Primo frutto della collaborazione tra un librettista in stato di grazia – Lorenzo Da Ponte – e un musicista che dallo stato di grazia non esce mai – Mozart -, Le nozze di Figaro (andato in scena a fine maggio al Teatro Massimo di Palermo) adatta come si sa alla scena musicale la commedia La folle journée ou le mariage de Figaro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais. Molto si è discusso e ancora si discute su quanto sia effettivamente passato nell'opera di Mozart delle implicazioni ideologiche presenti nel lavoro di Beaumarchais. I rapporti di forza tra le classi – la borghesia rivoluzionaria di Figaro e Susanna, e l'aristocrazia arroccata in privilegi ormai fuori corso del Conte e della Contessa – rimangono infatti intoccati nella trasposizione musicale : Figaro è sempre più furbo del Conte, e la sua intelligenza politica prevale sulla fiacca rivendicazione di privilegi del suo capriccioso “datore di lavoro”. Un quadro sociologico adeguato delle Nozze dovrebbe però tenere conto del fatto che Susanna è più furba dello stesso Figaro – a dimostrazione forse di come l'essenza ultima di una borghesia grimaldello della società e detonatore della Storia vada in ultima analisi ad annidarsi nel ruolo della donna. Detto questo, il discorso sulle Nozze come araldo della borghesia rivoluzionaria avrebbe un senso se solo si potesse prescindere completamente dalla musica. Il fatto è però che a Mozart importa poco della dialettica fra classi, e molto della dialettica fra persone, e la musica tesse la sua tela incantata disegnando un continuo rovesciamento dei rapporti di forza fra i personaggi, che ha più la leggiadria e la levità sognante del Midsummer night's dream di Shakespeare che la spietata lucidità sociologica del Mariage di Beaumarchais.
Coincidendo con gli assunti del libretto in una misura che è estranea al più composito Don Giovanni e anche al più intellettualistico Così fan tutte, nelle Nozze di Figaro Mozart pare muoversi come il folletto shakespeariano Puck che passa da un personaggio all'altro travolgendolo con l'intensità del volo e lasciandolo sottosopra, per poi fare un secondo vorticoso giro che lo rimette amorevolmente in piedi. È l'umanità dei personaggi, non la loro estrazione, ciò che attira il compositore, ed è veramente sorprendente il grado di empatia al quale può giungere la musica di Mozart quando si china sui primi palpiti erotici di un adolescente, sulla malinconia di una donna matura e non più amata, per di più circondata da una provocante giovinezza, e perfino sull'insicurezza presaga del tramonto propria al personaggio a capo di tutta questa colorata società, il Conte, che sente come il suo potere e la sua visione del mondo comincino a essere insidiati non dai singoli personaggi – i pur temibili Figaro e Susanna, con la loro propaggine pasticciona Cherubino – ma dalla forza inopponibile della Storia che si sta schierando dalla loro parte.
Bene fa dunque Chiara Muti quando concepisce una regia tutta giocata sull'interiorità e sui mutevoli rapporti fra le persone – le loro baruffe, i loro sogni, le loro malinconie, le loro riconciliazioni -. Al netto di qualche caduta di gusto relativa a una gestualità a volte troppo caricata, che incrina il mirabile equilibrio mozartiano nel senso di una commedia di second'ordine – quando danno vita a quello che sarebbe un bisticcio di pura civetteria femminile, pieno di verve e di sottintesi, qui Susanna e Marcellina si tirano letteralmente i capelli -, l'impostazione della Muti rispetta per solito un testo che ha nella grazia, cioè nel riscatto preventivo di qualunque grossièreté, il suo tratto distintivo. Aiutano la pronuncia chiara ed elegante dell'opera le bellissime scene di Ezio Antonelli. Il palazzo del Conte è costruito come una luminosa dimora settecentesca fatta tutta di grandi vetrate ed esili nervature lignee che, viste dalla platea, fanno l'effetto di una grande trina – preziosa e trasparente – distesa sulla scena. Questo ambiente funzionale, provvisto anche di due grandi e accoglienti scale, da cui compaiono e scompaiono i personaggi alla perenne ricerca di un nascondiglio, si trasforma nel quarto atto in un giardino parimenti elegante, dove fronde filiformi di salici piangenti, che ripropongono gli effetti geometrici delle vetrate, piovono su un grazioso gazebo che ospiterà lo scioglimento della vicenda.
Buona complessivamente la parte musicale. Il Conte (Simone Alberghini) e la Contessa (Mariangela Sicilia) danno vita a una convincente coppia di sposi un po' stanchi ma in fondo disposti a farsi travolgere dalla corrente elettrica dell'eros quando ne vengono sfiorati. Figaro è l'ottimo Alessandro Luongo, bravo a disegnare un personaggio tanto furbo e fiducioso nella propria capacità di trarre vantaggio dagli innumerevoli imprevisti, quanto fragile quando viene investito dai dubbi sulla sua compagna. Susanna è Maria Mudryak, vocalmente impeccabile e puntualissima nel disegnare l'unico personaggio, forse, che non perda mai il filo delle macchinazioni incrociate. Apprezzabili anche Cherubino (Paola Gardina), Marcellina (Laura Cherici), Bartolo (Emanuele Cordaro), Basilio (Bruno Lazzaretti), Curzio (Giorgio Trucco), Barbarina (Daniela Cappiello), Antonio (Matteo Peirone).
Passando con fair play forse eccessivo sopra errori di pura sciatteria dell'Orchestra del Massimo – gli archi riescono a stonare passaggi in prima posizione -, Gabriele Ferro dirige questa folle giornata con la consueta esperienza e puntualità, anche se è discutibile la scelta di riaprire tutti i tagli (l'opera così dura troppo e il quarto atto si sgrana perdendo coerenza drammaturgica). Si potrebbe estendere alla direzione il discorso fatto a proposito di Chiara Muti : una lettura nel complesso convincente con occasionali cadute di gusto. Alcune arie, per esempio “Non so più cosa son, cosa faccio”, tendono a essere troppo nervose, e in generale si nota l'inclinazione di Ferro a risolvere in concitazione un po' fracassona ciò che deve restare tensione, “stretta” nell'accezione tecnica del termine. Anche se si escludono le scene dove chiaramente la regista esagera nel senso della corrività della soluzione, per esempio il ballo di gruppo assolutamente incongruo del finale primo, resta comunque l'impressione generale di una leggera sovradeterminazione nella resa sia da parte della regia che della direzione : come se ci fosse un accordo preventivo tra buca e palco a dire tutto in maniera fin troppo chiara, quasi che per capire lo spettatore non potesse fare da solo ma avesse bisogno di cartelli segnaletici con le istruzioni per l'uso.