A Verdi spiacque abbandonare l’ambientazione svedese del libretto originario di Scribe per collocare l’opera che diverrà Un ballo in maschera nella Boston del tardo Seicento : « Peccato ! Dover rinunziare alla pompa di una corte come quella di Gustavo III », scrisse ; Verdi vedeva sfumare, con i fasti regali, alcune ghiotte occasioni di lavoro musicale. La corte americana fu poco più che un ripiego, che causò non pochi problemi e richiese ulteriori rimaneggiamenti a un libretto che già di per sé non svettava per valore letterario. L’ambientazione nell’America repubblicana e schiavista, presumibilmente anteriore a Lincoln, voluta dal regista Gianmaria Aliverta risulta pertanto pressoché inspiegabile : un’epoca di cilindri neri e colletti bianchi, di rigorosa sobrietà puritana ha poco o nulla del brio cavalleresco auspicato da Verdi ma si decide comunque di ospitarvi una vicenda di passioni ineluttabili e le gesta di un regnante tendenzialmente frivolo e disincantato, ancorché saggio. Se poi si tenta di recuperare la leggiadrìa cortigiana magistralmente dipinta dalla musica con improbabili costumi sgargianti e con risibili anacronismi scenografici – come le generiche stars and stripes e gli enormi pezzi di Statua della Libertà, ma la lista potrebbe continuare a lungo – c’è davvero più di qualche cosa che non va, in questo allestimento.
Ma si sa : la regìa non è affare da musicologi, men che meno la scenografia e i costumi ; facciamo lavorare le orecchie, quindi. Una buona notizia : l’orchestra è in ottima forma e la collaborazione con Chung (che neppure una settimana fa ha regalato un Mahler da brividi) è felice e fruttuosa. Splendidi slanci melodici, linee secondarie in bella evidenza, ritmi tesi e incalzanti, episodi solistici o di dialogo con i cantanti ben curati e riusciti, raffinatissima l’orchestrina nel finale del terzo atto con il suo gelido Todesmenuett. Anche il coro sa il fatto suo e regala sezioni virili dalla sonorità possente, un canto franto e picchiettato dei congiurati preciso al secondo, un legato nei corali degno della sezione degli archi ; grandi equilibrio e varietà di suono con picchi di intensità e di lirismo.
Lo stesso non si può purtroppo dire dei cantanti, fin troppo in maschera loro stessi. Francesco Meli è un Riccardo dalla voce stentorea e ricca, tanto che rischia in qualche momento di sbraitare ; non risparmia nulla, infatti : dà tutto e si produce in continui portamenti – non di rado melensi – e in una dizione a tratti enfatica e retorica, birignao da comizio irredentista. L’intonazione però è buona e, a conti fatti, il suo è un Riccardo pertinente, forse un po’ manchevole di brio ed eleganza. Decisamente fuori luogo è invece l’eroina dello sventurato triangolo : Kristin Lewis, un’Amelia vocalmente schizofrenica, dotata di tanti timbri quanti sono i registri della sua voce, voce incoerente, che non ha nemmeno il pregio di un’intonazione impeccabile, né di una corretta dizione : non si contano le sillabe fagocitate tra un cambio di registro e l’altro, le sviste sulle consonanti doppie, le p le t esplosive. L’Oscar di Serena Gamberoni è gaio e brillante, ma non spicca per agilità vocale ; abbastanza riuscita l’accoppiata Tom & Sam resi sinceramente ridicoli dagli eccentrici abiti variopinti. Senza infamia e senza lode Silvia Beltrami (Ulrica) e Vladimir Stojanov (Renato), belle voci che interpretano le loro parti con correttezza, senza concedere esibizioni memorabili.
Una produzione – ahimé – assai povera, approssimativa e raffazzonata, poco attenta ai dettagli e all’intento del compositore, incline al kitsch, colma di incongruenze e stereotipi, con un cast mediocre – quando non insufficiente – che si salva per il lavoro egregio di coro e orchestra e per la preziosa bacchetta di Chung. Una mascherata superficiale e disimpegnata, piacevole – forse – ma ben lontana dagli intenti di un Verdi genuinamente drammaturgico alle prese con il suo personale Tristano.