Uno dei luoghi più suggestivi costruito per le accademie del declinante Rinascimento, il Teatro Olimpico di Vicenza è l'ultimo lavoro di Andrea Palladio (1580). Si tratta di uno dei luoghi più adatti per il primo capolavoro dell'opera, dal momento che l'Olimpico e il nascente genere dell'opera in musica condividono uno scopo : quello di rifondare l'antica tragedia attica, la quale nasce – si dirà un paio di secoli più avanti – dallo spirito della musica.
È bene chiarire che La favola d'Orfeo andato in scena al Teatro Olimpico non è completamente ci Monteverdi : il finale è stato interamente composto dal direttore artistico del Vicenza Opera Festival : Iván Fischer. Il finale che ci è pervenuto nella partitura stampata a Venezia nel 1609 fu scritto da Monteverdi in sostituzione al primo finale eseguito a Mantova, di cui sopravvive solo libretto ma non è giunta traccia della musica. Si tratta di un finale dionisiaco, più vicino alla versione originaria del mito, che vede Orfeo vittima dello sparagmos, il massacro perpetrato dalle Menadi bramose di cibarsi delle sue carni.
Appena si abbassano le luci, si resta piacevolmente sorpresi dalla toccata affidata a un solo flauto introdotto e accompagnato dal tamburo ; una soluzione raffinata che evoca le musiche da torneo e splendidamente interpretata dal primo flautista dell'ensemble, che si produce in vertiginose diminuzioni. In questo modo la toccata cresce su sé stessa e il ripieno orchestrale viene raggiunto gradualmente. È solo un primo lusinghiero segnale di una compagine orchestrale che si rivelerà l'elemento portante e – in non pochi casi – salvatore di questo Orfeo.
Sì, perché è stato principalmente grazie all'esperienza di orchestrali e cantanti che alcuni atteggiamenti della direzione musicale sono stati smussati e hanno trovato una ragion d'essere, dal momento che questa si è rivelata molto spesso frettolosa e priva di poesia. Arie, cori, recitativi, canzoni da ballo si succedevano come convogli di una metropolitana, uno dopo l'altro, senza una reale intenzione drammaturgica.
Parte il treno Orfeo, si arriva alla fermata Rosa del ciel, si prosegue per il coro Lasciate i monti e via verso il secondo atto e oltre. Un atteggiamento di freddezza e insensibilità teatrale che un cast strumentale e vocale di alto livello possono contribuire a lenire ma non a risolvere.
Emöke Baráth (la Musica ed Euridice) è dotata di una voce limpida e agile, una dizione accurata e un grande controllo di un'emissione infallibile, elementi che la portano a destreggiarsi con assoluto agio nel non facile incipit nei panni di Musica. Orfeo, interpretato da Valerio Contaldo, è assolutamente convincente con il suo timbro pieno, ricco nei diversi registri di tenore tendente al grave, tessitura perfetta per il ruolo di Orfeo. Sa commuovere e irretire, gioire e disperare con una contenutezza e un'eleganza che non tolgono un briciolo di vigore alla sua interpretazione. Sia Baráth che Contaldo, come anche i numerosi membri del corpo di ballo e gli altri interpreti, sono gravati da una croce assai pesante che tuttavia riescono a portare con dignità : i costumi.
La favola d'Orfeo è un'opera sul potere della musica, un'opera meta-musicale, si potrebbe asserire, e in questo caso più che in altri si è trattato di un'interpretazione da ascoltare piuttosto che da guardare. I costumi di Anna Biagiotti si rivelano fin da subito puerili : corti chitoni in stucchevoli colori pastello per i figuranti, un'improbabile tunicone da Fata Turchina per Musica ed Euridice, un abbigliamento alla Jesus Christ Superstar per il povero Contaldo. Una comune hippie abbigliata come nei peggiori peplum degli anni Cinquanta, in cui al pubblico non vengono risparmiati nemmeno sandaletti argentati e fiori di plastica da minimarket.
Plutone e Proserpina sono una coppia vincente : lei (Nuria Rial) forse un po' troppo civetta, ma la voce è talmente centrata e chiara, capace di un piano incisivo e non sussurrato, che risulta comunque efficacissima nel suo ruolo ; ugualmente efficace e bravo Antonio Abete, un Caronte tartareo e dotato di una presenza scenica imponente che lo rendono credibile e austero anche nella risibile barchetta di plastica madreperlacea che una scenografia sadica gli impone.
Fortunatamente ci pensa ancora una volta l'ensemble strumentale a creare una scenografia potente, questa volta grazie al coro di tromboni dotati di un senso d'insieme tale e di una pasta sonora tanto morbida e rotonda da riportare con la mente a un periodo lontano e mai vissuto : quello del tardo Cinquecento veneziano, ove queste combinazioni di voci e strumenti erano usati per le celebrazioni (sacre e profane) dalla Cappella Marciana. Nella grande cassa di risonanza dell'Olimpico l'effetto acustico mette brividi di commozione, che ritorna anche nel finale del quarto atto rinforzato dai cornetti e da un ottimo quartetto di voci maschili provenienti da coro, che si producono in un'interpretazione energica e raffinata del madrigale È la virtute un raggio.
Ma l'Olimpico giace lì, immobile, declassato a "splendida cornice"; ignorato nella sua perfezione neoclassica, non sfruttato nel suo ruolo di scenografia perenne delle strade di Tebe, ridotto a un contenitore e a uno schermo su cui proiettare la traduzione del libretto. Un'idea di regia non c'è ; solo nel finale di Fischer si tenta di andare oltre al didascalico e si osa rievocando il massacro orgiastico con un bacco bellissimo giovane, Sileno in perenne eccitazione sessuale, Venere botticelliana, parodiata con molta ironia da uno splendido corpo di ballo.
Un Orfeo salvato dalle "maestranze" e dai lavoratori dello spettacolo : i musicisti, i cantanti, i ballerini, in cui direzione musicale, regia e scenografia fanno una figura barbina di fronte ai veri professionisti della musica. Forse, a questo punto, un'interpretazione pertinente.