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A Napoli, Vassily Barkhatov ha voluto mettere in scena uno spettacolo di grande effetto, con la scenografia e lo sviluppo del coro a riempire lo spazio, anche se, per la disperazione degli habitué, la Cina era assente.
Quale Cina, tra l'altro ? Quella di Gozzi, che la conosceva solo per sentito dire e per gli oggetti importati a Venezia che riempivano le dimore patrizie, o quella delle nostre fantasie alimentate dai romanzi di Van Gulik e dalle foto dell'imperatrice Tseu-Hi (o Cixi), o la presunta barbarie di una Cina che tra il 1899 e il 1901 aveva terrorizzato l'Occidente coloniale che occupava (e sfruttava) il paese durante la rivolta dei Boxer, conclusasi con la vittoria delle nazioni "alleate" (Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Italia, Austria-Ungheria e Germania).
In ogni caso, la Cina di Turandot è una Cina di rappresentazione mentale, uno spazio immaginario che non ha nulla a che fare con la realtà, una Cina di favole, alimentata dalle nostre stesse proiezioni e tradizioni di rappresentazione, una Cina di alterità, quasi un'alterità assoluta, come questa storia sembra confermare.
Se ci riferiamo a Gozzi, la prima del 1762 di questa "favola teatrale tragi-comica in cinque atti" era prevista per il Teatro San Samuele, dalle dimensioni ridotte, in un ambiente adatto allo stile della Commedia dell'Arte che Gozzi voleva contrapporre a quello moderno del suo contemporaneo Goldoni.
Tra i personaggi della commedia ci sono Truffaldino, Pantalone, Tartaglia e Brighella, tipici della tradizione che dava al racconto un sapore leggero, popolare e un po' sarcastico, mentre Calaf nel pezzo è una sorta di donnaiolo.
La commedia di Gozzi ebbe grande popolarità nell'Ottocento, a partire da Schiller, che la tradusse e la fece rappresentare all'Hoftheater di Weimar, dove assunse un tono romantico più serio, abbandonando il sarcasmo e dando più peso a Calaf, che divenne più amoroso più romantico e meno scanzonato.
All'inizio del XX secolo, poco prima della Prima Guerra Mondiale, Max Reinhardt mise in scena la commedia di Gozzi a Berlino nel 1911 (per la quale Puccini chiese l'invio di fotografie) con la musica della Turandot-Suite di Busoni, poi a Londra nel 1913 con una riduzione dell'orchestrazione (non autorizzata) di uno degli allievi di Busoni. Per quanto riguarda lo stesso Busoni, nel 1917 compose la sua Turandot in due atti basata sulla sua Turandot-Suite, che fu eseguita per la prima volta a Zurigo.
La fortuna di questa storia (tramandata dal francese François Pétis de la Croix in una raccolta di storie o presunte storie persiane intitolata "Les Mille et un Jours" (I mille e un giorno) (1710–1712) continuò, soprattutto in Italia e in Germania, per tutto il XIX secolo.
All'inizio del XX secolo, oltre alla rivolta dei Boxer tra il 1899 e il 1901, la storia di Turandot sembrava illustrare questa "Legge del delitto" citata dall’autore francese Octave Mirbeau nel suo romanzo "Le jardin des supplices" (il giardino dei supplizi), che denuncia una sorta di legge universale che governa tutte le società, di qualsiasi natura esse siano : sono tutte basate sull'omicidio. Il romanzo, pubblicato nel 1899, si riferisce alla Cina, e in particolare alla colonia penale di Canton, ma riguarda tutte le società umane affascinate dal sangue e dalla tortura. Il massacro universale della Prima Guerra Mondiale avrebbe lasciato un segno indelebile anche alle soglie degli anni Venti.
Se la Turandot era un'opera che ispirava i compositori, all'inizio del XX secolo fioriva anche l'orientalismo : Debussy era già affascinato dai nuovi suoni che sentiva provenire dall'Asia, dai nuovi strumenti (gamelan, ecc.) e dal modo in cui venivano utilizzati. ) e dall'uso (come Puccini) della scala pentatonica, ma va citato anche Bartok, il cui balletto Mandarino Meraviglioso ispirato a una storia cinese, segue lo stesso iter cronologico di Turandot (completato nel 1924 e presentato per la prima volta nel 1926). C'è anche Die Frau ohne Schatten (La Donna senz’ombra) creato a Vienna nel 1919, in cui il nome di uno dei personaggi (Barak) è preso in prestito dalla commedia di Gozzi e in cui un altro dei personaggi, la schiava di Turandot Adelma, è la figlia del re Cheicobad (che in Die Frau ohne Schatten è il padre dell'imperatrice – il dio Keikobad).
Puccini si trovava a Vienna per la prima de Il Trittico il 20 ottobre 1920 ed ebbe l'opportunità di vedere Die Frau ohne Schatten il 21 ottobre, un anno dopo la prima. Puccini era molto curioso di tutta la musica del suo tempo, anche se l'opera di Strauss non sembra essergli piaciuta. Infine, va ricordata l'operetta Die gelbe Jacke (La giacca gialla) di Lehár, presentata a Vienna nel 1923, che Puccini vide in compagnia di Lehár (era la prima versione di quello che sarebbe diventato Il Paese del sorriso nel 1929). Si trattava di fonti di ispirazione comuni per i racconti orientalisti che circolavano.
Ansioso di concentrare il libretto proposto da Simoni e Adami e di trarre da Gozzi delle linee semplici e senza fronzoli, pensò addirittura di ridurre il dramma a due atti (la commedia di Gozzi ne ha cinque), ma la sua preoccupazione principale era quella di proporre una figura umanizzata, in un certo senso umanizzata attraverso l'amore. "Insomma, io ritengo che Turandot sia il pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni del Gozzi. In definitiva : una Turandot attraverso il cervello moderno...".
Questo è ciò che Puccini scrisse ad Adami.
E voleva un'opera che non dovesse nulla a ciò che era stato fatto prima, un'opera completamente nuova, con un nuovo personaggio, Liù, che prendesse il posto della già citata Adelma.
Buio, poi scena ultima, grandiosa, bianca e rosa : Amore !
È l'ultima frase del riassunto dello schema del libretto (in due atti) da lui voluto, che si conclude molto umanamente con un'esplosione d'amore, in una versione "bianca e rosa" del tutto simile al finale di un musical per l'immaginazione che presuppone, finale che Barkhatov a Napoli e Guth a Vienna, in modo completamente diverso, accettano come "lieto fine", riservandosi la parte riscritta da Alfano, meno elaborata di quella scritta da Puccini, con soluzioni apparentemente "facili" che corrispondono ad un finale da "commedia musicale" che ci sembra di ascoltare attraverso questa musica più piatta e rumorosa, più ricca di lustrini che di diamanti, ma il cui senso finale sembra corrispondere al desiderio di Puccini. Da entrambe le parti, il racconto si conclude con un'esplosione d'amore, e da entrambe le parti inizia con una storia di coppia.
La produzione viennese di Turandot inizia nel silenzio interrotto dal ticchettio di un orologio, che può essere vissuto come l'espressione del tempo che avanza inesorabilmente, ma anche del tempo che resta, come il ticchettio dei giochi radiofonici o televisivi che fissano una scadenza e segnano l'avvicinarsi della fine. Come se annunciasse una risoluzione, prima ancora che la storia sia iniziata.
Così tutto inizia con questo silenzio scandito dal ticchettio dell'orologio, seguito dai passi cadenzati del coro che prende posto sul proscenio, rivolto verso il pubblico (e il direttore d'orchestra, per comodità).
Mentre il coro di Barkhatov è parte dell'azione, circondando i protagonisti, il coro di Guth è fuori, in uno spazio ristretto del proscenio, come un palcoscenico sotto il palcoscenico, sotto un piano rialzato, senza prendere parte a un'azione di cui rimane spettatore e da cui sarà sempre tenuto a distanza. Infatti, sarà fuori, invisibile, o solo di passaggio (nel caso del coro dei bambini). Quella raccontata da Guth è una storia intima, che inizia con la visione di alte pareti bianche da cui si intravede un'ombra (Video di Rocafilm-Roland Horvath) che si muove vagamente mentre un uomo esce da una botola e incontra solo pareti e porte chiuse, ma attraverso la parete di fondo l'ombra vagamente spettrale assume la forma abbozzata e fantasmatica della donna che diventerà ossessiva e la cui immagine sfocata tende una mano, L'uomo risponde tendendo anch'egli la mano verso di lei.
Atto I
Questo prologo, senza musica, prepara la scena di una storia che non cambierà più : un'ombra protetta da un muro tende una mano e un uomo risponde, qualcosa è nato.
E subito la porta si apre, e timidamente l'uomo fa capolino ed entra, salta nel mondo dietro il muro, proprio come Alice salta nel Paese delle Meraviglie, salta nella terra del suo sogno.
Inizia la musica.
Il muro sollevandosi rivela un nuovo spazio, una scatola bianca racchiusa da alte pareti n(scene di Etienne Pluss), con posti a sedere nel primo atto come in una sorta di sala d'attesa, una porta gigantesca sul fondo e altre più piccole ai lati, e una scala corrispondente con un fondo misterioso. Il tutto è monocolore, mentre la scala per gli inferi è ricoperta da un mondo di fiori, come uno spazio esterno colorato (che riusciamo a malapena a distinguere), mentre l'area di gioco è uniforme e asettica.
Ritroviamo l'uomo del prologo muto, questa volta davanti a una porta monumentale, e su una delle poltrone un altro personaggio, rigido, in attesa e assente.
E poi tutto inizia a muoversi, con l'uomo (abbiamo capito che si tratta di Calaf) che si muove senza mai comunicare, come se venissero mostrati due mondi paralleli che non riescono a compenetrarsi.
Da una parte un uomo che guarda perplesso questi movimenti, dall'altra persone vestite (costumi di Ursula Kudrna) tutte in modo simile (abiti verde pallido, asole rosa, parrucche rosse uniformi e occhiali) un mondo asessuato fatto di uomini, donne e bambini disposti per taglia e difficilmente distinguibili. I movimenti avvengono senza tenere conto di Calaf, se non per evitare che si muova verso gli altri.
L'ingresso di Timur, un uomo cieco, che entra da una delle porte laterali disegnate come le ante metalliche di un guardaroba, come se un meccanismo invisibile lo facesse apparire sulla scena "per recitare la sua parte", come se un meccanismo invisibile venisse messo in atto per interferire con Calaf.
Questo balletto quasi meccanico, regolato da una vera e propria coreografia (di Sommer Ulrickson) (i personaggi che si muovono sono infatti dei ballerini), mostra che i movimenti, i costumi, l'organizzazione, tutto ciò che riguarda lo svolgimento del primo atto rivela un sistema meccanico e rituale, organizzato intorno alla morte, o meglio, per essere precisi, intorno alla decapitazione – una sorta di mondo di automi viventi… che si offre come spettacolo a Calaf. Un sistema il cui unico scopo sembra non essere quello di decapitare, ma di raccogliere teste (ben calibrate, visto il modo in cui viene misurata quella del Principe di Persia) in scatole etichettate e archiviate, come in un museo di storia naturale. Queste scatole sono conservate dietro le porte degli armadi laterali, ma anche i membri del coro in proscenio sono seduti sopra. È un sistema il cui tempo è scandito solo dai rituali di esecuzione, scandito dall'orologio il cui ticchettio si trova dietro la buca del suggeritore di cui abbiamo parlato prima. In questo mondo, il tempo è scandito dalla lama della spada e dalle lancette dell'orologio : la meccanica del destino da aggiungere a un'antologia che ricorda Il Giardino dei Supplizi di Mirbeau, già citato.
Il sistema mostrato (e smontato) da Claus Guth è forse lo spazio mentale di Turandot, mediato da un racconto e quindi permette tutta la licenziosità del racconto, e infine proprio perché è un racconto delle fate e da quando c'è stato Bruno Bettelheim permette un tuffo nella psicoanalisi, tanto più che l'ambientazione (la porta d'ingresso in fondo) ricorda la casa di Sigmund Freud alla Berggasse 19 di Vienna. Guth, il cui interesse per le complessità della psiche è ben noto, ha ovviamente intenzione di giocare con tutti questi livelli.
Così gli elementi che entrano in scena nel primo atto sembrano essere un balletto, una pantomima (tanto in voga nel Settecento, all'epoca della commedia di Gozzi) il cui scopo sarebbe quello di dissuadere Calaf dall'avvicinarsi a figure quasi apotropaiche, la figura del padre, ma anche quella di Liù che non è un essere di carne, Ma anche lei è una figura moltiplicata, come lo sono le figure degli officianti in parrucca, una figura seguita da quattro ombre che la seguono, come a diluire la sua umanità e a trasformarla in un'astrazione che viene anch'essa gettata per dissuadere Calaf dall'andare oltre.
La figura del Principe di Persia è l'altro uomo seduto in attesa dell'esecuzione, una figura di fallimento e allo stesso tempo, per Calaf, una figura di solidarietà, gli unici "umani" in questa stanza dove tutti gli altri (e persino il padre che emerge da un'anta laterale dell'armadio, trascinato dalle figure rosse, proprio come Liù e le sue ombre proiettate) sembrano astrazioni gettate sul suo cammino, che gli viene impedito di avvicinare o toccare.
Naturalmente, tutto questo ha solo un rapporto particolarmente elastico con il reale lontano, così come le fantasie e le rappresentazioni mentali, le fiabe e la Cina che si vede in Gozzi e Puccini. Quello che Guth ci dice è la relatività del contesto quando la posta in gioco è altrove.
Abbiamo visto Calaf arrivare in uno spazio in cui un'ombra è apparsa per attrarlo, abbiamo visto Calaf rispondere a questa attrazione, e arrivare in un mondo fatto di mura successive, come se una volta fosse chiaro (ed è chiaro dal prologo muto) che questa storia non è la storia di Calaf verso Turandot, ma una storia a due, una storia di coppia, era necessario, come in Flauto magico, attraversare prove per conquistare il suo paradiso, come Lancillotto, attraversare prove per conquistare la sua bella : Turandot come opera di salvataggio, con la differenza che la giovane donna non è stata rinchiusa in una prigione, ma si è chiusa dentro per proteggersi dal proprio desiderio, dalle proprie paure, e dall'unico uomo che potrà conquistarla, cioè amarla.
Così, in questo atto incentrato su Calaf, si susseguono immagini vertiginose volte a farlo desistere, come i servi che portano le teste mozzate fuori dalle loro scatole d'archivio, come il modo in cui viene tagliata una zucca per controllare che la lama della sciabola sia affilata quando i servi del boia cantano
Con gli uncini e coi coltelli,
noi siamo pronti a ricamar
le vostre pelli !
o lo strano valzer di una Turandot spettrale che esce dal suo spazio (la gigantesca porta) per iniziare una strana danza con un uomo decapitato che sta fumando una sigaretta quando il coro inizia Perché tarda la luna, con quella distanza ovviamente ironica che non manca nel lavoro di Guth, Lo vediamo nelle reazioni sorprese e un po' impaurite di Calaf, così come lo vediamo quando i servi sorreggono una testa mozzata e marciano al sorgere della luna, segnale della prossima tortura. Le espressioni facciali di Calaf, a volte affascinate, a volte sorprese, ma non necessariamente o sempre spaventate, mentre dal basso emerge il coro dei bambini, vestiti come apprendisti servitori (stessa parrucca, ma con pantaloncini e zainetti come i bambini, l'ultimo dei quali regge un aeroplano di carta), in una strana, magnetica processione che canta
Là, sui monti dell'est,
la cicogna cantò.
Ma l'aprile non rifiorì
Il mondo si ripete e si riproduce, nella speranza della primavera.
Inizia quindi la seconda parte dell'atto, con il sacrificio del principe di Persia. Dapprima i ministri si dirigono verso Calaf seduto accanto a lui come in una sala d'attesa, ma viene mostrato loro l'errore e trascinano il Principe di Persia oltre la porta, dopo avergli fatto firmare una dichiarazione (sempre questa idea di sistema e di amministrazione, che ricorda ovviamente l'amministrazione della morte che ogni visitatore di un campo di concentramento scopre con sorpresa e orrore).
Il rituale della morte è sottolineato dall'apparizione dell'ombra di Turandot sul muro, che tende la mano come all'inizio, ma con il sangue che cola, e poi il corpo e il volto della principessa appaiono più chiaramente per la prima volta, decidendo Calaf,
La vita, padre è qui !
Turandot ! Turandot ! Turandot !
mentre i ministri cercano di dissuaderlo e il principe di Persia viene giustiziato e la sua testa presentata.
Nel finale dell'atto, dove tutti cercano di dissuadere Calaf, sono i fantasmi a riapparire, teste decapitate e uomini che evocano il loro amore per lei oltre la morte, spingendo Calaf a gridare : No ! No ! Io solo, l'amo !, che è il motore del suo appello, nonostante il balletto degli altri, ministri, Timur, Liù, che cercano di distrarlo. Mentre l'ombra è stabilmente sul muro e il profumo, che avvolge gli esseri e afferma una presenza impalpabile e al tempo stesso palpabile, ha invaso lo spazio.
Per come è costruita la scena, l'impressione è duplice : da un lato è la tortura del Principe di Persia a scatenare finalmente la volontà di Calaf, dall'altro è lui il solo portatore dell'amore che trascenderà le prove e la morte. È la visione della morte a mostrargli il cammino verso la vita, un cammino discretamente tracciato sul pavimento sotto la porta monumentale, lo stesso tappeto che riveste lo scalone centrale, il tappeto fiorito della vita…
Così questo primo atto, incentrato su Calaf, è il prodotto di una visione nata da un'ombra intravista, come in una fiaba (così sembra iniziare) che si trasforma in uno spazio da incubo per la visione che offre a Calaf del meccanismo di morte del mondo costruito da Turandot, con i passi laterali, gli spostamenti che sono quelli del sogno, assurdi e a volte comici, come quelle teste a cui non possiamo credere (siamo a teatro) ma che rimandano ad altre terribili realtà che non erano né nei sogni né nelle fiabe, con la principessa Turandot, frutto di un desiderio immaginario o folle, che diventa tanto più fragile quanto più si protegge, lasciando finalmente vedere il suo corpo e non più la sua ombra attraverso uno schermo opaco, come se fosse lei a creare le condizioni per la trappola in cui presto lei stessa cadrà, o come se il desiderio di Calaf non materializzasse più la visione della morte che travolge questo primo atto, ma gli lasciasse intravedere lo spazio di vita offertogli dall'amore.
Atto II
Se il primo atto è quello di Calaf, il secondo è quello di Turandot, costruito intorno a due scene, quella dei ministri Ping, Pang, Pong e quella degli indovinelli, che costituisce tutto il resto dell'atto. La prima scena è uno dei momenti più strampalati dell'opera, con i personaggi della commedia dell'arte presi dalla meccanica della morte e dalla nostalgia di paradisi personali, mentre la seconda scena (degli indovinelli) è la grande scena spettacolare, il "momento" che deve far precipitare tutto, il momento cinematografico, quindi il punto nevralgico.
Mentre la prima scena non è trattata diversamente da altre visioni, pur con le specificità della visione di Guth, la seconda, quella degli indovinelli, è completamente diversa dal solito, poiché dalla grande scena di folla a cui siamo abituati, passiamo alla "tana" di Turandot, nella sua camera da letto simboleggiata dal letto, ai piedi del quale giacciono quattro "bambole" che l'accompagnano, una sorta di camera da letto di una bambina cresciuta dove si accinge a fare il suo gioco preferito, quello degli indovinelli, sotto l'occhio rimproverante del padre.
La prima scena, come abbiamo detto, presenta i ministri Ping, Pang e Pong nei loro ruoli abituali, in una sorta di pantomima che non si discosta dagli schemi consueti di questa scena, movimenti coordinati, insieme o alternati, giochi coreografici che potremmo vedere in regie di Zeffirelli o di altri, L'unica differenza è che sono vestiti con la stessa uniforme generale, un completo doppio petto verde pallido con un'asola rosa, una parrucca rossa e occhiali che li fanno sembrare tutti funzionari pubblici di un'amichevole Corea del Nord. I tre ministri gestiscono la faticosa e terribile vita quotidiana di amministratori della morte, mentre sistemano le scatole contenenti le teste mozzate.
Poi le cose cambiano quando Ping evoca il suo "piccolo angolo di paradiso", lontano dall'amministrazione kafkiana che devono sopportare e far funzionare, con Ho una casa nell'Honan seguito da Pong Ho foreste, presso Tsiang, e Pang Ho un giardino presso Kiù. Un momento di sospensione (musicalmente molto marcato) che Claus Guth sottolinea facendo sì che i tre "automi", le tre marionette, diventino tre semplici esseri umani che, nell'evocare i loro piccoli angoli di paradiso, si spogliano dei loro costumi, delle loro parrucche e dei loro occhiali per diventare ordinari, di quella comune umanità di cui sono privati dalla macchina ideata da Turandot. Ma è solo un attimo fuggente, poiché dopo aver evocato una lista di decapitati
Uccidi… e estingui…
Ammazza…
Addio, amore !
Addio, razza !
La realtà li raggiunge quando sentono l'inizio del cerimoniale che li richiama all'ordine e al servizio
Andiamo a goderci
l'ennesimo supplizio !
La scena successiva, la seconda e ultima dell'atto, è quella degli indovinelli. Conosciamo il valore degli indovinelli nella mitologia, in particolare da Edipo, che risponde all'indovinello della Sfinge, unico esempio nella mitologia greca di eroe che si libera di un mostro con la forza della mente, una falsa vittoria come sappiamo del resto, poiché Edipo sposa Giocasta, la regina, come liberatore di Tebe, ma si scopre che Giocasta è sua madre, e qui arriviamo sulle sponde di Freud, tanto più che l'ambientazione ricorda la porta dell'appartamento di Freud a Vienna, dove vediamo un complesso sistema di sicurezza a forma di griglia.
L'enigma nasconde (o prelude a) un labirinto psichico. In questo caso, la Sfinge è Turandot, che fa precipitare il suo popolo in questa legge permanente dell'omicidio e fa precipitare lo Stato in una sorta di sistema totalitario. Decifrando gli enigmi, Calaf è in un certo senso lui stesso un liberatore, come Edipo.
La scenografia chiarisce questo aspetto quando la parete divisoria si alza. Una porta monumentale dotata di un complesso sistema di sicurezza, che ci fa capire essere l'altro lato del set del primo atto, che era solo l'anticamera della camera da letto di Turandot, una camera da letto dove tutto accade.
La prima immagine dice tutto : Turandot è a letto, accovacciata, pensierosa, imbronciata, con le bambole addormentate ai suoi piedi e una cameriera accanto a lei che strofina il pavimento per rimuovere una macchia di sangue.
Tutto accade : protetta dalla sua porta e dal suo letto, Turandot detta gli indovinelli dal suo letto e fa decapitare davanti a sé i principi che hanno fallito
È una scena ovviamente altamente simbolica : nel celebre dittico Io ti amo io ti uccido, Turandot ha scelto “Io ti uccido”, per proteggersi da "Io ti amo".
Con i suoi lunghi capelli bianchi, mi ha ricordato la Loreley, la fanciulla che attira i marinai ammaliati dal suo canto e che si schiantano contro gli scogli. Lei è l'ideale, il sogno, l'ammaliamento e la trappola.
Si definisce bianca, ed è bianca come la neve, come il ghiaccio, come la purezza intoccabile di un paesaggio innevato. Ma nella sua grande stanza, circondata dalle sue quattro bambole rosa, è anche completamente isolata, in una solitudine strutturale, forse scelta, quasi un'astrazione
La scena degli indovinelli è quindi accuratamente ritualizzata da Guth. Nessun popolo, respinto all'esterno, che commenta senza vedere, un popolo quasi astratto. Il coro non si rivede fino alla fine dell'opera, che è concepita come un dramma a porte chiuse. Si vedono alcuni servitori, i ministri, Calaf e per un attimo il coro dei bambini, che entra nella sala per poi uscirne. Allo stesso tempo, la scena dell'indovinello assume un significato diverso. Non è più una scena "politica", ma una scena familiare, tra padre, figlia e pretendente, mentre i ministri sono gli organizzatori della verifica.
Turandot è innanzitutto una bambina imbronciata nel letto, che si protegge con il lenzuolo, protetta dalle sue bambole, figure dell'infanzia (sulla parete, prima che si alzi per rivelare la camera da letto, è proiettata la figura di una bambina che tiene in braccio una bambola), come se mostrando questa eterna fanciullezza, Turandot rafforzasse la sua protezione : un bambino è intoccabile per essenza.
Altoum è identificato come il re dalla fascia rossa decorativa che attraversa il suo costume, e la sua età avanzata dal fatto che prende subito la medicina in un bicchiere (un viatico) e avrà sempre un fazzoletto in mano in cui sputa sangue mentre dice
E il santo scettro ch'io stringo,
gronda di sangue !
Qui Guth, lasciando per un attimo Turandot a spargere sangue, lascia intendere che Altoum è alla fine della sua vita e sta cercando di assicurarsi una successione pacifica, da cui gli sguardi cupi verso la figlia che glielo impedisce e anche verso la macchia di sangue sul pavimento, traccia della precedente decapitazione. Guth introduce un aspetto dinastico e politico che sarà importante proprio nell'ultima immagine dell'opera.
Il rito degli indovinelli è già un rito di morte : Calaf viene introdotto con le mani legate e bendate, come un condannato a morte ; anche il boia viene introdotto e attende, seduto in un angolo ; e al momento degli indovinelli, i ministri tracciano un cerchio di cenere nera intorno all'"imputato", mentre lui si accovaccia sul mobile che è anche quello usato per la decapitazione. Il rito non è di indovinelli, ma di esecuzione.
Al momento degli indovinelli, Turandot è vestita (costumi di Ursula Kudrna) con una gonna di piume bianche, come un uccellino candido ; non è più la bambina che si protegge nel suo letto, e Calaf è liberato dai suoi legami.
Tutta la scena degli indovinelli non ha l'aspetto più o meno impersonale che a volte ha (Turandot in alto in lontananza che fa le sue domande e Calaf in basso che risponde davanti alla folla), ma al contrario regola la scena come un dialogo sempre più serrato tra due personaggi, e In questa reggia, in cui Turandot racconta la sua storia e le ragioni che la spingono a preservare la sua purezza (l'antenata violentata, le cui ossa tiene sotto il letto, esposte dalle bambole che la circondano), diventa un discorso (quasi una confessione) rivolto allo stesso Calaf. La giovane donna si muove nella stanza, guardando, interpretando, affermando e temendo allo stesso tempo. Anche se sono presenti i ministri, l'imperatore e il boia, quello a cui assistiamo è una scena di intimità di coppia, che Turandot sentirà sempre di più, fino a quando sarà terrorizzata e l'illuminazione isolerà i due personaggi, gettando nell'ombra tutti gli altri (luci di Olaf Freese). Turandot vive solo di morte e di ricordi di morte (brandisce un coltello alla fine della sua aria) perché vede gli enigmi come una strada inevitabile verso la morte, mentre Calaf vede gli enigmi come la strada della vita, perché sono la strada dell'amore.
Ogni risposta positiva da parte di Calaf sarà quindi una sorpresa, che scatenerà una serie di movimenti. Per ogni risposta, uno dei ministri pone nel cerchio nero una pietra nera, come una pietra lavica, mentre Turandot si rifugia con le sue bambole nell'angolo opposto della stanza, prima più o meno dignitosamente (prima risposta, la Speranza), poi sempre più angosciata (ma forse anche sempre più tentata, e quindi timorosa della tentazione). Inoltre, i gesti, gli sguardi e i movimenti di Asmik Grigorian sono sempre ambigui, come una partita giocata sul filo del rasoio.
Nel secondo indovinello, Turandot inizia circondata (e protetta) dalle sue bambole, dalle quali si libera ma rimane distante da Calaf (a differenza dell'indovinello precedente), mentre intervengono l'Imperatore e soprattutto Liù, come una figura lontana che attraversa il proscenio come un soffio d'ispirazione che ci ricorda la posta in gioco : l'amore. Questo provoca la reazione di Calaf, che singhiozza mentre le bambole tornano nell'angolo opposto e Turandot si agita in modo insolito mentre pone l'ultimo indovinello seduta sul letto, quindi rivolta verso Calaf, come se gli suggerisse la risposta (“Turandot”) quasi sfacciatamente, con sguardi insistenti e quasi offerti.
Turandot si rifugia subito in un angolo, protetta dalle sue bambole, ma qui il rito prende il sopravvento sullo scambio tra i due, come se non si appartenessero più : il letto viene posto al centro, è circondato da petali di rosa e ora ha due cuscini, letto matrimoniale, e molto rapidamente si deve passare alla consumazione : Turandot, coperta dal velo della sposa (come l'abbiamo sognata nel primo atto), diventa supplichevole con il padre per evitare di essere presa da Calaf, presa, offerta, consegnata. È un momento di straordinaria intensità, dominato dal canto di Asmik Grigorian, che getta il velo e torna a essere la bambina indifesa che si rifugia lungo il letto, divenuto barriera difensiva in un'immagine di singolare potenza.
L'atto si conclude con l'uscita di scena di tutti gli "assistenti", lasciando solo Turandot e Calaf, faccia a faccia, che devono ora risolvere il loro problema : amarsi senza paura, con lo slancio desiderato.
Calaf se ne va e Turandot si rifugia tra le sue quattro bambole, come una bambina spaventata e timorosa, senza più difese.
Atto III
Dare un nome alla persona amata è sempre una domanda forte. Non c'è amore senza "nominare". Ricordiamo la Phèdre (Fedra) di Racine che rifiuta di nominare Ippolito quando confessa il suo amore a la sua nutrice Œnone
ENONE.
Ippolito ? Santo cielo !
FEDRA.
L'hai nominato tu.
Il nome dell'amore è in gioco anche in Lohengrin, un altro amante senza nome che fa dell'assenza di nome la condizione dell'amore, il che è impossibile. È chiaro che si tratta di una sfida che va oltre l'enigma. Non si tratta di trovare solo il nome, ma di conoscerlo per amare. Sapere il nome di chi si ama è la condizione dell'amore. E non ci si può sbagliare, la risposta all'ultimo indovinello sottoposto a Calaf nel secondo atto è “Turandot”, e se nominare Turandot significa amarla, proporre Turandot come risposta a un indovinello che potrebbe mandarti a morire significa anche verificare l'esistenza dell'amore che protegge dalla morte.
Infatti, la proposta di Calaf a Turandot di indovinare il suo nome è anche una risposta speculare all'ultimo indovinello. Un modo per mettere alla prova il potere dell'amore.
Per questo il terzo atto inizia con una visione stravolta dello spazio, dove Turandot è nel suo letto in proscenio, protetta dalle sue bambole, e circondata da questo strano tappeto di fiori già intravisto degli altri atti, una sorta di percorso di vita fiorito da fiaba.
Lo spazio sarà quindi quello della sala, dove tutto è stato abbattuto – lampadari, sedie, armadi – come se il bell'ordine mortifero degli atti precedenti avesse lasciato il posto al disordine e al panico, e quello del proscenio, con tutti quelle scatole che sono ormai un'inutile visione della sconfitta finale della principessa. Questa prima immagine è un'immagine premonitrice di debolezza.
L'atto si svolgerà tra i due spazi, quello del proscenio che sarebbe quello dell'umanità e del dramma degli individui, e quello della sala di sopra, che è quello dello Stato, distrutto e sparuto, che cerca disperatamente di sopravvivere, come mostrano i tre ministri che cercano di corrompere Calaf attraverso la ricchezza, il potere e le donne (con l'ironia di Guth che dà alle "donne" la sagoma di Turandot).
L'arrivo di Turandot segna uno dei momenti più famosi dell'atto : la scena della morte di Liù, portata in scena con Timur, dove la giovane schiava si prende la responsabilità di confessare di conoscerne il nome (lei lo ama e dunque sa il nome… come abbiamo detto prima), per distogliere l'attenzione e prendere su di sé tutta la sofferenza e il sacrificio dell'amore.
Diventa una sorta di opposto di Turandot, con i suoi lunghi capelli neri (spettinati) e il suo vestito nero strappato, vicino a Turandot con i suoi lunghi capelli bianchi e vestita tutta di bianco. Liù sta al proscenio mentre Turandot seduta sul bordo del proscenio in una scena di violenza piuttosto forte la tiene in una morsa tra le gambe, le tira i capelli e cerca di tagliarli. Una visione in cui l'amore confermato di Liù per Calaf si materializza di fronte a Turandot, presa in una trappola che cerca di eliminare ciò che Liù rappresenta e ciò che lei stessa sta vivendo, per lei insopportabile.
Il resto dell'atto è costruito intorno alla graduale accettazione dell'amore da parte di Turandot, dal momento in cui chiede a Liù cosa le dia la forza di superare il dolore. Quando l'altra risponde l'amore, scende in proscenio per ascoltare con grande attenzione (e non incredulità) il monologo di Liù Tanto amore, segreto e inconfessato, che rappresenta per Turandot il pericolo peggiore (a cui ha già ovviamente ceduto mentre cercava ancora di proteggersi), per il quale chiama il boia per porre fine a Liù, ma da cui si protegge riprendendo nel suo letto la posizione infantile sotto la lenzuola del secondo atto, protetta dalle bambole. Liù, animata da una forza che la libera dal boia e dal ministro, inizia Tu che di gel sei cinta in una sorta di dialogo implicito tra le due donne che lascia Turandot contemplativa e spaventata quando Liù si toglie la vita.
Segue una scena funebre rituale (petali di fiori), una sorta di marcia funebre in cui viene portato il cadavere dell'eroina, che ricorda la morte di un altro eroe, Sigfrido : il morto che rivela il vero. Ma che è anche il momento della fine della musica di Puccini, celebrata anche da questo rituale.
Guth, in modo molto opportuno e intelligente, fa scendere la parete che separa spazio scenico e proscenio, da una parte lo spazio del rito e dello Stato, dall’altra il proscenio, lo spazio degli individui. Allo stesso tempo, il sipario cala sulla musica di Puccini prima che, dopo un breve silenzio, inizi la musica di Alfano, il duetto che Puccini avrebbe voluto essere il suo duetto di Tristan und Isolde.
In questo duetto, Turandot, consapevole di essere stata conquistata dall'amore, cerca ancora di proteggersi da esso, irrigidendosi nel letto con le sue bambole, ma Calaf scende al suo livello, strappa il lenzuolo protettivo e le dà il bacio fondatore voluto da Puccini, che le bambole cercano di impedire con un inutile movimento di strappo. Guth lo costruisce come uno stupro, Calaf strappa il lenzuolo e la giovane donna si raggomitola in attesa dell’aggressione.
E poi l'effetto del bacio, che è l'effetto fremente dell'amore, la penetra (fissandola sulle scale) e inizia il duetto della rivelazione dell'amore. Il punto di svolta della storia che è momento della confessione (in Phèdre è l'inizio della fine, mentre nel teatro di Marivaux la confessione amorosa è il momento in cui tutti i confini si abbassano, in cui l'espressione della verità senza falsi pretesti apre sul futuro. E questo che succede, e Calaf lo capisce. Dal momento in cui Turandot confessa di amare e di aver amato Calaf appena è apparso, nulla gli impedisce di nominarsi, perché amore implica la conoscenza del nome. E anche se il libretto riserva ancora qualche momento dilatorio, tutto è stato detto e non c'è più alcun dubbio in materia. Risoluzione.
Allora si alza il sipario sulla stanza il cui suolo è questa volta ricoperto dal tappeto di fiori che copriva la scala del primo atto, che segnava l'ingresso della sua camera da letto nel secondo atto e che pendeva sul proscenio nel terzo, davanti al quale Liù si è uccisa e sul quale, coperta dal velo e coprendosi le orecchie, Turandot ha ricevuto il nome dell’amato.
Il tappeto di fiori (una sorta di arazzo fiorito, nel complesso eccessivamente dimostrativo) è quindi un'evocazione di questo altro mondo, questo nuovo mondo in cui tutto prende colori.
Il finale è costruito da Claus Guth come un momento un po' artificioso (per il quale è stato criticato), un po' rapsodico e in contrasto con la raffinatezza di alcuni momenti che lo hanno preceduto, ma Claus Guth è troppo intelligente per non averlo voluto, tanto più che questo momento (un po' come quello di Barhaktov nella sua regia, tra l'altro) non è musicalmente uno dei più riusciti dell'opera e nemmeno delle musiche stesse di Alfano.
Quindi costruisce l'ingresso dell'Imperatore, ancora sofferente per la tosse, e di tutto il suo popolo, con il coro che questa volta ritorna in proscenio proprio quando la coppia, sdraiata sul suo tappeto di fiori, sta finalmente vivendo una sorta di intimità bucolica con le bambole crollate in proscenio (Turandot non ne ha più bisogno), e la scena sembra un coitus interruptus. Tutto lo Stato è presente e gli sposi si separano, diventando la coppia di eredi "ufficiali", la principessa e il principe seduti su due troni indossano ciascuno un nastro, come alla fine della fiaba in cui la principessa sposa il principe azzurro. Una foto ufficiale della famiglia reale… l'obiettivo dinastico dell'Imperatore, di cui abbiamo parlato nel secondo atto, è stato raggiunto.
Ma no, Turandot getta via il suo nastro regale e toglie quello di Calaf, e lo trascina via, in un finale alla Eva e Walther che rifiutano il mondo fossilizzato dei Meistersinger – un po' di disinvoltura, anche, in un finale musicale in cui solo l'amore trionfa su ogni altra considerazione. La leggerezza, il sorriso, l'ironia di un Claus Guth che riserva sempre sorprese all'ultimo secondo.
Gli aspetti musicali
Direzione musicale
Fin da Madama Butterfly è nota la preoccupazione di Puccini di conoscere con precisione usi e costumi esotici, per non travisare un mondo totalmente estraneo al nostro.
Per Turandot, ha voluto utilizzare la tradizione musicale cinese non solo ampliando la gamma strumentale, perché era curioso di creare nuove sonorità o nuove musiche, ma anche utilizzando melodie cinesi ben note che poteva ripetere, Ad esempio, riprese il motivo popolare "Fiore di Gelsomino" (ascoltato nel coro dei bambini, poi utilizzato come tema di Turandot) o estratti dall'inno a Confucio, lavorando sulla scala pentatonica come Bartok o Debussy.
La seconda caratteristica di questa musica è segnata dal desiderio di tornare a una sorta di "Grand Opera", un genere che Puccini aveva sfiorato con La Fanciulla del West, ma che non caratterizzava la maggior parte delle sue opere. Inoltre, parlare di Grand-Opera è forse una licenza linguistica, essendo il genere così marcato alla metà del XIX secolo, sarebbe forse più opportuno parlare di opera spettacolare, e Puccini era molto ansioso di impressionare il pubblico con un grande spettacolo, aveva scritto didascalie molto precise, e dimostrava un desiderio di pittoresco che non era né aneddotico né appariscente, ma piuttosto fedele a una certa immagine di una Cina ormai conosciuta attraverso le fotografie e anche il cinema. Così produzioni come "Turandot nella Città Proibita" diretta da Zhang Yimou (e diretta da Zubin Mehta) nel 1998, al di là del loro aspetto commerciale, possono corrispondere a una visione che Puccini aveva, così come varie produzioni di Zeffirelli, in particolare quella per Verona fino a poco tempo fa (e appunto diretta da Marco Armiliato) e anni fa alla Scala con Lorin Maazel.
Non si tratta di discutere l’approccio intimista di Guth di fronte a quello indubbiamente diverso voluto da Puccini (sic transit…), ma di mettere in luce una produzione musicale dal respiro ampio, spettacolare e complesso, alla quale i grandi specialisti pucciniani (Karajan, Mehta, Maazel in particolare) hanno lasciato il segno. Era quindi comprensibile che Franz Welser-Möst, che qualche anno fa aveva diretto una bella Fanciulla del West (con Kaufmann e Stemme) all'Opera di Vienna, fosse desideroso di completare la sua visione dell’affresco pucciniano con Turandot, considerata l'opera più complessa del compositore (anche se Fanciulla non è così semplice, tutt'altro). Con Welser-Möst impossibilitato a dirigere, è stato chiamato Marco Armiliato, ben noto a Vienna come direttore d'orchestra di qualità ma più per riprese che per le nuove produzioni.
Armiliato non è nuovo alla partitura, che dirige "à l'italienne" come si suol dire, cioè a memoria, e va detto che il lavoro svolto a Vienna è tutt'altro che di routine, anche se di lusso. Armiliato è riuscito a rendere trasparente una partitura complessa, senza dubbio la più elaborata del compositore, in cui Puccini ha dato notevole importanza al colore, ma anche alla diversità strumentale, con un'abbondanza di percussioni e ottoni, che Armiliato non sovrasta mai, e in cui modula solo al servizio delle voci, che da direttore d'opera di indiscutibile esperienza risparmia, sostiene, lascia respirare.
Il risultato è una delle più belle esecuzioni recenti del capolavoro pucciniano (in questa sala ho ascoltato Maazel, senza dubbio il più grande pucciniano della fine del XX secolo, con Marton, Carreras, Ricciarelli e l'Altoum del veterano Waldemar Kmentt), accompagnato da un'orchestra particolarmente impegnata. L'Orchestra della Wiener Staatsoper non ha sempre l'ardore e la serietà che ci si aspetterebbe dall'orchestra che di tanto in tanto si trasforma in Wiener Philharmoniker a due passi dal teatro. Ma questa sera ha il suono, la brillantezza, la trasparenza e soprattutto la linea desiderata : bisogna sentire come rende i suoni leggeri e serafici (fenomenale il passaggio del coro dei bambini), ma anche come non preme mai troppo, rendendo la partitura ariosa e sottile, lasciando che si ascoltino tutti i dettagli più raffinati. Raramente abbiamo sentito una differenza così marcata con la parte scritta da Franco Alfano, non che la suoni meno bene o con più disattenzione, ma proprio, suonandola con lo stesso impegno e la stessa qualità, si sente chiaramente lo spessore minore, la linea melodica meno elaborata, l'artigianalità della composizione e non il genio.
C'è chiaramente una forte intesa tra il direttore e la sua orchestra, che dimostra la qualità e la raffinatezza del lavoro svolto insieme, e che soprattutto dimostra che quando la buca di Vienna è grande, ha pochi rivali.
Lo stesso si può dire per il coro diretto da Thomas Lang, molto favorito nel primo atto perché seduto in proscenio di fronte al direttore, come in un oratorio, e molto meno in seguito, perché invisibile e nascosto da una scelta scenica che favorisce l'intimità e il confronto tra i singoli personaggi. Resta il fatto che egli mostra potenza, precisione e vera cura nel fraseggio.
Va inoltre menzionata l'eccellenza del coro di voci bianche della Opernschule der Wiener Staatsoper (diretto da Johannes Mertl), la cui apparizione è uno dei punti salienti scenici e musicali della produzione.
Le voci
L'importanza del sistema di repertorio viennese richiede una troupe più ampia che altrove, con voci in grado di sostituire i cantanti ospiti impossibilitati a esibirsi con breve preavviso, o di assumere ruoli principali o importanti. Così forse i cosiddetti ruoli di supporto sono più anonimi o meno idiomatici di quelli ascoltati a Napoli qualche settimana fa, scelti ad hoc, ma resta il fatto che tutti compongono un ensemble omogeneo e irreprensibile.
È il caso del Mandarino di Attila Mokus, ruolo ridotto ma subito esposto perché apre l'opera (Popolo di Pechino…), con voce forte, ben proiettata e fraseggio senza problemi.
L'Altoum di Jörg Schneider non ha ovviamente la forza emotiva di Nicola Martinucci a Napoli, ma il suo timbro chiaro è molto deciso e il suo personaggio di imperatore umanista stremato dagli orrori kafkiani causati dalla figlia è particolarmente ben reso.
Allo stesso modo, il Timur di Dan Paul Dumitrescu, anch'egli come il precedente membro della troupe, ha un timbro caldo che si adatta al personaggio del vecchio cieco (molto diverso da quello di Alexander Tsymbalyuk a Napoli, più vigoroso e giovane); canta con molta umanità, un bel colore drammatico nella voce e un'ottima proiezione, sia nel primo che nel terzo atto quando Liù muore.
Anche i tre ministri, Ping, Pang e Pong, sono particolarmente ben adattati alla messa in scena ; in una produzione così meccanicistica, questi tre personaggi spesso visti come una sorta di macchina unica con tre teste si inseriscono perfettamente in una produzione in cui sono sia macchine che individui. Le voci (due tenori e un basso) si armonizzano bene tra loro, così come i fisici dominati dal basso Martin Hässler, membro della troupe con un fisico allampanato, opposto a Hiroshi Amako, giovane tenore anch'egli membro della troupe e prima membro dello Studio. Conosciamo meglio Norbert Ernst, un tenore di carattere che è stato un bel Loge nel Ring di Castorf a Bayreuth. Tanto per la loro disinvoltura sul palcoscenico quanto per l'armonia delle loro voci che cantano insieme o alternativamente, con un abile senso del ritmo e del tempo, formano un trio davvero ineccepibile sul palcoscenico (riescono a commuoverci e ad apparire finalmente umani all'inizio del secondo atto) e per lo stile vocale, l'ironia, il colore e gli accenti.
Liù è Kristina Mkhytaryan. È una Liù piuttosto insolita in questa produzione, in quanto Claus Guth vuole vederla più come figura che come personaggio (è sempre accompagnata da quattro Liù che sono doppi, come le bambole che accompagnano Turandot). Quindi il suo canto impeccabile, tecnicamente molto controllato, con una linea di fiato particolarmente ferma e controllata, ma un po' fredda, è adatto a questo tipo di personaggio. Certo, Rosa Feola era più vibrante e commovente a Napoli, ma il personaggio non era affatto lo stesso. Qui è un'officiante, al servizio di Timur e Calaf, e il suo canto è perfetto ma distante. Certo, la musica di Puccini è struggente, ma nel contesto di questo spettacolo rimane una Liù trattenuta (e il suo abito nero e la pettinatura impeccabilmente curata lo confermano) al fianco dei "maestri" e un po' distante. E il suo canto perfettamente fluido e impeccabile lo conferma ; è una Liù perfetta, ma senza l'umanità che il più delle volte contraddistingue il personaggio. Questo è chiaro nel terzo atto, dove, spettinata e lacerata, si potrebbe pensare che il suo canto si liberi un po', ma rimane impeccabile e ordinato come impeccabile era la sua acconciatura negli atti precedenti. Non si è sfogata, ed è un peccato, perché da un punto di vista strettamente tecnico non ha nulla da rimproverarsi.
Jonas Kaufmann affronta Calaf per la prima volta sul palcoscenico dopo averlo registrato insieme a Sondra Radvanovsky con Antonio Pappano. La sua voce tenorile dai toni scuri, che non ha la brillantezza dei grandi Calaf come Pavarotti o Carreras, o anche Martinucci, si adatta al personaggio previsto dalla messa in scena. È un Calaf consumato dall'amore che "soffre" ("Io soffro, padre, soffro!" grida nel primo atto) e che non ha nulla di luminoso, e un Calaf che viene dal profondo, come la messa in scena mima dal prologo muto facendolo emergere da una botola.
Tre elementi spiccano nella sua interpretazione.
Anche oggi ci sono Calaf più potenti, più a loro agio con le esigenze della partitura, ma nessuno dei Calaf di oggi riesce a cantare innanzitutto con questo senso del fraseggio e degli accenti, con questo modo unico di dire il testo, di marcare le parole (così chiare, così udibili). La voce certo non ha più la giovinezza o l'energia luminosa che abbiamo conosciuto in altri ruoli, è un po' più spenta, ma mantiene il suo fascino perché è prima di tutto espressione, prima di tutto gioco di emissione, mezze-voci, sottolineature che si ammorbidiscono fino a perdersi e che sono uniche e commoventi. Suo non piangere Liù è già un miracolo di moderazione e di espressione di profonda umanità. Il suo Nessun dorma diventa una meditazione e poi una certezza interiore, un’espressione della forza dell’amore completamente vissuta e incarnata, che rende il momento impressionante perché sa giocare anche sulle fragilità vocali. Nessuno meglio di lui conosce le proprie possibilità e i propri limiti e li utilizza al servizio esclusivo dell'espressione, come il modo ogni volta diverso in cui modula vincerò.
Dà al personaggio una presenza unica grazie a un carisma scenico e vocale che riempie il palcoscenico : bisogna vederlo nel primo atto tra esitazioni, timori e certezze, sguardi vaghi e insieme spirito di decisione ; bisogna vedere la sua andatura, a volte esitante, a volte decisa ; bisogna vedere anche gli abbozzi di gesti, con il Principe di Persia, gli sguardi verso Timur. In questo atto in cui è al centro, è spesso affascinante perché è lontano dal Calaf sicuro di sé e dominatore ; non sfida, è portato da una certezza interiore, come da una fede. E questo è affascinante.
Altrettanto affascinante è il canto più eroico e impersonale del secondo atto, con i suoi incredibili momenti di dolcezza, come il modo ineffabile in cui canta a Turandot, paralizzata dalla paura
dimmi il mio nome,
prima dell'alba !
E all'alba morirò !
cantato con la dolcezza e la delicatezza di una carezza d'amore, un modo di cantare che smentisce ciò che dice, perché sa che pronunciando il suo nome l'amore sboccerà…
Infine, al contrario, mostra un impegno totale nel terzo, eroico e straziante, affrontando Liù e poi Turandot. Jonas Kaufmann ci dimostra che un grande Calaf, cioè un Calaf che canta e vive, che mette a nudo la sua umanità e i suoi dolori, cambia completamente il volto di uno spettacolo. Ci sono Calaf con molto più volume e più voce che non riescono a trasmettere nulla. Questo Calaf trasmette così tante sfumature, così tanta vita, così tanta forza da lasciare sbalorditi.
Di fronte a lui, Asmik Grigorian affrontava per la prima volta il ruolo ex nihilo. Dopo aver debuttato Salome e Lady Macbeth durante la stagione questi sono stati altri ruoli in cui la cantante ha dimostrato la sua incredibile plasticità, scivolando in un profilo di personaggio da cui ha tratto una potenza espressiva senza precedenti.
Due settimane prima, avevamo di fronte una Turandot opposta, Sondra Radvanovsky, anch'essa lontana dalle gole d'acciaio a cui il ruolo è più spesso affidato. Ma aveva l'umanità della cantante del Belcanto, che cercava nella sua tecnica di canto l'umanità tanto desiderata da Puccini. Ed è stata sorprendente.
Con Asmik Grigorian non si sente la stessa cultura, ma una vera modernità creativa. La Grigorian è una creatrice originale che trae il suo canto dalla sua forza interiore ed espressiva. Quando ha interpretato Salome ad Amburgo, abbiamo parlato dell'ampliamento della sua voce che le ha permesso di dare le note giuste e gli accenti giusti alla vita che voleva esprimere. È una di quelle artiste che non sono prima di tutto voci, ma gesti, movimenti, atteggiamenti e impegno totale che portano corpo e voce in una nuova avventura. Asmik Grigorian è portata da una visione, registica : forse non avrebbe potuto cantare allo stesso modo nella visione di Barkhatov a Napoli, ma qui il canto è inseparabile dalla visione del personaggio, dalla sua costruzione.
Questa Turandot non è una donna di ferro (impossibile immaginare una Nina Stemme o una Birgit Nilsson in questo ruolo di una giovane donna fragile come una bambola di cellulosa), e qui, la fragilità della giovane donna sul suo letto protettivo, con le "bambole" ai suoi piedi, rimanda attraverso l'immagine al tema dell'infanzia, di un'infanzia esposta e angosciata che, per proteggersi dal mondo, preferisce applicarvi la legge dell'omicidio. È dopo aver intravisto quest'ombra proiettata nel primo atto, questa visione suggestiva, quasi infantile, che si determina il nostro rapporto con il suo modo di cantare, con questa voce incredibilmente sicura di cui si percepiscono anche i limiti, se non la fragilità, perché, come Kaufmann, riesce a trasmettere qualcosa della sua fragilità nel suo temibile In questa regia attraverso la sola recitazione, attraverso gesti abbozzati e contraddittori. Questo gioco tra ostentazione infantile e fragilità angosciosa riesce a trasmetterlo attraverso il canto, che esplode nella disperazione quando alla fine rifiuta di essere consegnata al "principe ignoto" che l'ha "vinta" nel gioco degli indovinelli, come un giocattolo umano ormai indifeso, come una bambina al padre che la rimprovera. Riesce a trasformare In questa reggia, un monologo in cui siamo abituati a saggiare l'acciaio della voce, in un monologo lirico, alternando fragilità e sicurezza, giocando con i colori, con un'incredibile omogeneità vocale. Raramente si è sentita una Turandot così, che canta tutte le note più temibili, portando il personaggio altrove, nella terra delle fanciulle vibranti, non delle gole in armatura, in modo che l'attenzione non si concentri sulla performance vocale, ma sull'incarnazione.
La sua interpretazione nel terzo atto con Liù, che lei cerca quasi di soffocare con le gambe per impedirgli di esprimere ciò che lei stessa sente e che si impedisce di fare perché ne è terrorizzata, è uno spettacolo a se. Tutto il suo volto mutevole esprime queste contraddizioni, che il canto prolunga. Nel caso della Grigorian, il canto nasce da una tale interiorizzazione della performance da imporre un'espressione, degli accenti che non è detto che troverebbe se non fosse guidata dai grandi registi. È una di quelle cantanti che può esprimersi appieno solo attraverso una lettura specifica, costruita intorno al suo personaggio : è immensa solo se viene veramente "messa in scena" da registi che ne percepiscono le incredibili possibilità, che la spingono fuori da tutte le sue zone di comfort e, soprattutto, che creano un contesto per la sua recitazione e il suo canto.
Quo non ascendat ?[1]
Questa produzione è stata trasmessa dal canale televisivo austriaco ORF2. Non dovrebbe essere difficile accedervi e lo consiglio vivamente.
Una seconda serie di recite è prevista per questa stagione l'1, il 4, il 7 e il 10 giugno 2024, diretta da Axel Kober e con Fabio Sartori nel ruolo di Calaf e il resto del cast invariato. Visita il sito web
https://www.wiener-staatsoper.at/en/season-tickets/detail/event/992495293-turandot/
[1] adattamento di "Quo non ascendam", il motto di Fouquet, ministro delle finanze del Re Sole, che il geloso Re Sole fece arrestare e rinchiudere a PInerolo per il resto della sua vita.