto essere un terreno ricco per sviluppare una regia più profonda.
Ma David Alden si ferma alle immagini, anche suggestive, alla soglia di una vera analisi del libretto di fronte alla realtà che vuole descrivere e soprattutto in fin dei conti, usa del contesto sopra descritto solo come quadro di rapporti dei personaggi tra di loro che non sarebbero diversi in regie molto tradizionali (ad esempio la relazione Arsace/Semiramide). È una regia-vestito, un lavoro decorativo perché al livello della guida dell’attore non c’è niente di approfondito. Solo Assur viene meglio profilato, ma solo perché Alex Esposito è molto al suo aggio nella parte e se n’è appropriato totalmente, più che per la qualità delle regia stessa. Regia in uno spazio più o meno unico, con qualche idea, come la piccola Azema bambola di porcellana che non ha iniziative, oggetto di desiderio che non ha granché da dire, se non obbedire, Semiramide in vedova nera, rigida, una cugina lontana di Turandot all’inizio, Assur visto come generale sovietico, che gioca al dittatore con un globo terrestre nel suo ufficio, uscito direttamente dal Dittatore di Chaplin : tutto ha senso, e tutto al mio parere rimane superficiale.
Tutt’altro che superficiale il lato musicale.
Si sa quanto è difficile Rossini, per le orchestre, per i cantanti, e per il pubblico. Difficile perché la sua produzione seria non è mai riconosciuta per se stessa. Segnerebbe Semiramide il tutto esaurito senza Joyce Di Donato nel cast ? Quante volte sentiamo che Rossini deve scintillare come Champagne perché il riferimento musicale rimane per il pubblico le opere buffe le più rappresentate.
Rossini anche lui ha contribuito a non sempre essere preso sul serio, usando stesse musiche per diverse opere, l’esempio più famoso essendo l’ouverture del Barbiere di Siviglia ((Serve infatti di ouverture a Aureliano in Palmira o Elisabetta regina d’Inghilterra che non sono opera buffe)), oppure cessando di comporre opere nel 1830, maestro assoluto vivendo di rendite per altri 38 anni.
Nella musica di Semiramide (1823), si sentono echi di Donna del Lago (1819) o anche di Barbiere di Siviglia (1816) e di altre opere, confermando quello che dice Michele Mariotti dell’omogeneità dell’arte compositiva di Rossini, usando stesse forme tra buffo e serio.
La Rossini Renaissance ha avuto l’effetto di non solo proporre edizioni critiche che hanno rinnovato completamente l’interpretazione delle sue opera, ma di rimettere in scena negli anni 70 opere dimenticate o addirittura considerate come secondarie. Prima di Pesaro tra l’altro c’è stato Aix-en-Provence, con Elisabetta, regina d’inghilterra (1975), con il ricordo di Montserrat Caballé e del giovane Jose’ Carreras, oppure addirittura Semiramide nel 1980, con Caballé, Horne e Ramey, nella regia tutto in bianco di Pier Luigi Pizzi (alla quale risponde la Semiramide nera di Alden).
Questa storia è ancora viva, perché tutto questo repertorio non è ancora entrato nelle stagioni ordinarie dei teatri, anche se recentemente sulle scene si è visto Donna del Lago (Di Donato-Florez), Otello (alla Scala con Florez, Kunde et Peretyatko), Guillaume Tell (a Bologna e anche a Monaco recentemente), Le Comte Ory (Scala e Lione) e anche Ermione (in versione concertistica pero) a Lione. Dove sono pero i Tancredi, Elisabetta regina d’Inghilterra, Torvaldo e Dorliska, La gazza ladra, Matilde di Shabran oppure Maometto II ecc…A Pesaro qualche volta, ma altrove ?
Quindi la presentazione di Semiramide è un avvenimento a sé, in un teatro che ha raramente proposto questo repertorio, con un cast eccezionale che ha avuto un trionfo di pubblico poco pratico di questa musica.
Le opere serie sono state tutte rappresentate a Pesaro, ma sono ancora poco conosciute dal pubblico amante della musica, che tutt’al più ne conosce l’ouverture. Esse devono molto al Settecento, e in particolare a Mozart : estrema raffinatezza del suono, leggerezza dell’approccio, e lavoro d’insieme intrecciato tra buca e palcoscenico : l’orchestra non accompagna le voci ma canta con loro. Se quest’equilibrio tra scena e buca non viene realizzato, non suona giusto e cade la tensione. Dunque forse queste opere richiedono
più “mozartianità”: quelli che sono attenti avranno notato nella Semiramide quanto la tonalità fa pensare ogni tanto a Zauberflöte, e anche a Clemenza di Tito. Ma anche la musica di Gluck ha lasciato tracce (nel coro). Rossini segue la tradizione dei suoi colleghi compositori espatriati, Paisiello, Salieri, Cherubini, Spontini…Notiamo infine che Semiramide è stata scritta per La Fenice di Venezia, città dov’è nata il teatro d’opera come teatro pubblico e non più spettacolo di corte, e dove si è sviluppata una tradizione vocale segnata da virtuosità vivaldiana. Tutto questo fa memoria e l’opera creata nel 1823 è un apice dopo il quale Rossini si trasferice a Vienna poi a Parigi dove cambierà maniera per interessarsi a forme più spettacolari per le grandi sale parigine.
Cosi Rodolfo Celletti tiene Semiramide come la forma ultima e perfetta dell’opera barocca, dopo di ché bisogna passare ad altre forme. Idea interessante che spiega la grande raffinatezza della direzione di Michele Mariotti, una di quelle interpretazioni brillantissime, che rimettono al suo giusto posto una musica ingiustamente dimenticata, con i suoi contrasti, la sua vivacità, il suo uso dei pianissimi, la volontà di far si che l’orchestra non imponga mai un colore unico all’opera, ma ne serva l’estrema varietà, la policromia musicale, che ne faccia apparire e l’architettura e lo spessore. Fin dalla famosa ouverture, si sentono strumenti solisti (flauto) di una grande leggerezza, e una scienza del crescendo dotata di rara dinamica (il finale): si sente – e quello sorprende sempre- l’alternanza di leggerezza e di esplosioni, le variazioni di volume tra le parti fluide agli archi, poi tutta la massa dell’orchestra, che Rossini saprà cosi bene usare nel futuro Guillaume Tell, e con rallentandi che possono anche ricordare certe frasi di Cherubini. Michele Mariotti trascina l’eccellente orchestra della Bayerische Staatsoper, che dimostra senso della nuance et grande fluidità, nonché dinamica e ritmo stupendo, in particolare nei concertati straordinari. Mariotti diventa inevitabile in questo repertorio, che conosce perfettamente, anzi intimamente, e che difende con notevole energia.
Sarebbe di straordinaria malafede quello che potrebbe sostenere che l’orchestra di questa Semiramide non risponde ai cannoni rossiniani. Per un’orchestra che ha suonato la vigilia Cavaliere della Rosa, e prima Elektra, si rimane pieno di ammirazione per il lavoro svolto col direttore. Anche il coro, che ha una presenza importante in un repertorio poco noto da lui, è perfettamente preparato da Stellario Fagone : si nota fin dalla prima scena, nei momenti più dinamici, nei crescendi, nei cambiamenti di ritmo.
Quello che caratterizza – soprattutto- questa notevole rappresentazione, è ovviamente, aldilà della direzione musicale, una compagnia di canto esperta in questo repertorio, che ha proposto una prestazione per tutti aldilà di ogni lode. A cominciare dai piccoli ruoli, il Mitrane sonoro del giovane Galeano Salas dotato da timbro cosi chiaro, l’ombra di Nino del giovanissimo basso ucraino Igor Tsarkov, membro dello studio dell’opera, e il giovane soprano francese Elsa Benoît, che canta con bel controllo la giovane Azema, che la regia immagina come bambola di porcellana prigioniera di un strano vestito dorato assomigliando ad una camicia di forza e notevole nei duetti con Idreno (Lawrence Brownlee).
Ovviamente, è il quintetto vocale Oroe, Idreno, Assur, Arsace e Semiramide che assicura la spettacolarità vocale. Oroe è Simone Alberghini : un Oroe molto presente, con voce duttile, ben impostata e proiettata – anche se la regia gli impone di girare all’inizio come un derviscio nella prima scena ai piedi della gigante statua di Baal/Nino, e anche se è vero che il libretto nota Oroe in atto di celeste visione– . Simone Alberghini è un cantante di rilievo, ben noto nei ruoli mozartiani o del primo ottocento, è proprio al suo aggio in questo repertorio, per il quale ha lo stile, le agilità, con timbro caldo e bella capacità dare colori al canto.
Conosciamo bene la sicurezza di Lawrence Brownlee, la sua capacità nell'affrontare gli acuti stratosferici e la grande familiarità con Rossini . Canta Idreno, principe indiano DOC con vestito tradizionale di Maharajah e turbante tipico, non senza ironia da parte di David Alden. È impeccabile nel canto, molto presente con dizione eccezionale. Peccato che la sua prima aria Ah dov'è, dov'è il cimento sia stata tagliata. Ma che bel artista, fantastico nei duetti e concertati.
Alex Esposito canta il suo primo Assur. Un cantante specialista di ruoli mozartiani e del belcanto, ma che canta anche Stravinski, o Berlioz (nel Romeo et Juliette con Daniele Gatti) e che si apre a repertori vari (Mephisto del Faust di Gounod); è un cantante espressivo, sempre molto impegnato scenicamente, con grande intelligenza scenica e vocale, che sa dare colori al suo canto, sa interpretare. Il ruolo voluto dalla regia, il tipico visir che vuol diventare califfo è perfettamente personificato, un’incarnazione con intensa presenza scenica. Vocalmente, non ha forse la profondità né l’estensione di altri quali Pertusi o Ramey, ma ne ha le agilità, ne ha l’espressività, ne ha la presenza che ne fa il secondo trionfatore della serata, trionfo meritatissimo. È entrato nel personaggio con i mezzi propri, e soprattutto con lo stile voluto, l’incarnazione, la personalità e vocale e scenica. Un grandissimo momento d’opera.
Daniela Barcellona è una specialista di questo repertorio : da una ventina d’anni, incarna i ruoli rossiniani di travestito, nei quali ha sempre uno stile senza paragoni. Il ruolo di Arsace è stato segnato da Marilyn Horne, ma inutile cercare a sentire il ricordo di Horne nella prestazione di Daniela Barcellona, perché le due voci sono molto diverse.
Lo stato attuale della voce di Daniela Barcellona non è più quello di qualche anno fa. C’è qualche asprezza, qualche suono un po’ metallico nelle arie, e anche negli acuti, ma l’insieme rimane di altissimo livello, soprattutto nei duetti, con Assur e Semiramide, dove Barcellona dimostra stile impeccabile, con una capacità nello sposare il ritmo,nel sciogliersi nell’insieme con colore e espressione. Rimane una cantante eccezionale in questo repertorio.
Joyce di Donato era l’attrazione principale di questa produzione, molto attesa, in una parte che canta per la prima volta, con la serietà, la precisione che caratterizza il canto americano. Joyce Di Donato è sempre stata una cantante seria, generosa, modesta, e di prodigiosa intelligenza. Questa voce non lascia nulla al caso nella sua interpretazione, e segue i meandri del canto rossiniano, con agilità mozzafiato, dove è sempre stata stupenda, con volume notevole. La sua voce è una voce frontiera : si sa che voci alla frontiera tra mezzo e soprano hanno spesso sposato il canto rossiniano, perché nell’ottocento era difficile distinguere i limiti di certe tessiture. Siamo su questa linea molto stretta, dove i sovracuti rimangono un po’ tesi, ma di fronte è un oceano di bellezza, di sicurezza, di salute. Joyce Di Donato si preserva, dando più concerti e meno opere, diventate rare. Rimane senza contesto la regina del bel canto oggi (ricordiamo tra l’altro la sua bellissima Elena di Donna del Lago oppure la sua Maria Stuarda di Donizetti) con una scienza dei filati, delle modulazioni, dei colori, dell’espressione, e in particolare una dizione eccezionale e limpidissima, nonché un'affascinante presenza scenica : l’ingresso nel primo atto, stretta nel suo vestito nero, con piccoli passi quasi da geisha è impressionante. Joyce Di Donato è un esempio di continuità e di regolarità . Grandiosa.
Malgrado le esitazioni di una regia non vuota di proposte, ma non entrando nella profondità dell'analisi, questa produzione di Semiramide rimane eccezionale, incontro di un compositore e di un direttore, di un direttore e di un’orchestra che hanno potuto lavorare insieme il tono giusto, raffinato e spettacolare, per sostenere una compagnia di canto omogenea nell’eccellenza e padrona di uno stile senza paragoni. Da rivedere a luglio durante il Festival d'estate.