Probabilmente pochi lettori conoscono Cesare Lievi, una delle grandi speranze della regia teatrale e lirica della fine degli anni ottanta del secolo scorso. La sua storia merita di essere ricordata.
Cesare Lievi e suo fratello Daniele hanno creato all'inizio degli anni ottanta un piccolo teatro, il "Teatro dell'Acqua", nella loro città Gargnano del Garda, senza grandi mezzi. Pochi mezzi certo, ma idee cosi belle che hanno attirato gli sguardi di molti teatri, soprattutto tedeschi. I due fratelli, indissolubilmente legati e appassionati di cultura tedesca hanno firmato In particolare uno spettacolo in miniatura che fu una delle creazioni geniali del decennio, il Barbablù di Georg Trakl (poi ripreso nell'attico del Burgtheater di Vienna). A loro dobbiamo molti spettacoli teatrali, in particolare a Heidelberg (il nuovo inquilino di Ionesco, per esempio), e anche all’opera (una bellissima regia della Clemenza di Tito di Mozart a Francoforte).
Ciò che ha reso originali loro spettacoli è stato lo stretto legame tra le scenografie di Daniele Lievi, i testi scelti e le idee delle regie di Cesare (con le favolose luci di Gigi Saccomandi). Ma la prematura scomparsa di Daniele Lievi, attorno al 1990, ha interrotto questa serie di affascinanti spettacoli che avrebbero senza dubbio portato i due fratelli a diventare figure di riferimento sulla scena europea. Cesare ha continuato a produrre spettacoli, tra cui il Parsifal inaugurale della stagione scaligera il 7 dicembre 1991, sotto la direzione di Riccardo Muti, e, tra gli altri, La Cenerentola montata a Zurigo nel 1994 (dove ha anche fatto Ariadne auf Naxos) con l'allora giovane Cecilia Bartoli, che è stata ripresa al MET nel 1996.
Ma la perdita del fratello è stata senza dubbio un colpo così duro che Cesare ha poi smesso di produrre con l'entusiasmo che aveva segnato i primi anni. Cesare Lievi insegna regia all'Università di Milano ed è anche autore di numerose traduzioni di grandi testi teatrali tedeschi. È uno dei più interessanti uomini di teatro degli ultimi trent'anni.
Così è stato con particolare emozione che ho visto questo Cenerentola, dove si può riconoscere il "tocco" estetico di Lievi con questo universo magrittiano, questo realismo poetico che non ha perso nulla del suo fascino e del suo effetto sul pubblico, anche dopo 26 anni. E questa emozione è tanto più vibrante quanto più Cecilia Bartoli, ora l'immensa stella che conosciamo continua a interpretarla, con la stessa freschezza e giovinezza, ma dando al personaggio una maggiore profondità forse e una maturità che conferisce ad Angelina un peso singolare.
Sono poche le produzioni che tengono il cartellone per così tanto tempo, soprattutto Cenerentola, dove solo la produzione di Ponnelle del 1973 (un altro colpo di genio) – la produzione madre, per così dire, ne contesta la longevità a Monaco di Baviera e alla Scala. Altre produzioni più recenti (quella di Michieletto a Salisburgo, per esempio), senza essere mediocri, sono "occasionali", corrispondono a un punto di vista particolare, più legate all'attualità, altre sono mediocri e da relegare nel dimenticatoio della storia (Guillaume Gallienne a Parigi). Quelle di Lievi e Ponnelle hanno un carattere "senza tempo", che non invecchia e che rende giustizia alla profondità dell'opera.
Questo è chiaro nel lavoro di Lievi, che tiene conto della diversità di un'opera in cui la parte buffa si giustappone col cinismo e la crudeltà. Trasforma Angelina in un personaggio che è sottomesso solo in apparenza, ma che non pensa di meno, e che sa anche manovrare. E la presenza di Bartoli facilita ovviamente questa visione, perché Bartoli non è mai tutto di un pezzo e dà sempre un peso particolare alle sue interpretazioni. Gli altri personaggi sono più conformi alla tradizione, soprattutto le due sorelle birichine e il padre indegno, che non sono in questa produzione caricature, ma partecipi volontari di un gioco sciocco, da cui sono assenti tutti i sentimenti : le sorelle obbediscono alla loro ambizione, il padre le mette in mostra per racimolare i soldi che gli permetteranno di rifare la casa pericolante. Sono solo giochi di interesse, dove solo l'apparenza conta.
L'unica che non ha nulla da perdere è Angelina, ignorata dalla sua famiglia, e in fondo rappresenta solo se stessa, visto che don Magnifico la nega (la spaccia anche per morta) e non vuole sentirne parlare. Conformi anche il Principe, Dandini, e in misura minore Alidoro : la personalità dell'eroina che fa funzionare la macchina.
Il libretto di Jacopo Ferretti muove e trasforma Perrault, sostituendo la fata con Alidoro, una sorta di angelo custode, prima del principe di cui è il precettore, poi di Cenerentola che protegge e trasforma (e Luigi Perego, l'autore dei costumi, gli regala un abito bianco e ali dorate “ali d’oro”), trasformando la storia della pantofola in una storia tutta arrangiata di braccialetto perso, senza dare un peso decisivo alla storia della prova della pantofola (cosi importante da Perrault): In sostanza, tutto è presto risolto. Ciò che è interessante, al di là del racconto, è la reazione delle sorelle e del padre, su cui si concentra tutta la parte finale : hanno difficoltà ad ingoiare la notizia e Angelina perdona dando loro una lezione, come quei sovrani illuministi cari a Mozart. La clemenza è anche un'arma della vendetta.
L'altro carattere di questa produzione è il suo dispositivo apparentemente leggero, che pero non risparmia sorrisi ed effetti (la comparsa dell'asino che vola sullo sfondo, durante l'aria di Don Magnifico mi sognai…un bellissimo somaro…, la tempesta dove l'ombrello di Magnifico va in fiamme, salvato da una Cenerentola che, nonostante tutto, ama suo padre…
A Lievi sono sempre piaciute le scene dove scorrono panelli, dove l'occhio non è distratto da un arredamento troppo carico : qui, come spesso nel lavoro di Lievi, si tratta di una scatola, come una scatola magica, aperta su un cielo alla Magritte (che è anche il luogo dei sogni‑, dove il passaggio realtà/sogno è segnato da cambiamenti di luce.
Nonostante tutto (è intenzionale?) due lunghe pause segnano il passaggio dalla casa di Magnifico al palazzo di Ramiro nel primo atto e dal palazzo alla casa nel secondo, che ostacola la fluidità dello svolgimento del dramma, ma che segna anche due atmosfere. L’essenzialità delle scene non sembra giustificare un'attesa così lunga, ed è senza dubbio un modo per mostrare il cambiamento di luogo e la drammaturgia.
Per quanto riguarda il pasto finale (con gli spaghetti) nel primo atto, è un'allusione appena velata a Ponnelle, dove Lievi aggiunge un gioco sul posto del principe, dato che Ramiro, ancora maggiordomo, prende il posto di Dandini, quindi una sorta di gioco di sedie, dove tutti cercano di occupare un posto a tavola. Per quanto riguarda gli spaghetti, è difficile non vedere un'allusione a L'Italiana in Algeri dello stesso Ponnelle.
Infine, nel finale, tre pezzi della torta di matrimonio sono tagliati per il padre e le due sorelle birichine, che Angelina stessa serve loro (servendo loro la torta diventa un segno di perdono e non un segno di schiavitù). Dare loro la loro "parte della torta" è anche associarli al trionfo, cioè dar loro un beneficio, dando loro una presunta lezione di moralità, di comportamento e di umanità. L'ordine regna nella terra di una Cenerentola che non è così ingenua.
Come è stato sottolineato, si tratta di una produzione storicamente basata su Cecilia Bartoli, che continua a interpretare Angelina-Cenerentola, dopo 26 anni, con lo stesso successo, legata a una produzione da lei creata. Il ruolo di Bartoli è come una "macchia d’eternità”. In questo senso è paragonabile alla Mimi di Freni, che, a sessant'anni, continuava a cantare il ruolo dove sembrava fresca e giovane come sempre, e che continuava anche a portare ogni tanto Mimi nella produzione di Zeffirelli da lei creata alla Scala, proprio come la Bartoli nella produzione Lievi.
Senza continuare a giocare con i paragoni, nella Cenerentola di Bartoli ci sono elementi permanenti, la giovinezza, la freschezza, ma ora anche la maturità (questa Angelina non è un'oca, né un'ingenua) c'è anche la maestria tecnica dove si inventano variazioni o nuove cadenze, ma anche la profondità, e lo spessore dell’interpretazione dove Bartoli passa in modo vertiginoso dalla gioia alla malinconia, dalla serietà all'astuzia : c'è una plasticità della recitazione e del volto, un senso del ritmo e una varietà di espressioni che lasciano di stucco. Soprattutto, c'è un'intelligenza di scena e di gioco vocale da fuoco d'artificio, tanto espressiva è la voce, tanto controllate sono le modulazioni, tanto chiaro è il testo e perfetta la dizione in un ruolo che sembra fatto per la sua voce.
L'equilibrio palcoscenico-sala di Zurigo è sorprendente perché questa sala di medie dimensioni può ospitare Mozart e Rossini, ma anche Wagner e Zimmermann. Così La Cenerentola è di casa in una sala che ha la dimensione della maggior parte dei teatri del XIX° secolo, più paragonabile all'Opéra-Comique di Parigi che al MET o addirittura a Garnier. Amiamo Zurigo per questa plasticità e per un senso di intimità che ci fa sentire sempre molto vicini sia all'orchestra che ai cantanti.
E qui ci troviamo sulla soglia dell'ideale : Cecilia Bartoli, alla quale gli stupidi rimproverano una "piccola voce" ((Del resto, nel periodo del suo splendore, la Berganza non aveva una voce così grande e nessuno la rimproverava : la Berganza, come la Bartoli, sapeva semplicemente cantare, dire e soprattutto pensare)), sa gestire perfettamente le cose e adattare la sua voce allo spazio : a Zurigo, la sala le permette di fare quasi tutto. Il suo non più mesta è una dimostrazione pirotecnica di incredibile facilità, non si è perso nulla della sua leggendaria facilità nelle agilità, con un gioco incredibile su tutto lo spettro, dalle note basse alle alte, e una rara inventiva nelle cadenze, giocando sull'ironia, sui doppi sensi, sul colore. Che artista !
Di fronte a lei Javier Camarena compone un Ramiro eccezionale. Il personaggio è meno ricco di Cenerentola in questo gioco degno di una pièce di Marivaux in cui l'amante si traveste per vedere la verità degli esseri, ma Camarena trasfigura il personaggio togliendogli quello che può avere di scialbo. Camarena è un tenore dalla voce chiara, dalla dizione e dal fraseggio impeccabili, con una rara omogeneità nello spettro, mai manierista, sempre diretto e potente.
Sa anche osare di accendere fuochi d'artificio che mettono in ginocchio il pubblico (in particolare nella sua aria del secondo atto (Noi voleremo, – Domanderemo, (…)) dove gli acuti stratosferici sono stupefacenti, mentre allo stesso tempo mostra momenti lirici di rara delicatezza (in particolare nel primo atto Quell'accento, che sembiante
È una cosa sovrumana.)
dove Camarena risponde esattamente alla didascalia così chiara e precisa : da sé, astratto… È una performance da tutti punti di vista dove le due voci si fondono e si combinano perfettamente perché si ascoltano in un respiro e in una fusione comune.
Il terzo è Alessandro Corbelli. Il baritono italiano è uno dei cantanti più perfetti per Rossini : la voce non è mai stata molto potente, ma Corbelli è uno dei cantanti con lo stile più sicuro, con un'eleganza nel fraseggio, una chiarezza di dizione e un'espressione di qualità molto rara. L'anno scorso a Lucerna era un Dandini insolitamente maturo, quasi un sosia del Magnifico di Carlos Chausson, ed era eccezionale. Questo cantante possiede totalmente ciò che manca a molti dei suoi colleghi : il senso del testo e lo stile. Non è un Magnifico spettacolare come lo era Paolo Montarsolo, ma ritrae il personaggio in modo impeccabile nella sua vigliaccheria. Non esagera nulla, non è mai ridicolo, ma non suscita mai simpatia, come potrebbe fare un don Magnifico buffa.
È come dice il libretto : vile, meschino e poco attraente. Per questo è perfettamente in linea con la regia, anche se questa è una prima volta per lui a Zurigo, dato che la maggior parte delle riprese nel passato sono state cantate da Carlos Chausson, anche lui un grandissimo Magnifico. Alessandro Corbelli con i suoi mezzi attuali interpreta perfettamente il personaggio.
Dandini è Oliver Widmer : è il personaggio, con la sua leggera volgarità e la sua voce molto ben proiettata, sonora, presente. Ha quel lato un po' "esagerato" che si addice a Dandini. Articola il testo perfettamente, non è privo di eleganza, ma forse manca un po' della delicatezza del fraseggio rossiniano, perché non sempre ha la fluidità desiderata. Tuttavia, egli riempie il palcoscenico con la sua forte presenza e con una recitazione molto elaborata (anche lui conosce bene la regia, avendola praticata fin dall'inizio). Bravissimo.
Alidoro è il giovane basso russo Stanislav Vorobyov, nella troupe di Zurigo dopo esser stato membro dello studio : ottiene un successo personale, molto meritato nella sua aria la del ciel nell'arcano profondo, scritta da Rossini due anni dopo la prima dove l'aria di Alidoro Vasto teatro è il mondo molto più facile era stata scritta da Luca Agolini, responsabile dei recitativi. Da questa lunga aria, Vorobyov esce con molta presenza vocale, una bella potenza, uno stile : un nome da seguire perché non sempre si sente un Alidoro (un ruolo difficile) di questo livello.
Infine, le due sorelle con i loro costumi leggermente ridicoli, con un tocco di stravaganza ma senza esagerazione (in particolare quello di Clorinda, da sirena… e quello di Tisbe, una sorta di pomposa Papagena), l'una, Liliana Nikiteanu cantava Tisbe già nel 1994 e rimane uno dei pilastri della troupe dell'Opernhaus di Zurigo e l'altra, Martina Danková (Clorinda), è stata anche lei membro della troupe per molti anni : Padroneggiano entrambi i personaggi, conoscono perfettamente la regia e formano una coppia esemplare e impegnata sul palcoscenico.
Ma la novità di questa rinascita sta nell’aver affidato la direzione musicale a Gianluca Capuano, il direttore d'orchestra ormai fedelmente legato alle apparizioni sceniche di Cecilia Bartoli, un direttore d'orchestra che viene dal barocco e che guida la formazione barocca della Philharmonia Zürich, l'Orchestra La Scintilla, che sarà anche nella buca per l'Iphigénie en Tauride a febbraio.
La tradizione orchestrale legata alle opere di Rossini è stata fortemente segnata dalle nuove edizioni delle opere dovute alla Fondazione Rossini, e l'edizione de La Cenerentola di Alberto Zedda risale ai primi anni Settanta. È stata questa edizione ad essere usata da Claudio Abbado.
Claudio Abbado ha profondamente cambiato la visione musicale del sorridente Rossini, a partire dal Barbiere di Siviglia nel 1968 a Salisburgo e poi alla Scala. Poi con La Cenerentola, L’Italiana in Algeri e Il Viaggio a Reims. Da allora, ci sono stati altri grandi direttori d'orchestra per Rossini (Chailly, che con Bartoli ha registrato una Cenerentola referenziale), ma anche Daniele Gatti, che oggi dirige meno Rossini, ma che lo ha spesso diretto fino ai primi anni 2000 (ricordiamo una memorabile Donna del Lago a Pesaro), o Riccardo Muti che, però, si è interessato al Rossini serio. Ma il riferimento per il Rossini buffo rimane Claudio Abbado, insostituibile.
Bisognava quindi cercare un'altra strada, e la situazione di Rossini, ultimo autore di opere serie nel senso del XVIII° e primo compositore di Grand-Opera nel senso del XIX°, si trova all'incrocio di due periodi. Si cominciò così a interessarsi a una "rilettura" barocca delle opere rossiniane, eseguendole con orchestre esperte in questo repertorio. Cecilia Bartoli a Salisburgo aveva invitato Jean-Christophe Spinosi e il suo Ensemble Matheuz per La Cenerentola nella regia di Damiano Michieletto. Ma Spinosi ha poche affinità con questo repertorio e il suo approccio è tutt'altro che convincente. Ha anche chiamato Diego Fasolis, altro artista barocco, con Les Musiciens du Prince a Versailles nel 2017, e Gianluca Capuano è subentrato per una serie di Cenerentola, sempre con Les Musiciens du Prince, a Lucerna e altrove (vedi sotto il link verso il nostro articolo). Da allora, Capuano e Bartoli lavorano insieme. Si tratta quindi di un ripensamento del repertorio di quegli anni alla luce dell'approccio barocco e del suono degli strumenti antichi che Bartoli ha ormai imposto, una prova che credo verrà estesa al repertorio belcantista, a partire dal salisburghese Don Pasquale a Pentecoste 2020.
C'è stato infatti un effetto di fossilizzazione e incrostatura sia sul repertorio rossiniano che sul Bel Canto (e forse ancora di più sul Bel Canto) che istalla tradizioni e modalità di funzionamento un po' piatte da diffondere in tutti i teatri, perché le opere buffe di Rossini fanno parte del grande repertorio che ogni teatro, da San Pietroburgo a Buenos Aires, deve avere nel suo repertorio.
Uno dei meriti di Cecilia Bartoli, che non smette mai di approfondire il repertorio settecentesco, riesumando qua e là arie per la sua voce di mezzo-coloratura, è quello di sostenere questo movimento di rinascita, prestando la sua voce e il suo nome per far rivivere l'interesse per opere sconosciute oppure conosciute ma troppo inbalsamate.
Così, la direzione musicale de La Cenerentola si impone qui per la sua novità, per un approccio che sarebbe per certi versi quasi inquietante, tanto che il suono prodotto modifica in qualche modo le nostre abitudini d'ascolto. Gianluca Capuano, come sappiamo, è un direttore d'orchestra e anche intellettuale interessato alla filosofia e alla teoria musicale. È un lettore chirurgico delle partiture che analizza in modo acutissimo, fuori dai sentieri battuti : osa dove gli altri si nascondono dietro le abitudini e lo stucco che maschera le strutture portanti.
E infatti, egli fa sentire un Rossini molto aperto e sapiente (che, va ricordato, compose l'opera in poco più di tre settimane) che conosceva molto bene la musica del suo tempo, e non solo quella italiana. Saputa e risaputa, ad esempio, la sua conoscenza di Mozart e Haydn, ma meno enfasi è posta sulla sua ammirazione per Beethoven (che era una sorta di "rivale" durante il suo soggiorno a Vienna). Se Rossini ha dominato il mondo dell'opera lirica, e ben dopo la sua rinuncia al palcoscenico nel 1830–31, non è un caso : è un compositore estremamente dotato, e soprattutto capace di una somma qualità di orchestrazione, di una sapiente costruzione di sistemi di eco e di ascolto degli strumenti tra loro, con un notevole uso dei fiati. Egli è all'opposto di questa superficialità che a volte gli viene rimproverata o che segnano alcune interpretazioni delle sue opere (in particolare i pezzi leggeri).
Ha una tale conoscenza del contesto musicale del suo tempo, e delle partiture viste dall'interno che è capace di tutto : imitazione, pastiche, omaggio e innovazione. Inoltre, nella buona tradizione del manomettere le partiture cara al Settecento, non esita a riprendere le melodie, trasformandole, riadattando vecchie composizioni, rivestendo l'esistente dimenticato in una vertiginosa caccia al tesoro… Basta citare Non più mesta, l'aria finale di Angelina né La Cenerentola, nel suo rapporto "filiale" con l'aria finale di Almaviva nel Barbiere di Siviglia Ah il più lieto il più felice.
L'interesse della direzione di Capuano sta nel rivelare questo spessore "implicito" di Rossini. Innanzitutto il suono dell'orchestra, soprattutto per i fiati, è più aspro, quasi inquietante, senza nulla del sorriso amichevole di un Rossini insipido ; al contrario, è a volte brutale, e spesso sorprendentemente drammatico, più dramma che giocoso in un'opera intitolata appunto dramma giocoso. Così dietro un ensemble apparentemente buffo, dietro gli interventi di Don Magnifico, si sentono accenti più drammatici, quasi suoni che annuncerebbero le opere della fine, come se l'orchestra rossiniana ristabilisse la verità di un personaggio in realtà piuttosto nero. Ci sono anche alcuni accenti alla Cherubini, ma soprattutto beethoveniani : la tempesta dell'atto II è particolarmente emblematica in questo senso, nelle sue chiare allusioni alla Pastorale e nel suo sorprendente respiro orchestrale.
Ciò che colpisce nel suono dell'orchestra è innanzitutto la relativa durezza di certi momenti che ci ricordano che l'opera non è un’opera buffa, a cui non siamo necessariamente abituati, spesso a causa del suono di strumenti antichi, al limite della dissonanza (si noti ad esempio il vivace continuo diretto qui da Enrico Maria Cacciari che ha sostituito seduta stante il musicista previsto che era sofferente), fornendo al tempo stesso una lettura all’ampio respiro.
È poi la tensione permanente di un'orchestra tenuta sotto controllo, una tensione che irriga l'ensemble e che ne mantiene intatta la vivacità e la respirazione. Il ritmo è spesso vigile, i tempi vivaci, con una discreta ironia, una franca allegria, un vero e proprio lirismo. In altre parole, questa direzione cura i colori orchestrali con grande attenzione, proprio come a Lucerna l'anno scorso (con un'altra orchestra, forse un po' più fluida) e accompagna i cantanti con la preoccupazione di non rompere mai i ritmi del testo, i movimenti della regia, il modo di suonare dei cantanti e la loro espressione.
I principi di questo approccio, che si preoccupano di mostrare la diversità e la ricchezza, e quindi la profondità di un'opera che di solito non viene affrontata in questo modo, costituiscono per me un riferimento nell'interpretazione del Rossini sorridente di oggi. È un approccio moderno, che probabilmente sarebbe stato impossibile due decenni fa. Dimostra semplicemente che Rossini (e con lui il primo Ottocento) deve essere riletto da quel metro di valutazione. Il modo in cui la nostra visione del Bel Canto privilegia spesso la voce, al punto che si arriva a ignorare l'orchestra, deve essere riesaminato. Le esperienze con Donizetti (che tanto deve a Rossini) a Bergamo ne sono già un segno. Capuano concepisce, riflette e poi dirige : è un vero analista e questo si sente.
Come si vede, questa Cenerentola è molto più di un concerto per Bartoli e orchestra : è ciò che ha fatto il prezzo di una serata in cui Rossini respirava, magnificamente cantato da tutti, e accompagnato da un'orchestra con un nuovo suono, ritmo e spessore, in una produzione che rimane dopo 26 anni molto accurata e molto coinvolgente. Che bel regalo alle soglie del 2020.