Jacques Offenbach (1819–1880)
La belle Hélène (1864)
Opéra bouffe in tre atti , libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, prima rappresentazione al théâtre des Variétés (Parigi) il 17 dicembre.

Direzione musicale : Nathan Brock
Regia e coreografia : Renaud Doucet
Scene e costumi : André Barbe
Luci : Guy Simard

Oleksiy Palchykov, Pâris
Peter Galliard, Ménélas
Kate Aldrich, Hélène
Viktor Rud,  Agamemnon
Max Emanuel Cencic, Oreste
Ziad Nehme, Achille
Sungho Kim, Ajax premier
Dongwon Kang, Ajax deuxième
Christian Miedl, Calchas
Na'ama Shulman, Bacchis
Renate Spingler, Léoena
Gabriele Rossmanith, Parthoenis

Coro della Staatsoper di Amburgo
Maestro del coro : Eberhard FriedrichPhilharmonisches Staatsorchester Hamburg
(Orchestra Filarmonica di Stato di Amburgo)

 

Amburgo, Staatsoper, 17 maggio 2019

Nel bicentenario della nascita, la Germania ricorda questo suo figlio transfuga a Parigi, e ne mette in scena molte opere, anche quelle ormai dimenticate. Amburgo invece preferisce riproporre uno dei suoi maggiori successi, La Belle Hélène.

La belle Hélène (Prod Doucet Barbe) @KL

Dobbiamo purtroppo constatare che in Italia il bicentenario della nascita di Jacques Offenbach non sta avendo una grande eco. Tra le grandi fondazioni liriche soltanto il San Carlo di Napoli se ne è ricordato, riproponendo Les Contes d’Hoffmann, l’opera più celebre ma non la più significativa di questo autore, il cui vero genio è racchiuso nelle oltre cento tra operette e opéra-bouffe. Oltre al San Carlo si sono ricordati di lui il festival di Martina Franca, che ha messo in programma il rarissimo Coscoletto ou Le Lazzarone, e il Palazzetto Bru Zane di Venezia, la cui preziosa attività è però inevitabilmente condizionata dai limiti sia degli spazi a disposizione che del budget. Non mi pare che ci sia altro da segnalare.
Le cose stanno andando molto diversamente non solo in Francia, com’è prevedibile, ma anche e soprattutto in Germania, e questo è sorprendente, non tanto perché Offenbach stesso sembrerebbe aver voluto dimenticare di essere nato in terra tedesca, cambiandosi il nome da Jacob a Jacques, ma soprattutto perché la sua musica è quanto di più francese e di meno tedesco si possa immaginare : non vogliamo dire che oltre Reno l’ironia e la leggerezza siano sconosciute, perché sarebbe una battuta stupidamente razzista, ma è lecito notare che, negli anni in cui Offenbach scriveva le sue operette, la forma d’arte più rappresentativa della musica e di tutta l’arte tedesca era il dramma musicale di Richard Wagner. Ma da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e Offenbach è diventato un autore di successo anche in Germania, dove quest’anno molti teatri hanno messo in programma i suoi lavori, tra cui alcuni rarissimi, grazie anche all’encomiabile attivismo dell’editore Boosey & Hawkes.

La belle Hélène (Prod Doucet Barbe) @KL

Ad Amburgo la Staatsoper ha riproposto uno dei capolavori più noti di Offenbach, La belle Hélène in un allestimento di successo che risaliva alla stagione 2014–2015. Con questo opéra-bouffe, andato in scena a Parigi nel 1864 su libretto dell’impagabile coppia Henri Meilhac e Ludovic Halévy, Offenbach ritornava ad esercitare la sua sfrenata ironia sulla mitologia antica e sulle sue divinità così poco divine e i suoi eroi così poco eroici, che gli aveva già fruttato un grande successo nel 1858 con Orphée aux enfers. Nonostante l’autorevole critico classicista Jules Janin avesse accusato Offenbach di “profanare la santa e gloriosa antichità” e di gettare fango sulle toghe immacolate delle divinità greche, Orphée aux enfers fu un successo epocale e La belle Hélène ne ricalca la strada, ma, come spesso succede, il sequel è un po’ meno riuscito dell’originale.

L’allestimento di Amburgo era affidato alla “ditta” francese André Barbe (scene e costumi) e Renaud Doucet (regia e coreografia), che devono essere degli specialisti di Offenbach, se nel 2019 mettono in scena almeno tre suoi titoli nei teatri tedeschi. Secondo loro, La belle Hélène si svolge in epoca moderna – ça va sans dire –  e precisamente durante una crociera in Grecia sulla nave “Jupiter”. Lo spettacolo comincia prima ancora di entrare in sala, perché non è il suono del solito campanello ad avvisare che bisogna affrettarsi, ma la sirena di una nave : indubbiamente una trovata originale, che dà il “la” a uno spettacolo fatto di tante piccole idee come questa, ma simpatiche, spumeggianti, beffarde, irridenti, burlesche. Cosa si può volere di più da Doucet e Barbe ? Forse che siano più pungenti, caustici, mordaci e anche più sottili. Ma non si può chiedere troppo, vogliono innanzitutto divertire e ci riescono : questo basti.

Puntano molto sull’aspetto erotico (un erotismo tutto da ridere, ovviamente), non limitandolo a Paride ed Elena ma estendendolo a tutti, crocieristi ed equipaggio. Ecco infatti che fin dal momento di imbarcarsi sulla “Jupiter” i crocieristi – tutte coppie borghesi di mezza età – cominciano a guardarsi intorno per valutare la possibilità di qualche avventura erotica con i compagni o le compagne di viaggio. I baldi marinai sono ovviamente i preferiti dalle signore (e da alcuni signori) e si mostrano alquanto disponibili. Questo offe il destro per una serie di scenette (abbracci furtivi, rapide fughe in cabina da cui poi si esce risistemandosi i vestiti, ecc.) che provocano facilmente un sorriso, pur non essendo particolarmente originali. Il tono è a metà strada tra il musical dell’epoca d’oro di Broadway, con qualche scivolata verso il vecchio varietà televisivo, come nel caso dei due Ajax (l’Aiace Telamonio e l’Aiace Oileo dell’Iliade) che si presentano in scena vestiti da calciatori (l’Ajax è una squadra di calcio olandese) e si mettono anche a pulire la nave con spugne e scopettoni (Ajax è anche una marca di detersivi). Non manca qualche richiamo alla politica e alla cronaca attuali (compare in scena anche una sosia della cancelliera Angela Merkel) a cui personalmente sono piuttosto allergico, anche se capisco che può essere un tentativo di sostituire le tante allusioni di Offenbach alla politica e alla società del suo tempo, che oggi non siamo più in grado di cogliere : per esempio, quanti sanno che la mania di Menelao per i giochi di società stupidini ironizza su una simile passione nutrita da Napoleone III ?

Abbiamo riportato solo qualche esempio dell’incessante fuoco di fila di idee di Doucet e Barbe, non tutte preziosissime, ma sempre realizzate senza calcare la mano, con ritmo veloce e leggero e buon senso del teatro. È uno spettacolo godibile e siamo grati che ci siano stato risparmiate quelle cadute nel cattivo gusto a cui non tutti resistono quando mettono in scena un’operetta. Questa volta invece Offenbach è stato trattato con il rispetto dovuto ad un vero artista. Chissà che il bicentenario della nascita non sia il momento giusto per riconoscergli definitivamente questo status. In fin dei conti anche Rossini ha subìto più o meno la stessa sorte e fino a non molti anni fa era considerato, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, un musicista di terz’ordine, se non addirittura un guitto. Probabilmente ad Offenbach non ha affatto giovato la definizione, attribuita proprio a Rossini, di “Mozart des Champs-Elysées”: questa formuletta appariva troppo paradossale, sebbene l’intenzione fosse buona. Forse sarebbe stata più calzante definirlo “Rossini des Champs-Elysées”, perché le opere di Rossini e Offenbach hanno la stessa “follia organizzata e perfetta” e la stessa comicità assoluta, astratta, assurda, ma improvvisamente capace di mordere con denti aguzzi i caratteri e i comportamenti umani. Comune ad Offenbach e a Rossini è anche il pessimismo riguardo a quella commedia umana che è la vita : se non si può farci nulla, allora è meglio riderci sopra.

Kate Aldrich (Hélène) e Oleksiy Palchykov, (Paride) ©JO

Ma veniamo alla parte musicale di quest’esecuzione. La protagonista Kate Aldrich è nota – sarà un caso ? – soprattutto come interprete di Rossini, almeno in Italia : canta bene, ma è un po’ seriosa sia come cantante che come attrice e quando vuole apparire sciolta e disinibita si avverte che non è del tutto spontanea. Oleksiy Palchykov ha le physique du rôle di Paride, pastorello belloccio e imbranato, ma con uno spiccato debole per le donne ; vocalmente se la cava piuttosto bene, ma qualche segno di difficoltà si avverte, perché il ruolo non è facile anche per chi, come lui, è abituato a cantare Tamino, Lindoro, Nemorino e Lensky. Max Emanuel Cencic è passato agevolmente dai ruoli a lui consueti di controtenore dell’opera barocca ad Oreste, che qui è giovanissimo e non ancora animato da istinti matricidi, visto che Agamennone gode ancora di ottima salute. Il quale Agamennone aveva la voce generosa di Viktor Rud. Peter Galliard risolve Menelao più con la sua debordante presenza scenica che con il canto. Il resto del lungo cast era complessivamente adeguato.

Peter Galliard (Ménélas) ©JO

Il canadese Nathan Brock, un giovane Kapellmeister della Staatsoper amburghese, ha diretto Offenbach con buona precisione e con leggerezza veramente mozartiana. Impeccabile la Philharmonisches Staatsorchester Hamburg, mentre lo stesso non può dirsi del coro, impacciato anche dalla pronuncia francese.

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Mauro Mariani
Mauro Mariani ha scritto per periodici musicali italiani, spagnoli, francesi e tedeschi. Collabora con testi e conferenze con importanti teatri e orchestre, come Opera di Roma, Accademia di Santa Cecilia, Maggio Musicale Fiorentino, Fenice di Venezia, Real di Madrid. Nel 1984 ha pubblicato un volume su Verdi. Fino al 2016 ha insegnato Storia della Musica, Estetica Musicale e Storia e Metodi della Critica Musicale presso il Conservatorio "Santa Cecilia" di Roma.

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1 COMMENTAIRE

  1. Mariani al solito e' un plauditore acritico delle opere "attualizzate". Il danno fatto da Doucet alla cultura viene totalmente ignorato. Ormai non c'e' piu' limite alla ignoranza musicale. L'Elisir d'Amore a Rimini non e' certo il punto piu' basso

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