Il soggetto era ormai usurato dopo aver destato l’interesse di un Auber, di un Mercadante, di un Bellini che non arrivò al dunque causa fine prematura. A Verdi, sempre alla ricerca di situazioni non convenzionali, parve comunque interessante e si destreggiò con la tipica caparbietà passata alla storia.
A Napoli, in un primo tentativo, dovette alla fine gettare la spugna e così scrisse drastico :
“La Vendetta in Domino si compone di 884 versi : ne sono stati cambiati 297 nell’Adelia, aggiunti molti, tolti tantissimi. Domando inoltre se nel dramma dell’Impresa esiste come nel mio
Il titolo ? – No.
Il poeta ? – No.
L’epoca ? – No.
Località ? – No.
Caratteri ? – No.
Situazioni ? – No.
Il sorteggio ? – No.
Festa da ballo ? – No." ((Carteggi verdiani, a cura di A. Luzio, Roma, 1935))
Ma di andare in scena a Roma non poté proprio fare a meno. Per una volta fu lui a rincuorare il poeta :
“Armatevi di coraggio e di pazienza, sopratutto di pazienza ! […] la Censura ha mandato una lista di tutte le espressioni e dei versi che non vuole. Se a questa lettura vi sentite montare il sangue al capo, deponete la lettera e ripigliatela dopo d’avere pranzato e dormito bene. Pensate che nelle circostanze attuali il miglior partito è di dar quest’opera a Roma. I versi e le espressioni colpite da quella Censura son molte, ma potevano essere anche di più […]”((Verdi a Somma, estensore del libretto del Ballo in maschera, lettera del 6 agosto 1858))
Non par vero, alla fine Verdi si fece andar bene la trasposizione dalla Svezia di Gustavo all’America di Boston. Il salto d’ambientazione grande ma la vicenda, in sostanza, inalterata : nell’opera resta il sottile equilibrio tra tragedia e leggerezza d’ascendenza mozartiana, l’assassinio del Sovrano amato dal Popolo da parte dell’uomo estratto nel sorteggio per mano del Destino, l’accusa d’adulterio. Il re Gustavo di Svezia diventa Riccardo, Conte di Warwick, il suo fidato Il Conte Anckastrom si cambia nel segretario creolo Renato, inalterata resta l’efficacia del ballo durante il qual viene assassinato Gustavo/Riccardo con quei piani sonori che nascono dal Don Giovanni e finiranno dritti (?) nei Pagliacci.
C’è però, a ben guardare, una diminutio significativa nella versione allestita dal Festival Verdi 2021, che prosegue il suo interessante percorso di analisi delle fonti verdiane con proposte mai scontate((avevamo dato conto lo scorso anno dell’edizione di Macbeth rappresentata in francese .Ved. il link sotto)): nel ritorno al libretto originale e all’ambientazione svedese, troppe volte si sente la mancanza di una più salda amicizia tra Riccardo e Renato, cui siamo abituati nella versione che venne effettivamente rappresentata a Roma.
Basti per tutte la scena dell’antro di Ulrica : dopo lo sgomento dell’annuncio dell’assassinio, Riccardo si volta e cerca di stringere la mano al primo che osa farlo. Gran sospiro di sollievo dei presenti, l’unica mano che si offre è quella di un inconsapevole Renato, che per fortuna è il suo più caro amico ; questa volta la maga non può che essersi sbagliata, per forza.
Sul palcoscenico e in teatro, passato lo spavento, l’umore torna dei migliori.
Ebbene, nella prima versione del libretto, quanto più gelido e deferente quel “Ma. Sire !” con cui Anckastrom stringe la mano di Gustavo rispetto all’affettuoso “Riccardo !” che gli rivolge Renato. Quanto più illusorio il testo romano nel rassicurare anche noi….
E’ questo un esempio che conferma, se servisse, lo scavo psicologico e il talento drammatico di Verdi, che riesce a cavar fuori vero teatro persino con il cambio di pochi versi del libretto.
“Cosa resta per il re che ha tutto ? Piaceri proibiti ? Rischio ? Rivoluzione ? Oppure castrare l’establishment per conquistare l’amore del popolo ? …del suo paggio?…della moglie del suo migliore amico ? Lo stile di vita revisionista dello svedese Gustavo III gli ha procurato molti amici, e molti nemici, mentre lui stesso corteggiava il pericolo con tutto l’autodistruttivo fulgore di un artista la cui più grande creazione sarà la sua stessa morte.” (Graham Vick, traduzione di Jacopo Spirei)(( dal programma di sala dello spettacolo))
Il regista Graham Vick ci ha lasciato il 17 luglio di quest’anno quando cominciava a definirsi questo Ballo in maschera, e il suo progetto artistico è stato portato a termine dall’allievo Jacopo Spirei. Per quanto difficile possa risultare l’unità d’intenti tra due artisti, ne esce comunque uno spettacolo interessante e senza cadute di tensione.
Racchiuso da un fondale cilindrico, per lo più variabilmente illuminato da tonalità fredde e colori pastello, l’impianto scenico è essenziale, costituito da una tomba sormontata da una statua alata. Disseminati sul palco, in funzione dei momenti, qualche seggiola e pochi oggetti di scena. Un taglio orizzontale nella parte superiore del fondale ospita il coro, che in questo caso è una vera e propria corte reale ancor più spettatrice di quanto la storia vorrebbe, essendo affidata ad un eccellente gruppo di mimi lo svolgersi della vicenda scenica.
Genericamente attualizzati i costumi all’epoca di fine ottocento, la vicenda scorre via fluida senza particolari licenze per il nostro gusto odierno, a partire dal preludio a sipario aperto dove il corteo a lutto ci rimanda al funerale di Gustavo.
Il regista evidenzia che il Ballo è opera in cui trionfa l’ambiguità e così movimenti frenetici, gestualità contorte, dame che sfoggiano all’improvviso lunghe barbe creano occasionali momenti di tensione. Prendendo spunto dalle note di Vick, sarebbe stato interessante ritrovare nello spettacolo un più approfondito scavo nella psicologia dei personaggi e, soprattutto, delle loro interazioni.
Ideale sostegno a questa regia è la direzione asciutta e precisa di Roberto Abbado. Sin dal preludio l’orchestra emerge per la nitidezza e l’eleganza, un suono mai viscerale o enfatico ma sempre diretto, pulito, spigliato, attentissimo al ritmo e alla concertazione.
Pure ricercatezza di tinta e fraseggio sono continui : bello il colore aspro con cui apre la scena di Ulrica come l’introduzione dell’aria di Amelia del secondo atto, un bellissimo quadro in bianco e nero.
Equilibrata e di buon livello la distribuzione degli interpreti vocali, in particolar modo il reparto maschile che vedeva impegnati Piero Pretti e Amartuvshin Enkhbat nei ruoli principali. Tenore dalla voce squillante, dal fraseggio vario e ricercato, Pretti restituisce un Gustavo III dalla linea e dalla leggerezza che rimandano alla radice mozartiana dell’opera. Momenti incandescenti come il duetto con Amelia del secondo atto ne escono inevitabilmente ridimensionati.
In sintonia con il taglio registico del suo personaggio, il giovane baritono mongolo disegna un personaggio roccioso e composto, la voce torrenziale cui siamo abituati è misurata e sorvegliata sino ad un travolgente Eri tu, che riceve l’applauso più intenso della serata.
Meno brillante il reparto femminile che ha visto il soprano Maria Teresa Leva riprendere nelle recite il ruolo di Amelia, interpretata alla prima da Anna Pirozzi. Il giovane soprano, spigliata nella recitazione, mette in luce una voce discreta in quanto a volume e colore, che trova il momento migliore nell’aria del terzo atto, faticando per il resto dell’opera nelle regioni estreme dell’estensione vocale, anche per via di una dizione perfettibile.
Ottimamente in parte l‘Oscar di Giuliana Gianfaldoni, vocalmente non riconducibile alla categoria delle voci leggere e pirotecniche, ma perfettamente credibile con la sua voce lirica in questa regia che evidenzia tratti di ambigua femminilità pur in veste maschile.
Degna di ogni lode l’ottima Ulrica di Anna Maria Chiuri, sicura tanto nei suoni acuti quanto nei gravi, mai esagerati né volgari. La voce è salda in tutta l’estensione e, per una volta, il personaggio non è parodia da fumetto ma una figura veramente inquietante e ben cantata.
Perfetti i ruoli minori, tra cui meritano di essere ricordati almeno il Cristiano sonoro e preciso di Fabio Previati, e i due cospiratori Ribbing e Dehorn, rispettivamente Fabrizio Beggi e Carlo Cigni, come pure di altissimo livello la prova della Filarmonica Arturo Toscanini in buca e del coro del Teatro Regio.
Al termine della recita applausi per tutti gli interpreti, particolarmente prolungati per Amartuvshin Enkhbat, Piero Pretti, Roberto Abbado e Maria Teresa Leva.