Giuseppe Verdi (1813–1901)
Don Carlo (1867)
Opera in quattro atti
Livret de Joseph Méry et Camille du Locle, traduction italienne de Achille de Lauzières et Angelo Zanardini
Création le 11 mars 1867 à l'Académie lmpériale de Musique, Opéra de la rue Le Peletier, Paris
Version en quatre actes (1884) créée le 10 janvier 1884 au Teatro alla Scala, Milan

Diretore      Riccardo Chailly
Regia           Lluis Pasqual
Scene            Daniel Bianco
Costumi.       Franca Squarciapino
Luci               Pascal Mérat
Video             Franc Aleu
Movimenti
coreografici    Nuria Castejón

Filippo II, Re di Spagna.        Michele Pertusi
Don Carlo, Infante di Spagna Francesco Meli
Rodrigo, Marchese di Posa.    Luca SalsiIl
Grande Inquisitore.              Jongmin Park
Un Frate                              Jongmin Park
Il Frate (Carlo Quinto)           Huanhong Li*
Elisabetta di Valois                Anna Netrebko
La Principessa d’Eboli            Elīna Garanča
Tebaldo, paggio d’Elisabetta.  Elisa Verzier
Il conte di Lerma / Un araldo reale Jinxu Xiahou
Una voce dal cielo                 Rosalia Cid
Deputati fiamminghi              Chao Liu*, Wonjun Jo*, Huanhong Li*, Giuseppe De Luca**,  Xhieldo Hyseni*, Neven Crnić

*Elève de k''Accademia Teatro alla Scala
**Ex élève de l'Accademia Teatro alla Scala

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Maestro del coro : Alberto Malazzi

Nuovo allestimento del Teatro alla Scala

Milano, Teatro alla Scala, sabato 16 dicembre 2023, Ore 19

Ancora una volta si confermano le intuizioni musicali più volte espresse in queste pagine sul Don Carlo, opera a noi particolarmente cara, e quelle più generali su cui faremmo bene a riflettere. 

Innanzitutto, la versione milanese in quattro atti funziona solo per chi ha fretta di andare a cena dopo… rimane drammaturgicamente traballante e manca del respiro che l'opera nel suo complesso merita. È un ripiego perché Verdi non ha saputo o voluto risolvere la questione delle dimensioni della sua opera, cercando di conciliare concisione e dramma. Ci si chiede perché nessuno protesti per i Meistersinger di Wagner, opera più lunga, mentre tutti si lamentano per il Don Carlo(s), che è sempre troppo lungo. Avrebbe dovuto diventare prassi comune proporre almeno la cosiddetta versione modenese in cinque atti, al posto della versione originale, che come sappiamo ha dimensioni elastiche a seconda della scelta dei teatri ed è cantata in francese, per la quale è sempre più difficile trovare cantanti.

La seconda intuizione è che La ragazza più bella del mondo può dare solo quello che ha, nel senso che avendo messo insieme più o meno il cast più prestigioso possibile dell'opera, sotto la direzione di un direttore d'orchestra di altissimo livello, che sta producendo qui uno dei suoi migliori Verdi, ma senza la sensibilità che ci si aspetta, il cast non può, da solo,e neanche con l’aiuto del idrettore, tenere insieme una produzione che non funziona teatralmente. 

Una produzione di Don Carlo (che in origine è una tragedia romantica, non dimentichiamolo, e non un dramma del Cinquecento o un dipinto di Velázquez) non può essere una successione di foto di classe fossilizzate in cui ognuno è comodamente seduto al suo posto, con al centro il professor Filippo II o il superiore del convento, l'Inquisitore. Eppure è più o meno quello che sta succedendo in scena. .

La terza intuizione che oltre quarant'anni di esperienza scaligera ci hanno insegnato che che il 6 dicembre (alla vigilia della Prima) la nuova produzione della Prima viene annunciata come l'opera del secolo, il 16 o il 19 dicembre, salvo rare eccezioni, diventa una produzione che viene rapidamente archiviata nella grande storia della Scala.

E la triste verità è che dalla leggendaria produzione Ronconi-Abbado del 1977, non c'è stata una sola produzione di Don Carlo alla Scala che sia stata convincente : quella ridicola di Zeffirelli del 1992, quella del 2008 di Braunschweig come al solito senza interesse ne sapore, quella così insignificante di Peter Stein da essere dimenticata nel 2017, e questa che è emersa dai polverosi sarcofagi delle cantine dell'Escorial, nonostante sia un innegabile successo musicale. Un triste riassunto.

 

 

Lluís Pasqual è tutt'altro che un mediocre uomo di teatro. Ha alle spalle una lunga carriera nazionale e internazionale, ha lavorato con Grotowski e Strehler e ha diretto l'Odéon Théâtre de l'Europe, succedendo al "Maestro" (Giorgio Strehler) come primo direttore dell'Odéon-Théâtre de l'Europe, istituito definitivamente nel 1990.
Una lunga carriera fatta di numerose produzioni teatrali e di qualche opera lirica è tutt'altro che trascurabile, per cui le carte erano in regola per un Don Carlo scaligero.
Ma forse mancava l'ispirazione. La scelta di trasformare l'opera in una sorta di successione di « tableaux vivants », in un mondo buio e pietrificato senza via d'uscita, senza molta direzione degli attori – o meglio senza alcuna direzione – con un movimento limitato, ci è sembrata deleteria.
Concentrando l'azione in uno spazio centrale circolare circondato da divisori in alabastro rimovibili, cerca di semplificare gli spazi per concentrarsi sui confronti faccia a faccia tra i personaggi.

È noto che una delle caratteristiche dell'opera, nata dalla tradizione del Grand-Opera, è la moltiplicazione dei luoghi e la difficoltà di riuscire a concentrare l'azione nello spazio senza che questa diversità di ambienti diluisca il dramma. Warlikowski a Parigi, Guth a Napoli e anche Jürgen Rose a Monaco sono riusciti a unificare il luogo senza impoverirlo, mantenendo la fluidità della trama.
La scenografia di Daniel Bianco ha il chiaro intento di alleggerire la struttura, utilizzando vasti tramezzi in alabastro traforato che ricordano ringhiere in ferro battuto, con corrimano ai lati e uno spazio circolare al centro che è un'area di recitazione, con una serie di divisori che si aprono e si chiudono, un po' come era  "l'orchestra" del teatro greco (che era spazio per il coro).
L'idea è proprio questa : concentrare la tragedia sulla piattaforma centrale, lasciando gli spettatori (il coro) prevalentemente ai lati, rivolti verso il direttore d'orchestra (il che facilita il suo lavoro) ed evitando così che il coro debba lavorare in movimenti di scena, risparmiando così prove sceniche sempre più complesse.
Il fatto che, nonostante questa leggerezza, le scenografie che si muovono al centro (i divisori circolari) producano uno sgradevole rumore di motore elettrico che si sente nei momenti più dolci dell'orchestra (per esempio durante l'introduzione al monologo di Filippo II, ella giammai m'amò), non è una cosa molto positiva per le squadre tecniche del teatro.

L'idea centrale è l'irriducibile lotta tra poteri e individui, tra potere religioso e potere reale, in cui tutti i personaggi sono sballottati e si ritrovano vittime di questo gioco di dominio in cui anche il re è un giocattolo nelle mani dell'inquisitore. Ma a parte alcuni momenti, l'idea è visivamente chiara (l'auto-da-fé) ma tradotta assai male drammaturgicamente.

Cosa succede dunque in questi tableaux vivants che, va detto, sono piuttosto morti ?

- Tra i cancelli e il movimento dei frati tra i costumi neri e l'atmosfera cupa, ci viene offerta l'immagine di tanto Don Carlo, in una sorta di eterno cliché dell'opera, per rassicurare lo spettatore. No, non si tratta di una fantasia da "Regietheater" (sic), ma di un fumetto che non trasmette nemmeno il sentimento dominante dell'epoca : la paura.

- Innanzitutto, non c'è una direzione attoriale, i cantanti sono lasciati a loro stessi, seduti o in piedi, restano fissi, con i loro gesti tradizionali di cantanti, per la maggior parte del tempo rivolti verso il pubblico, in una sorta di versione vicina alla rappresentazione di un oratorio.

- L'introduzione all'aria del velo è una parvenza di danza di corte eseguita dalle dame d'atour e da un gruppo di nani, unica macchia di colore, senza dubbio un'allusione a Velázquez, ma in breve tempo Eboli è sola al centro con le dame sedute ai lati.

- Ci sono alcune idee, come quella espressa dal monumentale altare dell'auto-da-fé, di cui vediamo prima la parte nascosta, come se fosse celata alla folla, dove è chiaro che è il prete che dirige lo stato, che si affanna dietro a sistemare il monumento, e che lascia l'immagine trionfale finale all'Inquisitore in maestà che domina l'altare e quindi il mondo, prima di tutto la coppia reale.

L'inquisitore domina la coppia reale

Ma al di là di questo, il resto rimane superficiale.

- Quando c'è movimento, spesso è ridicolo.
Ridicola è la corsa dei portatori di torce o candele che attraversano il palco durante la scena dell'auto-da-fé. Poiché Lluís Pasqual ha concentrato tutta l'azione nella parte anteriore del palcoscenico per creare un effetto tableau vivo (morto), non c'è spazio per muoversi, quindi si corre tra i cori, seduti o in piedi, da destra a sinistra o da sinistra a destra, con effetto ridicolo tristemente garantito.
Nella stessa scena dell'auto-da-fé, i suppliziati vengono gettati in un buco al centro del palcoscenico e, quando si conclude la scena, da quel luogo fuoriescono alcune fiamme, come un camino il cui combustibile non è il carbone o la legna ma (presumiamo) gli sventurati che vi sono stati gettati all'inizio. Un'idea strana.

Aurot-da-fé : immagine finale col "rogo" al centro

- Il modo in cui Filippo II accusa Elisabetta di essere un'adultera è ridicolo : lei non cade, ma va tranquillamente a sedersi sui banchi dietro, con una sorta di placidità che fa sembrare esagerato il grido di aiuto di Filippo II (soccorso alla regina !).

"Soccorso alla regina", Anna Netrebko (Elisabetta)

- Infine, il ridicolo modo in cui Carlo si aggrappa alla statua di Carlo V alla fine, che letteralmente slitta sotto scivolando verso il basso in un modo degno di un brutto teatro di provincia senza risorse, che fa sorridere, anche se la fine di Don Carlo deve essere un incubo per un regista..

L'unica cosa che spicca sono i magnifici costumi di Franca Squarciapino, che con Ezio Frigerio era la squadra Strehler degli anni d'oro. Ma con Strehler avevano un senso, qui servono solo ad essere belli per la foto.

Vorrei soffermarmi un po' sul possibile concetto di questa produzione.

È comprensibile che Lluís Pasqual abbia voluto trasformare quest'opera in una serie di tableaux e darle una forma vicina a quella di un oratorio. Dato che negli ultimi anni gli oratori sono stati spesso messi in scena con successo da Pier Luigi Pizzi, Peter Sellars, Romeo Castellucci o Calixto Bieito (da ultimo a Lione con l'Elias di Mendelssohn), è ipotizzabile che certe opere la cui grandiosità, monumentalità e organizzazione in tableaux successivi favoriscano un tipo di messa in scena più ieratica e possano essere più adatte a una forma più oratoriale.
Ma allora si potrebbe immaginare di costruire un'opera completamente legata alla storia della pittura e che, attraverso la sua estetica, rimandi a un universo, una Spagna immaginaria del XVI secolo. Non è questo il caso, fatta eccezione per i superbi costumi di Franca Squarciapino, come abbiamo già sottolineato, che non hanno purtroppo altra funzione drammaturgica.
Qui, naturalmente, l'allusione alla pesante e cupa corte spagnola è evidente, ma senza andare davvero aldilà dal punto di vista estetico.
Nell'opera, una forma "oratoriale" deve necessariamente lavorare anche sulle figure e sui ruoli, perché è molto più esigente nella sua fissità, lasciando ai cantanti il compito di completare l'universo desiderato con la sola espressione, con l'abbozzo dei gesti, con gli sguardi attraverso movimenti minimalisti : ciò richiede o un'estrema concentrazione, o la cura da parte del regista di scolpire ogni personaggio nel dettaglio, e quindi un grande sforzo in un'opera già di per sé esigente per la sua straripante interiorità.
In questo tipo di approccio, nulla è più deleterio che lasciare il cantante alle sue abitudini, ai suoi tic e ai suoi istinti, perché la difficoltà del canto fa sì che egli si concentri sul canto e non sugli aspetti scenici e ritorni ai gesti più convenzionali della Koinè operistica.
L'assenza di movimento in quest'opera non è accompagnata da alcuna concentrazione sulle individualità in palcoscenico, e Lluís Pasqual lascia che ciò avvenga senza una sola idea

Questo è il nocciolo di una contraddizione che riguarda gli spettacoli d'opera. Da tutte le parti si sente dire che la messa in scena non deve "disturbare" la musica come se fosse un extra, una sorta di male necessario che si cercherà di contenere perché le bellezze della musica e delle voci possano esprimersi in serenità.
L'opera, fin dalle sue origini, è teatro basato sulla tragedia greca, quindi la messa in scena è ovviamente parte del tutto, senza essere un extra obbligatorio, senza essere la ciliegina sulla grande torta musicale. E soprattutto da Verdi, la cui attenzione al dramma, al libretto e alla psicologia dei personaggi era maniacale.

Immagine d'insieme

Non si tratta di "Regietheater" (uso le virgolette visto l'abuso di questa parola da parte del vulgum pecus del buon gusto) o di "modernità", si tratta semplicemente di pensare a una cosa così semplice : come la messa in scena può aiutare il cantante a dare il meglio di sé nel canto, come una messa in scena, per il significato che dà a una scena, a un dialogo, decuplica la forza scenica e offre alla musica una grandezza sconosciuta. Un regista tradizionale come Jürgen Rose a Monaco è riuscito a mettere in scena una produzione di Don Carlo che non invecchia mai e che trasmette chiaramente il dramma.

È proprio questo che manca qui, sia un sufficiente lavoro scenico per dare al cantante un maggiore potenziale emotivo, sia il supporto della buca (di per sé esemplare, ma un po' troppo "autonoma") per elevare il cantante a un potenziale emotivo superiore che renderebbe mitica la serata. Va bene avere in scena il meglio del canto di oggi, un cast assolutamente eccezionale di cantanti del Don Carlo, uno dei più grandi direttori d'orchestra del mondo dell'opera, e in particolare del mondo verdiano, e l'orchestra più esperta in questo repertorio, ma, con la rara eccezione di alcuni, nessun calore o emozione emana dall'esecuzione, il che è singolare, persino difficile da credere.

 

Il Re è nudo. 

Il Re è il cantante, solo con il canto bello che sia e la sua voce più pura e diafana possibile. E può solo cantare, ad eccezione di quelli che per carisma e intelligenza dei ruoli e delle situazioni sono in grado di riempire un palcoscenico da soli, come nel caso di questa sera con il solo Michele Pertusi.

Anna Netrebko (Elisabetta) consola la contessa d'Aremberg, indietro il coro della Scala

Ma cantare nell'opera, contrariamente a quanto a volte si legge e soprattutto in questo momento, non basta, se non quando si ascoltano i suoni più fluttuanti, eterei e belcantistici di Anna Netrebko, in un'aria in cui era meno attesa che nel famoso tu che le vanità. Cercheremo di spiegare perché.

Michele Pertusi (Filippo II), Jongmin PArk (Il Grande Inquisitore)

Ho un'enorme ammirazione per questi cantanti, e ho visto e sentito Anna Netrebko trascendante perché era veramente diretta in scena (Vienna, Macbeth, Barrie Kosky), ho visto e sentito Francesco Meli lasciare senza fiato nella sua semplice grandezza ed emozione nel ruolo di Carlo a Firenze l'anno scorso, perché era più rilassato – una serata alla Scala è sempre più tesa che altrove – e soprattutto sostenuto da un direttore d'orchestra (Daniele Gatti) che andava a cercare il minimo filo di emozione nella partitura, anche in una produzione non più interessante di questa scaligera.
Ho sentito Garanča impareggiabile Eboli con Warlikowski a Parigi, perché il regista era riuscito brillantemente a tirare fuori da lei ciò che poteva dare in scena per illuminare il personaggio, ma anche con Claus Guth l'anno scorso a Napoli, dove il lavoro con il regista ha prodotto un'Eboli referenziale, anche in un contesto scenico che qualcuno poteva mettere in discussione.

Non si tratta di giudicare la pertinenza di una regia, ma la pertinenza del lavoro sul personaggio che illuminerà questa o quell'aria. Quando i cantanti[1], soprattutto quelli di questo livello e di questa qualità, sono supportati da una produzione, da un vero e proprio lavoro sul personaggio, essi sanno come garantire che il loro canto esprima una quintessenza e vada dritto al cuore dell'emozione. Questo può venire dal regista, può venire anche dal direttore d'orchestra, e naturalmente può venire dalla fiducia e dalla disponibilità del cantante, e quando c'è il tutto, allora diventa mito (Abbado Ronconi in questo teatro, con Freni Carreras così come con Margaret Price e Domingo – che era il cast B…).

Anna Netrebko (Elisabetta), Francesco Meli (Don Carlo)

Questa impressione di solitudine dei cantanti in relazione alle loro arie, alle loro posizioni e ai loro atteggiamenti è ciò che ha dominato l'intera performance per me ; E la pigrizia di Lluís Pasqual nel non affrontare i personaggi e il cuore della trama, nel rimanere al di fuori di tutti i fremiti che la attraversano, lungi dal "proteggere" la musica e dal difenderla da qualsiasi "disturbo", ha contribuito a rendere tutto meno intenso e a non elevare questo Don Carlo alle altezze che avrebbe meritato o che ci si aspettava di raggiungere.
Il suo allestimento inesistente o addirittura ridicolo ha disturbato la musica anche se i requisiti iniziali erano indiscutibili, molto più disturbato di quanto non abbiano fatto Guth l'anno scorso a Napoli o Warlikowski a Parigi.

 

La direzione musicale

Il lavoro di Riccardo Chailly in buca d'orchestra è stato di una precisione maniacale : ha cesellato la partitura come un gioielliere, rivelando equilibri sconosciuti e momenti di serafica bellezza, con un'energia marcata, mai rumorosa o voluminosa, e una volontà di esplorare tutte le potenzialità di questa musica, accentuando gli aspetti più cupi e interiori, come la scena dell'auto-da-fé, dove il volume è rimasto molto controllato.

Non si può negare che, a capo di un'orchestra mozzafiato del Teatro alla Scala, sia stato al top e abbia reso tutte le trasparenze di questa musica, la sua profondità, la sua delicatezza, la sua urgenza. Ha lavorato come un pittore d'altare, curando i colori di ogni quadro, dandogli unità, grandezza e singolarità, lasciando che il colore scuro dell'insieme dominasse, in linea con quanto Lluís Pasqual voleva affermare, ma anche in linea con uno dei Verdi più cupi.

Ma questo è anche il difetto di una superba armatura. Lavorando su ogni singolo pannello con una cura senza precedenti, ha lavorato meno su un respiro complessivo, su un movimento, su quello che prima ho chiamato un fremito che attraversa tutta l'opera, su echi, su reminiscenze ; ha lavorato più sul singolare che sull'unità complessiva. Questa direzione assolutamente superba, che è di per sé esemplare, rimane però rivolta verso l'interno, senza mai esaltare il carattere stesso di quest'opera, che è la sua sensibilità, questo contrasto costantemente affermato tra fragilità e grandezza (tu che le vanità… dice Elisabetta nella sua grande aria finale), che è evidente ovunque e in tutti i personaggi, tranne forse Posa perché è l'unico personaggio eroico dell'opera, e naturalmente l'Inquisitore, chiave di volta di un sistema totalitario che stabilisce l'universo di paura che attraversa tutta la tragedia. Ma da Filippo a Elisabetta, da Carlo a Eboli, c'è sempre la forte presenza della fragilità, il sogno d'amore "piccolo borghese" di Eboli (come ha giustamente detto il regista Peter Konwitschny nella sue messa in scena di Vienna e Barcellona) condannato alla solitudine della cortigiana, che sogna solo la "normalità", Carlo, nato fragile e incapace di qualsiasi cosa che non sia un'azione disordinata, ed Elisabetta, forse la più composta e dignitosa di tutti, che si tiene dentro tutti i suoi rimpianti ma assume coraggiosamente il suo ruolo ; e infine Filippo, solo, pieno di dubbi, alla ricerca di amicizia e umanità perché non è amato. Tutti sono feriti da questa scossa.

Chailly ci mostra la solidità delle armature, ma non penetra completamente la fragilità dei cuori, l'umanità dei personaggi. Pittore di pale d'altare, pittore di affreschi, non ci permette di entrare nell'intimità dei singoli ritratti, nell'intreccio delle anime, nei meandri di un'opera dai molteplici ingressi, di cui esplora solo alcune possibilità.  Eppure questa espressione di sensibilità nell'accompagnamento musicale è essenziale perché il cantante si elevi più in alto (Gesamtkunstwerk ancora e ancora), e qui questa sensibilità è assente, si trova quasi una certa fredda grandezza, la freddezza della reale perfezione dell'esecuzione. Ciò è particolarmente evidente nel quarto atto, dove la musica, il canto e l'emozione non si intrecciano, rendendo questo momento tanto atteso un po' deludente, invece di essere il climax che tutti aspettavano.

Questo è il paradosso della serata : un direttore d'orchestra notevole sotto ogni punto di vista, duttile e colorato, ma che non ci commuove mai, se non in momenti fugaci. Rimane un monumento di bellezza, freddo e triste, senza il vero ardore che ne farebbe emergere le fragilità, le contraddizioni, le complessità e persino le efferatezze. Qui il bello è triste ma non ardente, per citare Baudelaire. Una bellezza pittorica più da Raffaello o Tiziano che da Michelangelo o Tintoretto.

Sul palcoscenico, il Coro della Scala, diretto da Alberto Malazzi e sapientemente disposto ad anfiteatro ai lati del palcoscenico, non deve preoccuparsi troppo della recitazione o della messa in scena, rimanendo così molto concentrato sull'esecuzione musicale, che è assolutamente superba, tanto per il volume imponente quanto per il fraseggio impeccabile, e una scienza delle sfumature che lo rende un vertice irraggiungibile in questo repertorio. Ma questo è purtroppo un oratorio, non una regia teatrale…

 

Le voci

Il cast nel suo complesso è ovviamente ben curato, al di là degli eccezionali protagonisti, come sempre accade alla Scala. A cominciare dai solidi e commoventi fiamminghi, composti da allievi ed ex allievi dell'eccellente Accademia scaligera : Chao Liu, Wonjun Jo
Huanhong Li, Giuseppe De Luca, Xhieldo Hyseni, Neven Crnić e dalla seducente e bella voce del Cielo di Rosalia Cid, il Lerma di Jinxu Xiahou. Solo il Tebaldo di Elisa Verzier, invece, mi è sembrato un po' pallido.

Jongmin Park (Il Grande Inquisitore), e dietro Michele Pertusi (Filippo II)

Il Grande Inquisitore di Jongmin Park, che sostituisce Ain Anger, ha una voce dal timbro abbastanza giovane e attraente, con acuti ben marcati e purtroppo note basse piuttosto limitate, il che rimane un po' problematico per un Inquisitore. Jongmin Park canta anche il frate all'inizio del primo atto, ma non quello alla fine dell'opera (Carlo V), che è cantato da Huanhong Li, membro dell'Accademia della Scala : Essendo anche inquisitore, non può fare il doppio nell'ultima scena, e la Scala ne esce separando i due "frati", che in realtà sono lo stesso personaggio… Nella scena con Filippo II, non è all'altezza delle aspettative, ma accanto a un Pertusi sopraffino, va detto.

Elina Garanča (Eboli)

Abbiamo già accennato brevemente all'Eboli di Elina Garanča, uno dei suoi ruoli preferiti. Il ruolo è famoso soprattutto per O don Fatale, lo spettacolare monologo con i suoi potenti acuti che travolge sempre il pubblico. Ma la parte più difficile del ruolo era che deve combinare questo potente stile verdiano (che avrebbe sviluppato poco più tardi nel ruolo di Amneris) con la canzone del velo, la "Saracena", in uno stile completamente diverso, molto belcantistico, con le sue cadenze e variazioni, quasi destinato a un altro tipo di voce. Per di più, è la sua aria d'ingresso, importante perché preannuncia la storia che sta per essere raccontata : quindi è tanto più decisiva perché, soprattutto nella versione in quattro atti, è l'unico tocco di "fantasia", l'unico sorriso dell'opera. Inoltre, è qui che il regista e la costumista Franca Squarciapino aggiungono qualche tocco di colore – che non può essere casuale.

"O don fatale" Elina Garanča (Eboli)

Garanča, che ha iniziato con Mozart (ricordiamo la sua Dorabella con Chéreau ad Aix) e con il bel canto (la sua Giovanna Seymour in Anna Bolena a Vienna nel 2011 al fianco di una divina Netrebko), ha quella duttilità nella voce che le permette variazioni e cadenze, ma con la frequentazione di un repertorio più pesante e rigido, il soffio è un pô’ più corto, le riprese di respiro più marcate. La bravura della cantante permette ovviamente che tutto questo passi senza intoppi, ma ci sono alcuni piccoli limiti, soprattutto perché è sola sul palco in questa torre di alabastro che concentra lo sguardo sulla cantante e implica che ci si concentri esclusivamente sul canto. Di conseguenza, le piccole imperfezioni che in passato erano assenti diventano un po' più evidenti. Niente di preoccupante, certo, perché rimane la scienza del colore, la facilità nel cambiare registro, il fraseggio (molto meglio quando canta in italiano che in francese) e l'attenzione al peso delle parole e del testo, ma notiamo qualche segno di stanchezza in uno stile di canto che lascia la voce totalmente scoperta.
Poi, all'inizio del secondo atto (duetto con Don Carlo, poi terzetto con Posa nella scena del giardino "Trema per te falso figliolo"), la voce ritrova la sua espressività, i suoi toni assertivi, la sua incarnazione, e naturalmente nel terzo atto, dove Verdi e i librettisti mostrano sottilmente un'altra Eboli, diventata più umana, l'Eboli del rimorso e del fallimento, di colei che ha perso tutto e che improvvisamente confessa tutte le sue colpe. E sa dare a questi momenti accenti piuttosto strazianti, esplodendo in un sontuoso don fatale in cui si aggiudica un trionfo, con un'incredibile omogeneità vocale che permette agli acuti di svettare in modo fluido e spettacolare. Resta l'Eboli del momento, da ascoltare ancora e ancora.

Anna Netrebko (Elisabetta)

La voce di Anna Netrebko rimane incredibilmente sana, carnosa, con una tavolozza di colori infinitamente ricca, che lei ha deliberatamente scurito, gonfiando i toni bassi in modo inaspettato, allargando i centri, con incredibile equilibrio. La sua salute vocale, che rimane assicurata grazie a un lavoro attento e meticoloso, è stupefacente. La Netrebko è una lavoratrice indefessa che non si permette mai di trascurare nessuna performance. Il suo Tu che le vanità, particolarmente atteso, ha mostrato una tavolozza di sfumature e una sicurezza tecnica (con mezze voci da sogno) senza alcun difetto. Ma nonostante tutto, quest’aria monumentale e referenziale non riesce a commuovere l'ascoltatore ; la ammiriamo, tanto di cappello, ma non ci sono lacrime.
In compenso, è in un altro momento inaspettato che ho ritrovato la grande Netrebko, nell'aria d'ingresso, quando Elisabetta si rivolge alla contessa di Aremberg esiliata da Filippo II Non pianger, mia compagna, dove si legge la commozione, ma anche l'orgoglio ferito, e dove si sente il canto della giovane principessa di Fontainebleau. È un'aria in cui sviluppa tutta la sua scienza belcantistica, ancora vivace, con quei suoni fluttuanti, quel colore nostalgico, e un timbro di inedita giovinezza. Poi arriva l'emozione, forte, sentita. E credo che sia la situazione scenica a stimolarla : non si tratta del monologo in cui, sola sul palco e non diretta da un regista "non disturbatore", è abbandonata a se stessa, senza una reale capacità di trasmettere emozioni attraverso il corpo, l'atteggiamento, i gesti o gli sguardi. Al contrario, in quest'aria indirizzata alla Contessa di Aremberg, si trova nella situazione giusta, grazie alla forza stessa del libretto, e perché si sta rivolgendo a qualcuno ; sa trovare il tono giusto, lo sguardo giusto, il gesto giusto. È questo che fa la differenza, ed è profondamente commovente perché qui il canto è pienamente abitato.

Francesco Meli (Don Carlo)

Francesco Meli fa sempre parlare di sé. È sorprendente sentire quanto quest’artista abbia sempre diviso i pareri, e non riesco a capire perché. È vero che a volte non ha il carisma che hanno la maggior parte dei grandi tenori della sua categoria ; è anche vero che non è sempre coerente e che le sue scelte di repertorio, in particolare le sue incursioni nel repertorio verista, sono, per me, inutili e dannose per la voce. Tuttavia, preferisco Meli a tanti tenori che sono voci poco interessanti el ruolo di Don Carlo.
Innanzitutto, ha una qualità eccezionale che a tanti manca : la chiarezza del fraseggio e dell'emissione, con un timbro luminoso che ricorda Carlo Bergonzi. E nel Don Carlo queste sono qualità decisive. È un tenore di formazione belcantista, quindi ha un vero e proprio stile nei suoi geni, che contrasta con altri tenori nel ruolo che magari hanno gli acuti e il famoso Si di "Sarò il tuo salvator popol fiammingo io sol" che Meli riesce molto raramente (ricordiamo che Pavarotti lo mancò clamorosamente alla prima di Don Carlo del 7 dicembre 1992, scatenando un'ondata di fischi che solo la Scala sa procurare) e che anche stavolta viene sbagliato.
Il problema di Meli è una sorta di desiderio morboso e distruttivo di aprire la voce e di spingerla troppo in là, quando, con la sua tecnica, potrebbe difendere senza sforzo un Don Carlo emozionante. Allo stesso tempo, e come risultato di un effetto fisico sbilanciato, aprendosi troppo negozia male i suoi acuti spesso in difficoltà. Ma resta il fatto che negli ensemble, e in molti momenti dell'opera, il timbro di questa voce ancora giovane (è nato nel 1980) dà un colore singolare all'esecuzione. Pur disponendo di uno strumento notevole, ci si chiede perché sia preso dalla sindrome del tenore italiano che canta di tutto quando potrebbe, limitandosi a uno stile e a un repertorio più ristretti, essere sicuramente una delle grandissime voci del nostro tempo. Speriamo che riesca a tenere sotto controllo le sue scelte, altrimenti la sua voce e il suo timbro rischiano di deteriorarsi molto rapidamente.

Luca Salsi (Posa)

Di fronte a lui, Luca Salsi nei panni di Posa mostra una salute vocale insolente, controllando il volume e lo stile che spesso sono in altri ruoli un po' carenti. Non sono tanto gli acuti a fare un grande Posa, ma una linea, uno stile, un fraseggio, un timbro e un'eleganza suprema che conferiscono al personaggio la sua grande nobiltà. È un eroe con una voce non eroica.
Anche se notiamo gli sforzi per controllare il volume, per imporre una vera linea, a Luca Salsi mancano la delicatezza e l'interiorità che fanno il grande Posa. Ludovic Tézier l'anno scorso a Napoli è stato una vera lezione di canto incarnato.
Ma resta il fatto che la sua interpretazione di Posa è più attenta alle parole, piuttosto ben impostata, ma senza imporsi sul palcoscenico, ancora una volta a causa di un allestimento che lascia i cantanti al loro destino.

Michele Pertusi (Filippo II)

Infine, Filippo II, su cui riposa in gran parte l'opera, è stato affidato a Michele Pertusi al posto di René Pape che ha rinunciato. Michele Pertusi è ormai un veterano del palcoscenico italiano (ha 58 anni), ma sappiamo che per un basso l'età è un problema minore che per un tenore, e Pertusi ha ancora tempo per cantare (bene).
Il canto italiano è stato dichiarato dall'UNESCO patrimonio immateriale dell'umanità, e il perché lo si capisce ascoltando Michele Pertusi, che sia qui alla Scala sia l'anno scorso a Napoli ha trionfato forse più di tutti.
Michele Pertusi possiede totalmente ciò che manca alla maggior parte dei protagonisti della serata : il potere dell'incarnazione, quello che colloca il personaggio sulla scena ancor prima che apra bocca. E quando appare, sa come concentrare l'attenzione su di sé. Non ha la voce immensa di Nicolai Ghiaurov, che aveva quell'organo profondo e ampio dal basso all'alto, imponente nella sua grandezza e nel suo dolore, e che rimane insostituibile in questo ruolo. Ma a dire il vero, mi chiedo chi oggi, a parte Pertusi, canti Filippo II (o Philippe II, visto che canta anche l'originale francese) con questa intensità, questa interiorità, questo senso della parola e del colore, questa scienza degli accenti che in ogni momento sa tradurre il testo e il sottotesto, sa trasmettere autorità e dolore, sa mostrare la corazza e ciò che sta dietro. Il contrasto tra l'algido sovrano che scaccia la contessa di Aremberg, poi l'uomo straziato e solitario che chiede a Posa di essergli amico, è impressionante a pochi minuti di distanza l'uno dall'altro, e la voce segna sia l'autorità che la debolezza, la corazza e il fremito. Suo ella giammai m'amo, un monumento all'arte lirica, è impressionante per grandezza e commozione, con un fraseggio che è un'opera d'arte in sé. Questi accenti di disperazione si ripetono nella scena successiva con l'Inquisitore, dove ancora una volta riempie il palco praticamente da solo. Non importa se le note basse non siano queste o quelle, se la voce è invecchiata o meno (cosa che si legge qua e là), questo è proprio l'esempio di un ruolo completamente SUO che si distingue dal resto come modello di incarnazione, l'unico della serata a farci intravedere la trascendenza lirica.

"Ella giammai m'amò" Michele Pertusi (Filippo II)

Questa grande serata d'opera avrebbe potuto essere mitica grazie a una regia che si possa muovere con la musica, ma che invece ha minato l'insieme, nonostante l'impressionante qualità musicale e un canto superbo. Come sempre, si dimentica il treppiede dell'opera : canto, direzione d'orchestra e regia, la cui unità rende le serate storiche. E questa regia congelata finisce per alterare l'equilibrio musicale, perché la musica e il canto non sono tutto nell'opera, ancora una volta, ancora e ancora.

Il Don Carlo è una delle opere più laceranti di Verdi, con un libretto in lingua originale così bello e potente che Verdi non andò mai oltre una traduzione in italiano. Vorremmo che un giorno la Scala osasse finalmente affrontare la versione originale, utilizzando come base la versione diretta nel 1977 da Abbado (che avrebbe voluto dirigere in francese), anche senza il balletto[2]. Questa assenza resta un inspiegabile buco nella sua storia, tanto più ora che è possibile un cast in francese, con nomi di grande rilievo.
La versione in quattro atti, creata alla Scala 17 anni dopo la prima parigina, è decisamente insoddisfacente sia per il cuore che per la mente, senza l'atto di Fontainebleau a dare logica e grandezza ai destini dei personaggi, tanto più che questa produzione non dà nulla di ciò che Verdi credeva quando propose questa versione, né concisionenerbo. Ancora una volta, Don Carlo è una fonte di frustrazione.

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[1] Per quanto riguarda Elina Garanča, c'è un abisso tra la fenomenale Kundry che ha cantato a Vienna diretta da Kirill Serebrennikov e la Kundry ben cantata a Bayreuth (non) diretta da Jay Scheib. L'effetto della messa in scena sul canto…

[2] Dopo tutto, il balletto del Faust di Gounod ("la notte di Walpurgis ") non viene quasi mai più rappresentato con l’opera, benché sia particolarmente riuscito.

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