È questa l'ultima opera di Leos Janáček, un'opera molto particolare. Il compositore stesso ne trasse il testo dal romanzo Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, che riflette l’esperienza personale dello scrittore russo, quando fu condannato per motivi politici a quattro anni di reclusione in un campo di lavoro in Siberia. Quasi ogni riga del libretto proviene direttamente dal romanzo, che però Janáček ha inevitabilmente dovuto accorciare in modo drastico, prendendone alcuni episodi ed anche singole frasi e poi montandoli in modo diverso, cambiandone la successione e la collocazione.

L’opera comunque resta, come il romanzo, un quadro dell’umanità rinchiusa in quella “casa di morti”. Manca uno svolgimento drammatico tradizionale, perché quale sviluppo può esserci in questo mondo chiuso, in cui ogni giorno è uguale all’altro ? I personaggi stessi sono spesso privi di una loro individualità e fanno parte di una massa senza volto e anche senza nome (letteralmente : molti sono indicati genericamente come il grande prigioniero, il piccolo prigioniero, il giovane prigioniero, il vecchio prigioniero, ecc.) Ma alcuni per qualche minuto emergono dal gruppo e raccontano se stessi, il loro delitto, la loro nostalgia della vita precedente, la loro disperazione e talvolta i loro sogni di riscatto e di una nuova vita : questi episodi sono il centro nevralgico dell’opera e vi si avverte qualcosa dell’impronta religiosa cristiano ortodossa molto forte di Dostoevskij, che in Janáček si trasforma però in una spiritualità più moderna. Ciò che a lui interessa è soprattutto indagare nella psiche di questi personaggi : è quel che Milan Kundera ha definito “il furore psicologico” di Janáček.
Di tutto questo – che è ciò che rende Da una casa di morti un unicum nel teatro musicale non soltanto del Novecento ma di ogni epoca – non rimaneva quasi nulla nello spettacolo visto a Roma, come se Warlikowski considerasse un difetto intollerabile l’atmosfera grigia e soffocante di quest’opera, la sua assenza di azione e la sua spiritualità. Le ha così sostituite con un’altra e diversissima drammaturgia, con la complicità di Christian Longchamp, indicato nella locandina come drammaturgo.

Mentre nell’opera tutto ciò che veramente conta si svolge nell’anima dei personaggi e le azioni sono ridotte al minimo, il regista polacco, preso da un senso di horror vacui, gremisce il palcoscenico con una folla in perenne movimento, inventa in continuazione controscene che creano solo confusione, chiede a cantanti, figuranti e comparse una recitazione molto caricata, molto fisica, a tratti anche atletica. In palcoscenico si balla spesso e volentieri, in stile break dance, perché – questo ormai non scandalizza nessuno – l'azione è trasportata ai nostri giorni, non più in uno squallido gulag russo della metà dell'Ottocento ma in un moderno carcere americano dotato di qualche confort, tra cui attrezzature sportive e schermo televisivo gigante. Sembrerebbe un "prison movie" americano. Ma non basta : per rendere più vivace e colorato il tutto, una prostituta – una bellissima donna, con chioma bionda, bustino e pantaloncini glitterati e stivali bianchi – circola liberamente e del tutto incongruamente fra i detenuti dall'inizio alla fine dell'opera, mentre Janáček prevedeva soltanto una brevissima apparizione della "più orrida delle prostitute", le cui prestazioni erano riservate alle guardie del carcere.
Nemmeno durante i preludi orchestrali dei tre atti Warlikowski lascia campo libero alla musica e su uno schermo grande quanto il palcoscenico proietta spezzoni di interviste (prive di audio e sottotitolate) a Michel Foucault e ad un condannato in attesa dell'esecuzione nel braccio della morte di una prigione americana : sono interviste molto interessanti, che si sarebbero ascoltate volentieri, però in un altro contesto.

Warlikowski aggiunge ma anche toglie, cancellando la rappresentazione di Kedrill e Don Giovanni e La bella mugnaia, due sgangherati spettacolini realizzati dai carcerati nel giorno di Pasqua, col risultato che lo spettatore sente nominare – per fare un solo esempio – una certa Elvira ma non ne capisce il motivo e resta disorientato.
Paradossalmente questa serie infinita di piccoli e grandi tradimenti della volontà del compositore, che vorrebbero rendere più varia l'opera, ottengono l'effetto contrario ed uniformano tutto. A ciò concorre anche l'accorpamento dei vari atti (secondo una discutibile consuetudine che si sta affermando in questi anni) in un lungo atto unico, mentre Janáček aveva sottilmente differenziato i tre brevi atti originali, di cui il primo e il terzo dovrebbero svolgersi in due ambienti distinti del carcere (il cortile e l'infermeria) e il terzo in un campo lungo il fiume. Oltretutto un atto unico di quasi cento minuti è piuttosto faticoso da seguire senza mai un calo della forte e ininterrotta concentrazione richiesta all'ascoltatore da quest'opera.

La dimostrazione definitiva dell'abissale distanza tra Janáček e Warlikowski è il finale. Janáček immagina che un'aquila, che nella prima scena i prigioneri tengono incatenata, prenda il volo verso la libertà. Warlikowski la sostituisce con un giocatore di basket, che dopo una lunga serie di lanci sbagliati riesce finalmente ad andare a canestro. Questa trasposizione prosaica, per non dire comica, dell'idea carica di valore simbolico e poetico di Janáček, è inspiegabile, se non con l'incomprensione, l'insofferenza, il senso di superiorità, o come altro si voglia definirlo, di Warlikowski nei confronti di un compositore di cent'anni fa.

n tutto spettacolo qualcuno può aver ravvisato la mano di un regista geniale, viceversa potrebbe averlo ideato qualsiasi giovane regista à la page, mettendo insieme una serie di tic del teatro di regia di questi tempi. L’esperienza e il mestiere di Warlikowski si rivelano però nell’ottima direzione dei cantanti, che recitano tutti come attori consumati : ogni movimento, anche quelli appena percettibili dallo spettatore, è esattamente calcolato e perfettamente realizzato. Indubbiamente il merito va anche ai cantanti stessi, per la maggior parte anglosassoni, quindi formatisi ad una scuola che considera la recitazione altrettanto importante della vocalità.
Premesso di non poter esprimermi sulla correttezza della loro pronuncia ceca, che è fondamentale in un’opera basata interamente su una sorta di moderno recitar cantando, tutti i numerosissimi personaggi sono stati realizzati in modo ammirevole. Bravi tutti, dunque. Del foltissimo cast, citiamo almeno gli interpreti dei personaggi che emergevano dall’anonimato del gruppo : Mark S. Doss (che interpretava Goriančikov, il prigioniero politico che in qualche modo rappresenta Dosteovskij), Stefan Margila, Pascal Charbonneau, Erin Caves, Julian Hubbart, Ales Jenis, Clive Bayley, Lukas Zeman e Marcello Nardis.

Ma la maggiore responsabilità dell’esito di un’opera corale come questa ricadeva sulle spalle del direttore Dmitry Matvienko e a lui di conseguenza va il maggior merito di questa spendida esecuzione. Dalla tinta di fondo apparentemente uniforme dell’orchestrazione ha saputo far emergere una miniera inesauribile di colori strumentali, d’invenzioni armoniche e di articolazioni ritmiche, senza però forzare il rigore e l’essenzialità della scrittura di Janáček, che rifiuta qualsiasi effettismo. L'unico appunto è che in qualche momento il suo gesto energico ha spinto gli strumenti ad intensità che coprivano parzialmente le voci. La maturità dell'interpretazione e la padronanza dell'orchestra di questo giovane bielorusso hanno ottenuto dai complessi del Teatro dell’Opera di Roma una risposta di alto livello : concentrata, duttile, precisa, incisiva l’orchestra e accurate e flessibili ‑nonostante non avessero dimestichezza con quest’autore e questa lingua – le voci maschili del coro, preparate da Ciro Visco.
Quanto a Warlikowski, lo attendiamo a prove migliori.
