Arrigo Boito (1842–1918)
Mefistofele (1868/1875)
Opera in un prologo, quattro atti, un epilogo
Libretto del compositore, da Faust di Johann Wolfgang von Goethe
Prima al Teatro alla Scala di Milano, 5 marzo 1868

Direttore d'orchestra : Michele Mariotti
Regia : Simon Stone
Scene e costumi : Mel Page
Luci : James Farncombe

Mefistofele : John Relyea
Faust : Joshua Guirrero
Margherite/Elena : Maria Agresta
Marta/Pantalis : Sofia Koberidze
Wagner : Marco Miglietta
Nereo : Leonardo Trinciarelli

Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma
Maestro del coro : Ciro Visco
Coro di Voci Bianche del Teatro dell'Opera di Roma
Maestro del coro : Alberto De Sanctis

Nuovo allestimento Teatro dell'Opera di Roma
Coproduzione Teatro Real di Madrid

Roma, Teatro Costanzi, Giovedì 30 novembre 2023, Ore 20

Adattare il Faust di Goethe è sempre una sfida, e l'opera stessa, con i suoi 19.000 versi e la durata di quasi 24 ore, è una sfida alla resistenza del pubblico. È un'esperienza che si ricorda per tutta la vita, come è successo a me nel 2000 con la produzione di Peter Stein. Eppure il mito goethiano è nella mente di tutti gli intellettuali del XIX secolo e di molti compositori, da Liszt a Wagner e Mahler. Per quanto riguarda l'opera, fu Gounod a mantenere le cose semplici, accontentandosi di lavorare al primo Faust (1859 al Théâtre Lyrique, 1869 all'Opera di Parigi) con grande successo, visto che è, insieme a Carmen, l'opera francese più rappresentata al mondo.

Berlioz fu meno fortunato con la sua Damnation de Faust, una leggenda drammatica che fece fiasco alla sua prima nel 1846 all'Opéra-Comique.

In Italia, Arrigo Boito era uno di quegli intellettuali brillanti, scrittore, poeta, musicista e poi librettista (di Verdi) con la passione per la cultura europea che, grazie alle sue azioni all'epoca del Risorgimento, ottenne una borsa di studio e trascorse due anni a Parigi, dove conobbe Berlioz e Meyerbeer e fu introdotto a Rossini. È anche il periodo in cui scopre Wagner, che Baudelaire, uno degli idoli di Boito, elogia a pieni voti.

Tornato a Milano, decide di comporre la sua prima opera, di cui scrive anche il libretto, molto vicino al testo di Goethe, sul modello wagneriano. Ma cercando di fare troppo, fallì e l'opera fu un fiasco nella sua prima versione alla Scala nel 1868. 

Desideroso di fare di Mefistofele un'opera nuova, un'opera d'arte sperimentale del futuro, il compositore risentì molto di questo insuccesso. Solo sette anni dopo, nel 1875, presentò a Bologna una versione riveduta, che ebbe successo e fu esportata in tutta Europa.

È questa la versione che viene eseguita oggi, e per questa prima a Roma, che il direttore musicale Michele Mariotti dirige per la prima volta, e per la quale Francesco Giambrone, il sovrintendente, ha chiamato Simon Stone per il suo primo allestimento in Italia.

Il cast è solido, con Joshua Guerrero, giovane tenore americano del quale si dice gran bene nel ruolo di Faust, l'esperto John Relyea nel ruolo di Mefistofele e Maria Agresta nel ruolo di Margherita/Elena.

L'opera non è così comune nemmeno in Italia, e ancor meno per l'apertura della stagione, quando si preferisce qualcosa di più sfarzoso. Ma Roma si è già distinta lo scorso anno con i Dialogues des Carmélites di Poulenc. Quindi alla fine, nonostante i tradizionali fischi al regista quest'opera monumentale è stata un grande successo.

 

Il contesto

L'Opera di Roma, con il suo pubblico abbastanza tradizionale, ha deciso ciò nonostante di far vedere regie contemporanee invitando la maggior parte dei più importanti registi d'opera di oggi, che non sono mai stati invitati in Italia mentre sono invitati ovunque. Inizia così una stagione 2023–2024 che vedrà Simon Stone lavorare per la prima volta in Italia, così come Barrie Kosky (per Salome a marzo), Ersan Mondtag per Gianni Schicchi e L'Heure Espagnole (da non perdere per nessun motivo), Claus Guth per Jenufa e la magnifica produzione di Peter Grimes firmata Deborah Warner. Un bel salto in avanti.

Il San Carlo di Napoli e l'Opera di Roma stanno portando una ventata di novità in Italia in termini di allestimenti, e questo è un ottimo segno.

Eravamo quindi molto curiosi di vedere Simon Stone alle prese con questa strana opera, dopo la sua sontuosa Passione greca a Salisburgo la scorsa estate, e inizialmente ero un po' deluso dalla produzione romana, ma con il tempo e la distanza è diventata un ricordo che mi rimane impresso. La traccia, sempre la traccia, che dimostra che le prime impressioni non sono sempre i migliori consiglieri.

Sia la Damnation de Faust di Berlioz che il Mefistofele di Boito, compresa la versione rielaborata del 1875, restano opere drammaturgicamente problematiche : una successione di tableaux, ellissi temporali, scarso lavoro sulla psiche dei personaggi (tranne che per Margherita, forse), a differenza del Faust di Gounod, con la sua drammaturgia più serrata e i suoi personaggi più chiaramente disegnati.

È una successione di tableaux più o meno vividi, che mirano a esprimere la totalità di un universo. Laddove Gounod rimaneva terrestre, Boito spicca il volo verso le sfere del Paradiso fin dal primo quadro, un'impresa che in realtà stupisce per la sua audacia, con i suoi cori enormi, il suo coro di bambini e un'introduzione musicale che tenta anch'essa di abbracciare una totalità all'apertura del sipario, con i suoi strumenti disposti in sala. Prima di tutto, è una questione di impatto.

Si trattava di un'impresa completamente nuova per l'Italia, che dava l'addio al Bel Canto, le arie che esistevano erano in una modalità diversa da quella tradizionale, il testo diventava la base, come in Wagner, delle arie, del coro, ma anche del dialogo continuo al posto del recitativo, poiché come Wagner il compositore era anche l'autore del libretto. C'è ovviamente una musica dell’avvenire nello stile italiano che ci fa capire che Wagner è ben presente, ma soprattutto che il canto italiano è cambiato e non sarà più lo stesso, a partire da Ponchielli e dalla Gioconda, il cui librettista è un certo Tobia Gorrio dietro cui si nasconde Arrigo Boito.

 

La produzione

Per questa strana opera, difficile da mettere in scena senza rischiare il ridicolo, Simon Stone ha concepito un'enorme scatola bianca che strutturasse l'intera opera e al cui interno si susseguissero le scene con ambientazioni diverse, allo stesso tempo uniche e plurali, per mantenere l'idea di quadri che si susseguono.

Esteticamente è riuscito, ma tecnicamente è abbastanza problematico perché ci sono così tante interruzioni e, soprattutto, così tanti intervalli lunghi tra due scene che diventa interminabile, allungando il tempo di rappresentazione oltre ogni logica. Questo è davvero il problema principale di quest'opera, che per il resto non manca né di seduzione né di intelligenza.

Ma – come ho accennato sopra – devo battermi il petto, essendomi soffermato durante lo spettacolo su questa lunghezza e su queste interruzioni, che spezzano i ritmi, ma che nell'insieme lasciano il tempo al tempo, lasciando che si affermi l'idea di una continua meditazione metafisica interrotta da immagini, piuttosto che l'idea di immagini interrotte da momenti vuoti.

Stone, che è un attento regista teatrale, non può aver ignorato queste interruzioni, ma in un'opera eminentemente astratta e spogliata di tutti gli orpelli falsamente germanici che la collocano in una sorta di opera borghese alla Gounod, l'approccio è quello di una costruzione intellettuale che interroga fortemente il nostro mondo.

Il pubblico francese non può ignorare che mentre il Mefistofele debuttava alla Scala nel 1868, nel 1869 il Faust di Gounod (presentato al Théâtre Lyrique dieci anni prima) e il suo balletto entravano all'Opéra di Parigi, dove l'opera avrebbe riscosso un grande successo. Ma tra il tentativo wagneriano-filosofico di Boito di "musica italiana dell'avvenire" e l'opera di grande spettacolo ereditata dal Grand Opéra c'è uno scarto, perché Gounod si limita alla storia di Marguerite, trasformandola nell'ennesima storia di una donna sacrificata e abbandonata nella grande tradizione del XIX secolo, un'opera borghese abituale per far piangere il pubblico.

Al contrario, nell'impresa di Boito, intellettuale europeo, poliglotta, poeta, letterato, librettista e completamente rivolto alla modernità, c'è una sfida musicale e intellettuale che sia avvicina all'avventura della Damnatione de Faust di Berlioz, altro fanatico di Goethe, sia prefigura Mahler nella sua Sinfonia dei Mille, anche lei appoggiata al Faust come abbiamo brevemente accennato nell'introduzione.

Prologo, John Relyea (Mefistofele)

Nel mito di Faust c'è una sorta di brusco confronto con tutto ciò che costituisce il nostro universo morale e mentale : il Bene, il Male, la Conoscenza, il Desiderio, il Tempo, la Morte, l'Immanenza, la Trascendenza, il Divino, la Mitologia e la nostra lettura di essa, ecc.… Insomma, Boito appare come un conquistatore dell'impossibile, in un Ottocento che non ha ancora digerito Wagner, e in un'Italia che si sta allontanando dal Belcanto verso altre forme non ancora ben definite… alle quali Boito darà un contributo importante come librettista di Ponchielli e Verdi.

L'opera fu popolare, cantata da alcune delle più grandi leggende del canto italiano, ma oggi lo è meno, anche se quest'anno in Italia la eseguono Cagliari e Venezia oltre a Roma, e all'estero viene eseguita ancora meno spesso : A Monaco di Baviera è entrata in repertorio nel 2015, a Vienna nel 1882 in una produzione rappresentata fino al 1892, ma si è dovuto attendere il 1997 per una ripresa alla grande diretta da Riccardo Muti, e a Lione nel 2018 è stata proposta in una debole produzione de La Fura dels Baus, ma ben diretta da Daniele Rustioni e cantata… da John Relyea, che questa sera è Mefistofele. Per quanto riguarda Parigi, siamo ancora in attesa di una produzione dopo tre rappresentazioni in forma di concerto nel 1989.

È sorprendente vedere un'opera del genere come apertura della stagione, ma è in linea con la volontà del direttore d'orchestra Michele Mariotti di dimostrare che sta ampliando il suo repertorio, efficace operazione di comunicazione perché la stampa nazionale e internazionale è presente all'apertura della stagione. L'anno prossimo sarà Lohengrin, il suo primo Wagner. Anche per lui si tratta di un appuntamento (riuscito) in terra incognita

Simon Stone ha una vasta cultura cinematografica, una vasta carriera teatrale e una carriera operistica già piena. È uno dei protagonisti della regia teatrale, con un lavoro che mira a rendere comprensibili al pubblico di oggi le questioni sollevate dalle opere del passato. Non si tratta di una piatta trasposizione, ma di proporre di collocare in un contesto contemporaneo opere che potrebbero essere considerate "senza tempo" o troppo legate al loro tempo (ad esempio Tristan und Isolde visto come la crisi di una coppia borghese ad Aix (2021) o Traviata vista come un'influencer seguita da migliaia di follower che finisce sola in ospedale sull’orlo della morte (Parigi 2019 e Vienna 2021), o ancora l'iperrealistico Innocence di Kaija Saariaho, sempre ad Aix, che unisce una festa di matrimonio a un massacro scolastico avvenuto dieci anni prima. Ci ha abituato a uno stile realistico o addirittura iperrealista piuttosto che astratto o addirittura ieratico : eppure è questa la strada, già esplorata in Passione greca, che viene qui scelta.

La scenografia di Mel Page è una scatola bianca e asettica all'interno della quale sono collocati tutti i quadri. L'illuminazione di James Farncombe, a volte violentemente colorata e anche un po' (volutamente) volgare, ridisegnerà i tableaux in cui Mefistofele apparirà essenzialmente. Così fin dall'inizio abbiamo da un lato il bianco immacolato (senza macchia), intatto e, come ho detto, igienizzato, corrispondente alla visione paradisiaca iniziale, e dall'altro la "perversione dei colori" che segna l'intervento di Mefistofele sulla terra.

Il personaggio di Mefistofele è segnato dal colore delle pareti, spesso violento, rosso, verde, ma anche del sangue, o delle palle multicolori del giardino. Qui il colore è maculare, non è un'immagine della vita, della natura e del sorriso. È il bianco che lotta contro ciò che non è bianco (e non il nero, che non vediamo mai in quest'opera – sarebbe troppo facile). Il colore contro l'immacolato.

Prologo : In Cielo

Così, nel primo quadro, il prologo "In Cielo" (Boito aveva osato raffigurare il paradiso…) offre una visione del Paradiso che è umana nella sua totalità, con le anime adulte maschili e femminili disposte essenzialmente sulla parete di fondo in campate sfalsate, e sul palcoscenico gli angeli, cioè i bambini innocenti e il coro dei bambini, le voci bianche, bianche nella voce e qui nell'aspetto esteriore, riflettendo così esteriormente ciò che sono dentro : in paradiso l'essere e l'apparire si fondono. Nessuna caverna di Platone.

Al centro c'è una scala a chiocciola dalla quale Mefistofele uscirà "da sotto". Con questo segno, Stone sottolinea la corrispondenza strutturale tra sopra e sotto, tra i due mondi contrastanti, e questa scala assomiglia molto alla rappresentazione del DNA, che è come il DNA del mondo, dove questo contrasto a cui nessuno può sfuggire è sempre presente. Non c'è paradiso senza inferno, non c'è bene senza male, ecc. E quando Mefistofele appare vestito tutto d'argento, come un personaggio di un music-hall, le pareti bianche si ricoprono di rosso, finché il canto dei cherubini non scaccia il cattivo, e a quel punto lo spazio torna al suo bianco.

Il prologo delinea così i due universi, quello che vediamo e quello sotto, che sono indissolubilmente legati e apparentemente interdipendenti, uno non esiste senza l'altro.

La struttura dell'opera è abbastanza semplice, quattro atti, poche scene : due scene negli atti I e II, una sola scena nel III e IV atto e l'epilogo, che chiude simmetricamente l'opera con la stessa musica del Prologo che porta Faust in Cielo lontano da Mefistofele. Quattro atti e sei scene, come una sorta di pala d'altare che racconta una di queste storie edificanti, con intervalli tra le scene che sono ellissi temporali, dei momenti, degli episodi emblematici;:

Atto primo
‑la domenica di Pasqua, quando Faust viene avvistato da Mefistofele
‑il patto, che chiude il primo atto

Atto secondo
‑La scena nel giardino di Margherita
‑Il sabba, che chiude il secondo atto

Atto terzo
La morte di Margherita, che costituisce l'intero atto III

Atto quarto
La scena di Elena di Troia, che costituisce l'intero atto IV.

Nell'Epilogo, Faust, ormai vecchio, sceglie Dio al posto di Mefistofele, che cerca un'ultima volta di attirarlo.

Simon Stone sottolinea lo sfondo particolarmente cristiano della vicenda, analizzando il modo in cui i grandi registi italiani (da Fellini a Visconti e Pasolini) costruiscono i contrasti nei loro vari film, che testimoniano tutti una profonda cultura cattolica (si veda Pasolini, ad esempio), segnata qui dall'epilogo e dall'affermazione della scelta di Dio : "Baluardo m' è il Vangelo ! " è una delle espressioni di Faust.

 

Atto primo

In questa produzione, i riferimenti al mondo dell'infanzia sono evidenti, come nella scena della domenica di Pasqua in cui gli uomini si divertono come bambini, con una giostra di cavallini, festoni e venditori di popcorn, zucchero filato o salsicce. Non si tratta di glorificare un paradiso del mondo infantile, ma di tradurre il mondo come lo vede Mefistofele, un mondo che può essere manipolato, un mondo leggero, un mondo che canta e balla, un mondo spensierato come quello dell'infanzia, un mondo di fiabe che evolve sul vulcano mefistofelico.

La domenica di Pasqua

In questo mondo, l'innocenza è sempre sul filo del rasoio. Anche il Re e la Regina che compaiono sono figure di un gioco di carte, o immagini evocate dalle fiabe e diventano banali, inghiottite dall'atmosfera, con questo giullare tutto vestito di bianco che affronta un Mefistofele non vestito da frate ma da clown (con un naso a forma di lampadina), con la valenza inquietante che può assumere un clown. Il giullare è forse una figura di clown ma costruita sotto comando, opposto a Mefistofele che rappresenta una sorta di magia nera, come quando sembra guidare le parole di Wagner che accompagna Faust al suo arrivo alla festa. Siamo nell'irreale, come se la festa fosse stata creata da Mefistofele stesso per mettere in scena l'arrivo di Faust in mezzo a questo mondo.

Marco Miglietta (Wagner), Joshua Guerrero (Faust)

E questo Faust è proprio lì, in mezzo al divertimento, dubbioso e interrogativo, e si distingue per l'età e i capelli grigi, e Wagner sembra essere non tanto l'amico quanto il badante che lo accompagna. Faust fissa subito il clown o "frate" e Wagner, manipolato, lo dissuade (Ah ! No ! Fantasma quest'è,
Quest'è del tuo cervello
).

Joshua Guerrero (Faust), John Relyea (Mefistofele) quale pagliaccio

La regia conferma due idee :

  • da un lato, l'idea di Stone che la Pasqua (con tutto il suo significato cristiano) sia una festa creata da Mefistofele per materializzare la sua visione di un mondo da disprezzare ;
  • dall'altro, l'interessante idea che questa marmaglia poco interessante scompaia nel momento chiave dell'"incontro con Mefistofele". Faust è scelto proprio per la sua singolarità, colui che vede ciò che gli altri non vedono, come è stato fatto con Wagner. Colui che sa.

Joshua Guerrero (Faust) John Relyea (Mefistofele) (Il patto)

La scena successiva (Il patto) conferma queste intuizioni. Lo studio di Faust è pieno di corpi visti ai raggi X, come se Faust passasse il suo tempo a radiografare il mondo vivente, animali ed esseri umani, cercando di conoscere oltre le apparenze per vedere ciò che gli altri non vedono.
Eppure, la curiosità e la conoscenza sono state le forze trainanti della caduta dell'uomo, cacciato dal paradiso. Uno scienziato come Biagio Pascal era perfettamente consapevole che la sua sete di conoscenza era un segno della sua strutturale umanità di peccatore.
L'aria Dai campi dai prati è il suo invito alla natura, all'amore di Dio attraverso l'amore dell'uomo nel mondo. Appare in una serenità quasi rassegnata.

Quest'uomo, con la sua insaziabile curiosità, è la vittima designata di Mefistofele, perché lo inviterà ad andare oltre nella sua conoscenza. Appare in mezzo al fumo dietro la scrivania sotto la quale sono ammassate centinaia di carte, come se emergesse da questo mondo di stratificazioni del sapere, e si spoglia delle sue vesti clownesche per apparire in un abito color vinaccia, un colore che nella sua valenza negativa rimanda al mistero e allo strano, e che è anche il colore del sangue secco. Alcuni trucchi magici (accensione di una fiamma, ecc.) e due incantevoli ninfette stimolano un desiderio senza dubbio sepolto in Faust, ed Mefistofele si presenta (Son lo spirito che nega sempre tutto) a colui che aveva già capito con chi aveva a che fare, e firma un patto di sangue, con una musica fulminea e ironica quanto la sua falsa grandezza.

Faust non sceglie il male, sceglie di andare ancora più lontano nel “peccato” della conoscenza con questa guida singolare, addirittura unica. Simon Stone sottolinea che non sta per aumentare la sua conoscenza, ma semplicemente la sua esperienza, un'esperienza umana che porta all'abisso. Ma chi vuole sapere troppo e abbracciare troppo non abbraccerà bene.

 

Atto secondo

Il Giardino : Joshua Guerrero (Faust) Maria Agresta (Margherita)

Nel secondo atto, la scena del giardino è senza dubbio una delle più riuscite dell'allestimento, che rimanda ancora al mondo dell'infanzia con la sua vasca di palline di plastica multicolori come quelle che si vedono nelle aree per bambini di McDonald's o dei supermercati. Giocheremo ai giochi del desiderio dei bambini, quei giochi spensierati che tuttavia determinano il futuro senza che ce ne rendiamo conto, in uno spazio molto influenzato dal mondo contemporaneo.

Faust è ringiovanito, vestito con un costume più o meno simile a quello di Mefistofele : è un'idea abusata dai tempi del Faust di Gounod firmato Jorge Lavelli (1975) a Parigi, quella di rendere Faust e Mefistofele due figure gemelle. Qui Mefistofele è vestito di rosso vinaccia, come abbiamo visto, e Faust di viola, colore positivo (potere di successo) ma anche espressione di mistero e solitudine, un po’ come il rosso vinaccia.

Il Giardino : Sofia Koberidze (Marta) John Relyea (Mefistofele)

Ancora una volta è un mondo colorato, dove i colori sono proiettati sulle pareti bianche, un modo per mostrare che è Mefistofele a creare l'illusione teatrale, e le coppie Faust-Marguerite e Marta-Mefistofele si trastullano con un'altra coppia come piccoli animali innocenti – che non sanno…

La scena è riuscita perché è una scena di falsa freschezza e una vera trappola. Siamo solo nell’apparente paradiso dei bambini, nel mondo delle false apparenze… e giocando sul vulcano.

Il vulcano viene dopo, nella scena del Sabba (scena seconda), che è la prima scena in cui Mefistofele appare a pieno titolo, e Faust in un ruolo secondario, come a margine. Concepita non come una “danse macabre”, ma come una riunione politica in cui il popolo, allineato sulle gradinate, attende il leader, che presiede una cerimonia e poi va a parlare dietro un leggio.
Nella sua disposizione e drammaturgia, la scena ricorda la Festwiese dei Meistersinger, vista da Katharina Wagner nella sua produzione di Bayreuth, dove il discorso di Hans Sachs diventa gradualmente un riferimento a Adolf Hitler.

John Relyea (Mefistofele) stile Mussolini

L'idea è esattamente la stessa, con la differenza che Hitler sarà sostituito da Mussolini, in un'Italia ora governata da post-fascisti e altre scorie.

Simon Stone si diverte molto in questa scena. Si inizia con l'immagine di un maiale sventrato appeso per una zampa da cui fuoriesce sangue, di cui Mefistofele si ricopre, ricoprendo con esso una teoria di giovani uomini e donne, una sorta di cavalierato attraverso il sangue (che ricorda una cerimonia Voodoo, e ricorda per il Bayreuthiano che scrive la cerimonia del Graal di Parsifal vista anni fa nella regia tanto buata ma tanto forte firmata Christoph Schlingensief nel 2004 (direttore Pierre Boulez).
Qui l'allusione è chiara : il potere dittatoriale ha qualcosa di cultuale e ritualizzato, che lo rimanda a un mondo irrazionale, un mondo non governato dalla ragione ma da una fede cieca che deve essere fanatizzata.

Il coro dei fanatici

Segue un discorso dal leggio in cui Mefistofele, coperto da un berrettino alla Mussolini, sciorina le sue verità brandendo un palloncino a forma di mondo, come Charlie Chaplin nel film Il dittatore (l'allusione è ovviamente trasparente), con frasi come ecco il mondo vuoto e tondo o riprese dal coro riddiamo che il mondo è caduto, riddiamo che il mondo è perduto.
Così, equiparando il Sabba, la festa del diavolo, a una riunione in onore del dittatore, Stone equipara il Satana di ieri ai vari dittatori di oggi, traducendo ciò che per lui è il male, cioè la perdita totale dell'autonomia di pensiero. E un Faust visibilmente a disagio presente suo malgrado, lo conferma.

 

Atto terzo : la morte di Margherita

Maria Agresta (Margherita)

In questo atto, che è un'unica scena, quella della morte di Margherita, ci muoviamo in uno spazio che è il più semplice di tutto l'allestimento, in netto contrasto con quanto precede e segue.
Il vuoto è esaltato dalla posizione di Margherita nell'angolo destro, raggomitolata, come se non fosse più in grado di riempire lo spazio.
È il momento della sua aria di solitudine e disperazione L'altra notte in fondo al mare, uno dei momenti più strazianti dell'opera e forse l'unica vera aria della partitura in cui Stone sottolineerà sia il vacillare della ragione che la solitudine attraverso la visione della madre da una parte e dall'altra di quello che si pensa essere un bambino in braccio alla giovane donna e che invece si rivela essere un lenzuolo vuoto.

Maria Agresta (Margherita), Joshua Guerrero (Faust)

La semplicità della scena è ciò che le conferisce la sua forza.. Tra l’altro non si distingue dalle consuete visioni di questo momento, anche se alla fine la sconfitta di Mefistofele è segnata dall'apparizione di quattro bambini-angeli (i peggiori nemici di Mefistofele) che portano via Margherita con il capo coperto verso una morte salvifica (sentiamo “salva“) mentre Mefistofele, che aveva gridato giudicata, ha ormai solo Faust da portare con sé per un ultimo esperimento.

 

Atto quarto : Elena

Dopo la straziante semplicità del terzo atto, si assiste a una sorta di trasfigurazione attraverso un altro momento spettacolarmente riuscito della messa in scena, una seconda notte di Sabba all'interno della mitologia greca.

Ambiente del quarto atto

La didascalia del libretto ci offre la visione di un paradiso antico, visto e attraversato dalle nostre visioni pittoriche della mitologia, ma anche quasi rivisitato dal mondo dell’operetta.

Il fiume Penèjos. Acque limpide, cespugli folti, fiori e fronde. La luna immobile allo Zenuit spande sulla scena una luce incantevole. Un tempio con due sfingi a sinistra. Nel fondo Elena a Pantalis, in una cimba di madreperla e d'argento ; un gruppo di sirene intorno alla barca. Faust giacerà assopito sulle zolle fiorite.

Cito il mondo dell'operetta perché nel 1867, un anno prima della prima milanese di Mefistofele, a Milano debuttava La Belle Hélène di Offenbach.

C'è qualcosa di questo mondo da sogno nella visione di Mel Page della scenografia, con le sue colonne e le sue arcate, un mondo di amori di ogni tipo e di piaceri di ogni genere, in mezzo al quale Faust giace su un lettino da spiaggia. Una visione di paradiso teatrale cullata da due voci femminili, Elena (cantata dalla stessa cantante di Margherita, nella sua versione pagana e idealizzata) e Pantalis, cantata dalla stessa cantante di Marta, come se Faust avesse voluto evadere dal mondo terreno e drammatico per viaggiare nel mondo idealizzato della mitologia, dove, ovviamente, andrà a sedurre Elena di Troia (Forma ideal purissima della bellezza eterna).

Maria Agresta (Elena) e guerra di Troia

Se nel libretto Elena ha una visione quasi da Cassandra della guerra di Troia (Notte cupa, truce, senza fine, funebre), Stone mostrerà gli orrori della guerra che distruggono questo mondo ideale e lo macchiano del sangue delle vittime che si accumulano, trasformando Faust in un soldato (italiano) venuto a salvare Elena (le cura le – lievi – ferite), Il loro duetto d'amore finale diventa allora un amore nato su un campo di rovine, ovviamente scatenato da Mefistofele, dittatore nel secondo atto e guerrafondaio nel quarto, due versioni del sabba mefistofelico che vanno ovviamente collegate in questa visione di Stone che ci dice che, insomma, non solo Mefistofele è tra noi, ma che forse è noi.

L'atto si conclude con il celebre duetto Amore ! Misterio celeste, profondo ! cantato davanti al sipario che ha nascosto la scena della distruzione, che si alza per rivelare, come nei migliori musical o operette, il coro che canta l'aria conclusiva Poesia libera t'alza pe' cieli come una sorta di inno all'amore dei poeti, un finale grandioso, aperto, sorridente, positivo, che sarebbe quasi credibile se non fosse che il coro esce di scena nel momento in cui la coppia evoca l'Arcadia, il paradiso dell'amore pastorale e letterario, separandosi e uscendo di scena, ognuno per la propria strada, rivelando di quale Arcadia si sta parlando : una casa di riposo. Questa volta non c'è transizione tra il quarto atto e l'epilogo.

I successivi fallimenti degli esperimenti di Faust, anche i più eterei, diventano chiari. Lo stacco tra i due stati d'animo, ciascuno in bianco, quello dell'Arcadia celeste e quello dell'ospizio.

Epilogo

Morte di Faust : Joshua Guerrero (Faust), John Relyea (Mefistofele)

L'epilogo mostra Faust come il vecchio che era all'inizio, ancora più invecchiato su una sedia a rotelle in una casa di riposo. È una visione particolarmente fatalista, in cui ci viene detto che, in definitiva, qualunque siano i percorsi e le esperienze, la fine è più o meno la stessa per tutti gli uomini.
Faust è immerso nella meditazione e quasi assente quando entra Mefistofele in un abito d'argento che ricorda il prologo, evidentemente alle soglie della morte dell'anima promessa dal patto.

Ma per Faust il desiderio ha lasciato il posto al ricordo, il ricordo di una vita che comunque è finita dove tutti finiscono. "L'ideal fu dolor" canta mentre Mefistofele, come un parente in visita all'anziano, lo nutre. È una sorta di visione "familiare", ma ancora una volta è solo un'apparenza, come se l'altro cercasse di attrarlo con una parvenza di sollecitudine.

Ma è allora che Faust, nel suo monologo finale, esprime il suo ultimo vero sogno, quello della poesia che è semplicemente la poesia dell'esistente, "voglio che questo sogno sia la santa poesia dell'esistente".

È allora che sentiamo la musica degli angeli e Mefistofele si sente minacciato : In una parabola di tipo "alzati e cammina", Faust si alza dalla sedia a rotelle e si mette in piedi quando risuona il canto del Paradiso del Prologo, mentre Mefistofele per contrastarlo inizia il canto d'amore finale del quarto atto, Faust risponde con "Baluardo m'è il Vangelo", mentre il coro del Paradiso redime Faust mentre Mefistofele, il mago delle illusioni, ammette la sconfitta e scompare fischiettando.

In questo modo, Stone costruisce una parabola che sembra astratta, ma che in realtà lega fortemente questa storia alle turbolenze del mondo di oggi : populismo, fascismo, guerre, culto delle apparenze, disprezzo per ogni sostanza.
Mostra anche un'esistenza umana che finisce irrimediabilmente in una sorta di decadenza del corpo e talvolta della mente.

Ma, come egli stesso sottolinea nel programma, si trova a Roma, la capitale della cristianità, e la visione celeste finale evoca la vittoria del Vangelo sulle sventure umane.

La proposta è piuttosto acuta e, nonostante gli ingiustificati fischi alla prima, piuttosto saggia, anche con le sue chiare allusioni all'attualità italiana, ma non è pesante, offrendo una visione raffinata che lascia un'impressione duratura nello spettatore, libera da ogni ridicolo e da un immaginario vecchiotto ormai superato.

 

Gli aspetti musicali

È vero che questo allestimento è accompagnato da una direzione musicale eccezionale e da forze locali che si sono impegnate in modo del tutto particolare, offrendo una qualità che fa onore a questo teatro.

Conosciamo a sufficienza la travagliata storia del Teatro dell'Opera di Roma per non sottolineare innanzitutto, prima di elogiare i singoli, la qualità del collettivo e degli ensemble riuniti per il successo della serata nel loro impegno sul palcoscenico e nella musica. Ascoltiamo un coro veramente valoroso, diretto da Ciro Visco, potente, chiaro, con un volume consono all'opera, aiutato da una messa in scena che non lo affatica con movimenti "inopportuni", e un coro di "Voci Bianche" diretto da Alberto De Sanctis, anch'esso impegnato e molto preparato (volume, fraseggio).

Infatti le parti corali sono essenziali in quest'opera e l'esecuzione è stata esemplare.

L'orchestra dell'Opera di Roma, talvolta irregolare, è qui particolarmente impegnata e concentrata, senza alcuna ottusità, suonando con volume (l'impressionante apertura) ma anche con i momenti più lirici o malinconici, senza mai farsi prendere la mano in una partitura ricca di contrasti di volume e di rotture di dinamica (l'accompagnamento di Margherita, l'introduzione all'epilogo). Colpisce l'invidiabile livello generale dell'esecuzione, a cui va il nostro plauso per aver dato il giusto valore alla partitura.

Ma è ovviamente da lodare il lavoro di concertazione di Michele Mariotti, che offre una lettura della partitura chiara, dettagliata, contrastata e mai eccessiva o rumorosa. È facile esagerare gli effetti, rendere volgari certi momenti in una partitura che prende tanto a prestito dal wagnerismo (l'inizio) ma anche dal Grand-Opera, e che cerca, o tenta di stabilire, uno stile e un'originalità.

Mariotti naviga tra tutte le insidie, iniziando volutamente a volume molto alto (qualcuno ha detto troppo alto), collocando gli ottoni in sala per massimizzare l'effetto spaziale di questo prologo al Paradiso, ma allo stesso tempo passando rapidamente ad altri ritmi, seguendo attentamente il testo, sostenendo i cantanti senza mai coprirli. Il volume, anche quando è altissimo, è sempre sotto controllo, le parti più delicate sono affrontate con duttilità, le rotture sono negoziate senza mai avere degli stacchi, in un gioco permanente che si adatta ai diversi momenti scenici in cui l'enormità corale si alterna a momenti di intimità. La lettura di Mariotti non è mai magniloquente, anche se l'opera si presta all'eccesso, ma piuttosto incisiva, tagliente, a volte stridente, giocando sulle differenze di dinamica senza mai dimenticare l'omogeneità d'insieme e soprattutto seguendo il testo, che qui è essenziale, come essenziale è in Wagner, con sistemi di eco tra le parole e la buca sia nell’ironia, nel lirismo e nella delicatezza. Spesso si è sentito Mariotti in altre opere lavorare per ridurre le asperità, arrotondare gli angoli ed evitare che i suoni si scontrassero : non è questo il caso, dove osa affrontare i contrasti con grande abilità e impegno, e soprattutto evitare il sentimentalismo senza mai scadere nell'oggettività o nella freddezza. È una lettura sfaccettata, sorprendente per varietà, colore e precisione.

È un lavoro davvero eccezionale sotto tutti i punti di vista, in una partitura piena di giochi sul filo del rasoio dove nulla è semplice.

 

Il canto

L'Opera di Roma ha messo insieme un cast omogeneo e di alto livello per un'opera in cui hanno cantato alcuni dei più grandi nomi : Caruso, Beniamino Gigli, Ezio Pinza, Tancredi Pasero, e recentemente Samuel Ramey e René Pape. A parte Maria Agresta, ormai affermata ai vertici dei soprani italiani, non ci sono stelle in questo cast, ma solidi cantanti che hanno fatto piuttosto bene.

Il Nereo molto episodico di Leonardo Trinciarelli è stato corretto, e Marco Miglietta, che si distingue davvero in Wagner, è stato molto attento al fraseggio e all'emissione, con una bella proiezione del suono e una voce tenorile ben posizionata. Sofia Koberidze canta sia Marta che Pantalis, così come Maria Agresta è Margherita ed Elena : era intenzione di Boito far cantare questi diversi personaggi in eco per mostrare nei diversi contesti la disperata ricerca della stessa figura. Il mezzosoprano georgiano si presenta a pieni voti nei due ruoli di Marta e Pantalis, cercando di lavorare sul colore, con una bella personalità scenica.

Joshua Guerrero (Faust)

Ma l'opera si regge sui tre protagonisti, a cominciare dal Faust di Joshua Guerrero, tenore americano di origine messicana che sta iniziando una carriera europea, dovuta alla disperata ricerca di nuovi tenori, visto che la generazione precedente comincia ad esaurirsi. Guerrero ha indubbiamente notevoli qualità tecniche, sia nel fraseggio che nella dizione : la sua emissione è chiara e i suoi acuti sono solidi. Ciò che manca a questa voce è un timbro più seducente, una luminosità che non ha e, soprattutto, un impegno nel colore che rimane in secondo piano : pochi accenti, poco colore, soprattutto nelle parti più liriche e meditative. Va meglio nei momenti più esplosivi (il duetto con Elena, la scena in giardino) dove si sente una voce potente con una base robusta, ma per dare spessore a un personaggio bisogna andare oltre nell'espressione e qui non ci siamo. Sento un tenore che è indubbiamente interessante ma che non fa (ancora?) sognare.

Maria Agresta (Elena)

Al contrario, Maria Agresta ha acquisito negli anni una solidità vocale, un senso dell'espressione e del colore e un impegno che rendono la sua Margherita profondamente emozionante, senza dubbio la più emozionante sul palcoscenico, quella che riempie lo spazio e sa come coinvolgere il pubblico. La sua voce è forte, ben proiettata, senza problemi tecnici, e la sua scena del terzo atto, con un Faust molto meno personale (Joshua Guerrero), è folgorante dall'inizio alla fine, dal monologo iniziale L'altra notte in fondo al mare al duetto disperato e straziante con Faust in cui gioca in modo eccezionale la presenza/assenza e la fragilità/decisione (Spunta l'aurora pallida). È una delle sue migliori interpretazioni, assolutamente convincente e indimenticabile. E lo è ancora di più perché in Elena offre un'altra sfaccettatura, meno lirica, più drammatica nel suo monologo visionario e poi molto decisa nel duetto finale con Faust, offrendo a turno il volto della fragilità e della disperazione (Margherita) e quello dell'eroina mitologica, insieme cupa e liberata, con una voce di sorprendente ampiezza. Un grande momento.

Sofia Koberidze (MartaJohn Relyea (Mefisofele) nella vasca di palline.

Di John Relyea ho scritto nel 2019 (a Lione) John Relyea (…) particolarmente impressionante, soprattutto all'inizio. Bella dizione, bella espressività e bel fraseggio. Anche se la potenza non è sempre presente (…) la personalità vocale rimane convincente ed è stato un ottimo Mefistofele quello che ci è stato dato di ascoltare.

John Relyea (Mefistofele) (la Domenica di Pasqua)

Il fraseggio di Relyea è bello e garantisce la chiarezza del testo e dell'espressione. Ha sufficiente dimestichezza con il ruolo (anche con Gounod e Berlioz) per impegnarsi a fondo sul palcoscenico (è da lui e dalla sua mobilità roteante che ci aspettiamo il massimo nell'opera) e la prestazione vocale, senza essere prodigiosa, rimane molto convincente in un personaggio che è allo stesso tempo vanaglorioso e preoccupante (ecco il mondo nel II atto), che si prende così poco sul serio da essere convinto di essere il più forte, e che è tanto più valorizzato dal fatto che Faust è un po' pallido. È un cantante molto eclettico che abbraccia tutte le situazioni, il che gli conferisce una grande espressività in tutti i toni, da quelli fragorosi a quelli insinuanti. Per questo motivo, si presenta al ruolo a pieni voti, anche se non è necessariamente un Mefistofele leggendario come lo era Samuel Ramey due o tre decenni fa.

Nel complesso, un'apertura di stagione di grande rilievo, con qualità musicali e sceniche equilibrate (un po' come la Turandot a Napoli), che mostra un livello alto più regolare nel paesaggio dei grandi teatri d'opera italiani al di fuori della Scala. A parte il piacere di visitare il bel paese a novembre o dicembre, la qualità dell'offerta operistica all'inizio di queste stagioni è particolarmente invidiabile. Avendo assistito a tre produzioni inaugurali, a Napoli, alla Scala e a Roma, possiamo dire che ognuna nel suo stile fa onore al canto italiano, diventato patrimonio immateriale dell'umanità, e poi che finalmente, almeno a Napoli e a Roma, il teatro contemporaneo prende posizione nei teatri lirici, il che è un'ottima notizia.

 

 

 

 

 

 

 

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