Margherita d’Anjou debuttò alla Scala nel novembre 1820, e conobbe notevole successo anche a livello internazionale, come testimoniano una quantità di riprese nel ventennio successivo, con adattamenti in lingua francese e tedesca. La vicenda è collocata nella cornice storica della Guerra delle Due Rose (1455–1485), che in Inghilterra contrappose le famiglie dei Lancaster e degli York, entrambe pretendenti al trono. In tale conflitto, Margherita d’Angiò è una delle figure principali, essendo la regina consorte di Enrico VI, re d’Inghilterra a fasi alterne in quegli anni. Il libretto di Felice Romani introduce qualche modifica nella biografia di Margherita, fermi restando gli ingredienti fondanti, e cioè contese di potere, sentimenti, amor materno.
Quanto a scrittura musicale, i due atti dell’opera appaiono alquanto diversi. Il primo atto è contrassegnato dall’ambientazione militare, con interventi di bande e di corni dietro le quinte, in un’atmosfera a volte fiera ed emotiva. Il secondo atto vede dispiegarsi la mozione dei sentimenti, culminando nel ritrovato amore coniugale di Isaura e Lavarenne. Ben rifinita sul piano formale, la partitura esibisce un’orchestrazione colorita e sapiente, e offre una successione di arie ben scritte che sovente presentano passi virtuosistici, talvolta impervi. Momenti marziali, colorature vocali, vivacità melodica nell’insieme denotano, in questo Meyerbeer giovane, decisi influssi rossiniani. Il che non meraviglia, considerati lo spazio e l’egemonia che Rossini aveva ormai affermato in quegli anni, nel mondo operistico.
Alle prese con l’esplorazione di una partitura così ben articolata, la direzione d’orchestra di Fabio Luisi ne ha lumeggiato attentamente i dettagli, valorizzando le diffuse finezze e il genio melodrammatico di Meyerbeer. Pur non sembrando perfettamente concentrato – più d’una volta l’appiombo tra buca e palcoscenico non era impeccabile – con la sua intelligenza musicale Luisi ha dispiegato con sicura consapevolezza i pregi espressivi e coloristici, ma anche drammaturgici, della partitura. E ha retto con duttile energia le redini di uno spettacolo assai impegnativo, grazie anche al buon rendimento dell’Orchestra Internazionale d’Italia e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, quest’ultimo preparato da Corrado Casati.
Di alto profilo, nei ruoli principali, la compagnia di canto. Nel ruolo del titolo, il soprano Giulia de Blasi ha conferito una positiva dimensione scenica e vocale al suo personaggio, esibendo bel colore ed emissione appropriata, con margini di possibile miglioramento nella messa a fuoco delle colorature. Molto bene il mezzosoprano Gaia Petrone, che ha reso la figura di Isaura su una linea ammirevole per gusto ed eleganza stilistica, capace di morbidezza espressiva come di sicurezza nei passi virtuosistici. Il tenore russo Anton Rositskij ha risolto egregiamente il Duca di Lavarenne, una parte di impegno davvero arduo per lo spessore del personaggio e della sua vocalità, spinta talvolta a sovracuti stratosferici, quasi sempre dignitosamente assolti. Perfetto poi il basso Marco Filippo Romano nel singolare ruolo del buffo Michele Gamautte, interpretato con una capacità scenica, con accenti in ogni momento adeguati, con una tavolozza di risorse vocali da imporlo a unanimi acclamazioni. Su un gradino inferiore gli altri due bassi, Bastian Thomas Kohl come Duca di Glocester, e Laurence Meikle come Carlo Belmonte.
Fattore caratterizzante dell’allestimento è stata la regia ideata da Alessandro Talevi. Asserendo che l’opera semiseria è di difficile comprensione per il pubblico odierno, Talevi ha ambientato la vicenda nella cornice del London Fashion Week. Molto belli i costumi, ovvio. Una reinterpretazione radicale del libretto, che ha trasformato i personaggi in figure impegnate, ognuno con la sua mansione, nel mondo della moda. Di conseguenza, un profluvio di controscene a fiancheggiare gli sviluppi del dramma. E qui, a fare da contorno, bravissimi gli elementi della Fattoria Vittadini. Diciamo subito che il progetto ha il merito di essere audace, e anche divertente. Però non sempre funziona. Nel radicale stravolgimento, tanto per cominciare sono andati a farsi benedire certi spunti militareschi, anche musicali, del primo atto ; e anche il movimento di Isaura e di Lavarenne, ad esempio, è apparso talvolta disallineato dalla situazione musicale. In conclusione, non va bollato il coraggio della proposta di Talevi. Però va assolutamente respinto l’horror vacui, l’assillo continuo, esagerato di esibire trovate e invenzioni. Molti e prolungati applausi alla fine, ma anche tenaci e sonori dissensi indirizzati al regista e al suo staff.